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Transcript

Dalla revoca dei diritti alla soluzione finale

"I giovani ricordano la Shoah"Edizione 2024/25Presentazione del lavoro degli studentiEducandato Statale Maria Adelaide

Cos'è successo in Europa nella prima metà del 900'

Ricordare può aiutarci ad evitare che accada di nuovo in futuro, anche se non basta: testimonianze di intellettuali

Cosa resta

Bibliografia e filmografia

Prodotto digitale a cura di: Barreca Giada, Giambruno Juri, La Barbera Sofia

Leggi di Norimberga

Leggi razziali in Italia

Protocollo di Wannsee

Legge sulla cittadinanza del Reich(.]Art. 2, comma 1. Cittadino del Reich è soltanto l'appartenente allo Stato di sangue tedesco o affine, il quale con il suo comportamento dia prova di essere disposto e adatto a servire fedelmente il popolo e ilReich tedesco.Legge per la protezione del sangue e dell'onore tedeschiPervaso dal riconoscimento che la purezza del sangue tedesco è la premessa per la conservazione del popolo tedesco ed animato dal proposito irriducibile' di assicurare il futuro della nazione tedesca, il Reichstag ha approvato all'unanimità la seguente legge:1. Sono proibiti i matrimoni tra ebrei e cittadini dello stato di sangue tedesco o affine. I matrimoni già celebrati sono nulli anche se celebrati all'estero per sfuggire a questa legge.2. Sono proibiti i rapporti extramatrimoniali tra ebrei e cittadini dello stato di sangue tedesco o affine.3. Gli ebrei non potranno assumere al loro servizio come domestiche cittadine di sangue tedesco o affinesotto i 45 anni.4. Agli ebrei è proibito innalzare la bandiera del Reich e quella nazionale ed esporre i colori del Reich.

Le leggi di Norimberga sono così chiamate perché ne venne dato l'annuncio durante l'adunata nazista del 15 settembre 1935 a Norimberga. Erano state precedute da altri provvedimenti discriminatori, come il licenziamento dei funzionari pubblici ebrei e l'esclusione degli ebrei dall'insegnamento e dal giornalismo.

in W. Hofer, Il nazionalsocialismo. Documerui 1933-45, Feltrinelli, Milano 1964, pp. 241-243

Le leggi di Norimberga

Il testo e il contesto

Tipo di fonte: provvedimenti legislativi Provenienza e datazione: Berlino, 15 settembre 1935 Autore: Reichstag, parlamento tedesco

Il testo e il contesto

Articolo 1. All'ufficio di insegnante nelle scuole statali o parastatali di qualsiasi ordine e grado e nelle scuole non governative, ai cui studi sia riconosciuto effetto legale, non potranno essere ammesse persone di razza ebraica, anche se siano state comprese in graduatorie di concorso anteriormente al presente decreto; né potranno essere ammesse all'assistentato universitario, né al conseguimento dell'abilitazione alla libera docenza. Articolo 2. Ale scuole di qualsiasi ordine e grado, ai cui studi sia riconosciuto effetto legale, non potranno essere iscritti alunni di razza ebraica. Articolo 3. A datare dal 16 ottobre 1938-XVI tutti gli insegnanti di razza ebraica che appartengano ai ruoli per le scuole di cui al precedente art. 1, saranno sospesi dal servizio; sono a tal fine equiparati al personale delle scuole elementari. Analogamente i liberi docenti di razza ebraica saranno sospesi dall'esercizio della libera docenza. Articolo 4. I membri di razza ebraica delle Accademie, degli Istituti e delle Associazioni di scienze, lettere ed arti, cesseranno di far parte delle dette istituzioni a datare dal 16 ottobre 1938-XVI. Articolo 6. Agli effetti del presente decreto-legge è considerato di razza ebraica colui che è nato da genitori entrambi di razza ebraica, anche se egli professi religione diversa da quella ebraica.

Il decreto fa parte dell'insieme di leggi che nell'autunno 1938 decretarono la discriminazione giuridica degli ebrei. Fu preceduto dal censimento di tutti gli ebrei presenti nel paese (che risultarono essere 41 300 italiani e 9800 stranieri) e seguito dal decreto del 17 novembre, che coronava la legislazione razzista estendendola a molti settori della vita sociale ed economica.

Tipo di fonte: regio decreto-legge n. 1390, intitolato "Provvedimenti per la difesa della razza nella scuola" Provenienza e datazione: Roma, 13 settembre 1938 (pubblicazione sulla "Gazzetta ufficiale") Autore: la legge porta la firma di Vittorio Emanuele, Mussolini, Bottai

Le leggi razziali sulla scuola del 1938

Il protocollo di Wannsee

Tipo di fonte: verbale di riunione tra 15 alti esponenti del regime nazista Provenienza e datazione: Wannsee, presso Berlino, 20 gennaio 1942 Autore: Adolf Eichmann, principale collaboratore di R. Heydrich, generale delle SS e responsabile del Servizio di sicurezza

Il testo e il contesto

La conferenza di Wannsee, di cui possediamo il verbale redatto da Eichmann e più volte rivisto da Heydrich, non fu il momento in cui venne decisa la "soluzione finale". La riunione ebbe infatti il compito di coordinare i diversi uffici del Reich (divisi da gelosie e conflitti di competenza) per l'attuazione di un programma che era già in atto da tempo nell'Europa orientale, attraverso la reclusione nei ghetti e lo sterminio diretto per fucilazione.

Nel quadro della soluzione finale del problema ebraico in Europa rientrano circa 11 milioni di ebrei (segue elenco paese per paese). Sotto un'adeguata direzione, nel contesto della "soluzione finale", gli ebrei dovranno essere assegnati per un lavoro adeguato nell'est. In grandi colonne, distinti per sesso, gli ebrei abili al lavoro saranno avviati in questi territori alla costruzione di strade; senza dubbio gran parte di essi verrà a mancare per cause naturali. L'eventuale residuo - e si tratterà senza dubbio degli elementi di maggiore resistenza - dovrà essere opportunamente trattato, perché in caso di liberazione, essendo il prodotto di una selezione naturale, esso formerebbe la cellula germinale della rinascita ebraica (vedi l'esperienza della storia).

Concorso I giovani ricordano la Shoah, edizione 2024/2025 Educandato Statale Maria Adelaide di Palermo Classi: V Classico e V Europeo Nel percorso affrontato abbiamo provato a concentrare la nostra attenzione su due delle domande più pressanti per la nostra curiosità e sensibilità. La Shoah rimane un nodo storico intricato e di grande effetto per l'incredulità che desta a primo impatto: come è possibile che un orrore del genere, di così grandi dimensioni e condotto con tale sistematicità e proceduralità scientifica, si sia consumato nell'Europa civile del ventesimo secolo? E poi, altra domanda che ci provoca una certa inquietudine: siamo certi che pur avendone visto l'orrore, un fenomeno del genere non potrà più verificarsi? Queste sono le due questioni che hanno guidato il nostro percorso: abbiamo cercato di esaminare le dinamiche che hanno portato, durante la Seconda guerra mondiale, al tentato genocidio degli Ebrei in quanto appartenenti ad una "razza" pericolosa, e abbiamo rintracciato testimonianze, analisi e riflessioni di intellettuali che, in quanto ebrei, sono stati coinvolti e travolti da quanto avvenuto. Spunto per il nostro itinerario di ricerca e riflessione sono state due pellicole cinematografiche, Il giardino dei Finzi Contini e L'onda; una video lezione della Fondazione Corriere, Le parole sono pietre; il catalogo di una mostra sulla propaganda antisemita in Italia e Germania; uno studio di Laura Fontana Gli Italiani ad Auschwitz (1943-1945); alcune pagine tratte da I sommersi e i salvati di Primo Levi, Diario e Lettere di Etty Hillesum, Noi rifugiati e La banalità del male di Hannah Arendt. In relazione alle testimonianze degli autori citati, ci siamo concentrati sulla questione dell'identità in relazione alla comunità, e sulla lezione che gli autori ci hanno lasciato affinché una catena di eventi del genere possa essere riconosciuta e scongiurata prima che si arrivi alla catastrofe.

...una scena emblematica

...dal capitolo quarto

Il potere della parola

La propaganda

“Gran dominatrice la parola, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti e a calmar la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentar la pietà” Gorgia, Encomio di Elena

Liliana Segre mette in evidenza con l'espressione "Per sola colpa di essere nati" l’odio insensato contro gli Ebrei, diffuso con una campagna propagandistica capillare dal Nazionalsocialismo che portò all’umiliazione, alla discriminazione ed infine allo sterminio di più di sei milioni di esseri umani da parte di altri esseri umani che credevano di stare dalla parte giusta. Questo è il rischio di dividere l’umanità in parti e poi individuarne una che ha qualcosa che non va o che rappresenta il pericolo. Cosa ha reso possibile tutto ciò è stata la campagna di odio scatenata contro gli Ebrei, identificati come diversi e come una minaccia.

Il seguente testo è una sintesi del capitolo 4 dell'opera "Gli Italiani ad Auschwitz (1943-1945): deportazioni, "Soluzione finale", lavoro forzato: un mosaico di vittime" pubblicato per la prima volta nel 2021 da Laura Fontana. 
 Ciò che successe a Roma il 16 ottobre del 1943 è emblematico di quanto accadde in Europa occidentale durante la Seconda guerra mondiale Durante l’occupazione nazista di Roma, Herbert Kappler, capo delle SS, cercò inizialmente di evitare il rastrellamento degli ebrei proponendo di impiegarli come forza lavoro, preoccupato che un fallimento potesse compromettere la sua carriera. Anche il generale Stahel, il console Moellhausen e il feldmaresciallo Kesserling erano contrari, temendo che una retata su larga scala potesse scatenare la reazione ostile dei romani e del Vaticano, oltre a non fidarsi della polizia italiana e delle risorse disponibili. Nonostante le loro obiezioni, da Berlino arrivò un ordine perentorio: il 9 ottobre, von Ribbentrop impose di deportare 8.000 ebrei a Mauthausen come ostaggi, seguendo le disposizioni di Hitler. I comandanti sul campo furono costretti ad eseguire gli ordini. Prima della deportazione, Kappler impose alla comunità ebraica la consegna di 50 chili d’oro, minacciando di deportare 200 capifamiglia. L’oro fu raccolto con sacrifici, anche grazie all’aiuto di cattolici, ma ciò non evitò la razzia. Questo successo alimentò però la speranza tra gli ebrei, molti dei quali rimasero a Roma, ignari del pericolo imminente, convinti che la città e il Papa li avrebbero protetti. Il rabbino Israel Zolli tenterà invano di avvertire le famiglie, ma i suoi sforzi risulteranno vani. In seguito, deciderà di andarsene, suscitando delusione tra i cittadini. Tra settembre e ottobre 1943, a Roma, le SS, guidate da Theodor Dannecker, organizzarono il rastrellamento degli ebrei, con l’aiuto della polizia italiana. La città fu divisa in 26 zone, e le vittime furono identificate tramite elenchi ufficiali. Nonostante i tentativi di bloccare l’opposizione dei carabinieri, molti riuscirono a fuggire. Nel frattempo, archivi e libri ebraici vennero distrutti, mentre la comunità ebraica cercava disperatamente di sopravvivere in un clima di terrore crescente.

Gli Italiani ad Aushwitz (1943-1945)

Il 16 ottobre 1943, durante il rastrellamento a Roma, vennero arrestati 1.250 ebrei, ma circa 250 furono rilasciati, tra cui chi dimostrava di non essere ebreo o appartenente a gruppi protetti. Nonostante alcune persone dichiarassero di essere convertite al cattolicesimo, la deportazione non li risparmiò. Furono trasportati al Collegio Militare di via della Lungara, dove furono trattenuti in condizioni terribili per due giorni, separati in uomini, donne e bambini. Alla fine, 1.018 persone furono imprigionate lì, pronte per la deportazione ad Auschwitz. Nessuno sarebbe stato risparmiato: né le donne incinte, né i neonati, né gli anziani o i malati. Questa brutalità può essere compresa attraverso la profonda ideologia patologica e radicale del nazismo, che considerava la scomparsa degli ebrei come un requisito essenziale per garantire il futuro e il benessere della "razza ariana" e dell'umanità intera. Sebbene Papa Pio XII fosse consapevole del genocidio in corso, la Santa Sede preferì evitare una denuncia pubblica contro i nazisti, temendo ritorsioni violente e cercando di proteggere la sicurezza del Vaticano. Nonostante il silenzio ufficiale, la Chiesa cercò di aiutare gli ebrei in modo discreto, offrendo loro rifugio. Per i deportati, quelle furono le ultime ore di vita. Furono separati tra uomini e donne, e poi divisi tra chi sarebbe stato mandato alle camere a gas e chi costretto a lavorare nel campo. Tra i 1020 ebrei deportati da Roma ad Auschwitz, molti furono uccisi subito, ma alcuni riuscirono a sopravvivere. Tra questi, Fiorella Anti, una bambina di 12 anni, riuscì a superare la selezione e a resistere nel campo fino alla liberazione, ma morì poco dopo la fine della guerra. Enzo Camerino, deportato a 14 anni, fu tra i pochi a tornare a casa. La maggior parte dei deportati, però, non sopravvisse alla brutalità del campo. La razzia, avvenuta nel cuore della capitale, dimostrò che anche in uno Stato teoricamente sovrano, i cittadini italiani potevano essere arrestati e deportati. Dopo la fine della guerra, molte interpretazioni errate degli eventi hanno contribuito a distorcere la memoria storica, ma gli studi recenti, come quelli condotti dall’Archivio Storico della Comunità Ebraica di Roma, hanno corretto alcune visioni sbagliate. È emerso che più della metà degli arresti non avvenne nel ghetto, come spesso si è detto, ma in altri quartieri della città, e che le operazioni di arresto furono condotte con grande disorganizzazione, con alcuni soldati più attenti e altri meno.

Bacione Jessica, Zuccaro Silvia Maria, V Classico Luna Giulia, Tomasino Federica V Europeo

Riflessioni a partire dalla conferenza “Le parole sono pietre. Riconoscere e contrastare la lingua dell’odio” a cura di Fondazione Corriere della Sera

Cosa significa che le parole creano la realtà? Immaginiamo per un attimo un mondo senza parole. E questa assenza di parole immaginiamola non soltanto sul piano del linguaggio, ma anche sul piano del pensiero. A questo punto ci renderemmo conto non soltanto che risulterebbe impossibile vivere per l’impossibilità di tradurre in parole i propri pensieri, ma risulterebbe altrettanto impossibile la sopravvivenza, in un mondo abitato da individui che mancano del contatto e della comunicazione con l’altro. Ecco che è forse più chiaro il significato dell’espressione iniziale secondo cui le parole creano la realtà, o se volessimo dirla in altri termini, le parole danno forma e consistenza al mondo.Facciamo un esempio. Immaginiamo una mela. A cosa pensiamo quando ci figuriamo una mela? Ad un frutto, con la buccia, dei semi, una certa consistenza. La realtà diventa e risulta tale quando la totalità degli individui, vedendo una mela, le riconosce il nome (che certamente può variare da idioma a idioma) e le caratteristiche che universalmente la identificano come tale. Anche sul piano dei sentimenti è possibile effettuare tale considerazione. La tristezza, ad esempio, non potrebbe essere considerata reale, se non ci fossero parole e modi per descriverla. E non potrebbe essere compresa, se l’altro che si confronta con la persona triste, non condividesse la stessa idea di tristezza.

“Gran dominatrice la parola, che con piccolissimo corpo e invisibilissimo, divinissime cose sa compiere; riesce infatti e a calmar la paura, e a eliminare il dolore, e a suscitare la gioia, e ad aumentar la pietà” Gorgia, Encomio di Elena

La realtà allora diventa o si manifesta per quella che è grazie alle parole che, passo dopo passo, ne hanno messo e continuano a metterne in luce un aspetto sempre nuovo e diverso. Successiva e in qualche modo contemporanea alla formazione di un linguaggio, è la comunicazione. Comunicare è mettere in comune. Lo si può fare per scambiare delle idee, dei pensieri, dei sentimenti. Lo si fa, purtroppo, per scambiare parole di odio. Quelle famose parole generalizzate nell’espressione inglese “Hate speech” che come suggerisce il linguista Giuseppe Antonelli, ne stempera la violenza, al pari di un eufemismo. Parole di odio che già Omero definiva come “Parole alate” e che Carlo Levi definisce come “pietre”. Parole pronunciate senza riflettere, quando intendiamo ferire, quando non ci importa lo stato d’animo dell’altro, quando non diamo all’altro la forma reale e consistente che diamo a noi stessi.Parole che “intossicano la società”, come detto dal Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in un mondo in cui quando la parola è scagliata, la freccia è scoccata, essa vola, senza alcuna possibilità di tornare indietro. Ed è come se l’umanità avesse arbitrariamente preso queste parole e se ne fosse impossessata. Desiderosa di scoprirne il significato e scorretta nell’utilizzarle.La situazione si complica quando le parole di odio vengono usate nella realtà virtuale che in quanto virtuale perde il suo aspetto reale.E la situazione si complica perché sul piano virtuale avviene una de-responsabilizzazione delle parole e dell’uso che se ne fa.La comunicazione è distorta, evidenzia ancora una volta Antonelli, quando essa è usata (soprattutto in politica) per l’accaparramento improprio del consenso, per il convincimento delle masse (che risulta ancora più facile se si tratta di masse analfabete), o per la manipolazione delle menti, nel caso delle notizie false (o fake news, termine ancora una volta inglese, a cui il linguista dà la stessa connotazione dell’hate speech).

Allora è interessante, a questo proposito, menzionare un manifesto, il Manifesto della comunicazione non ostile che proprio all’effetto della de-responsabilizzazione della parola dà una risposta. Articolato in dieci punti, esso è “un impegno di responsabilità condivisa. Vuole favorire comportamenti rispettosi e civili. Vuole che la Rete sia un luogo accogliente e sicuro per tutti”. Ma se Gorgia insegnava che la parola “divinissime cose sa compiere”, converremo tutti nel dire che allora c’è un giusto modo di comunicare e uno distorto e con distorto si intende scorretto, sbagliato, anche cattivo, come ci suggerisce il prefisso dys- dal greco. Non a caso, Giuseppe Antonelli a questo proposito cita il linguista e psicologo cognitivo George Lakoff e il suo libro “Non pensare all’elefante”. Se qualcuno ci chiedesse di non pensare ad un elefante, le nostre menti, istintivamente, sarebbero portate a pensarlo. Non penserebbero a nient’altro che ad un elefante. E in questa frase, prima Lakoff, poi Antonelli, esprimono quell’idea di comunicazione distorta di cui si è parlato. Linguaggio, comunicazione, parole d’odio e comunicazione distorta sono stati i punti di questa trattazione. E l’incomunicabilità? Forse non esiste e forse è l’uomo che crea barriere.

La Barbera Sofia V Europeo

Primo Levi, nel suo romanzo “I sommersi e i salvati” si oppone nettamente a questo termine con la saggezza di chi ha vissuto in prima persona l’incomunicabilità nei Lager nazisti. «Avreste dovuto provare la nostra». Egli afferma infatti, con tono perentorio che nel nostro mondo, “Non capita quasi mai di urtare contro una barriera linguistica totale: di trovarsi davanti ad un essere umano con cui dobbiamo assolutamente stabilire una comunicazione, pena la vita, e di non riuscirci”. Questo perché, continua “per la comunicazione, ed in specie per quella sua forma altamente evoluta e nobile che è il linguaggio, siamo biologicamente e socialmente predisposti”. Predisposti al pensiero, alla parola e al linguaggio, noi esseri umani, abbiamo allora il compito di metterci in comune con l’altro, e quindi comunicare, senza perdere di vista la “verace via” della giusta comunicazione e senza incorrere in quella distorta che ha conseguenze, sia nel virtuale sia nel reale. Una giusta comunicazione ci farà prendere consapevolezza del fatto che quella definizione di incomunicabilità come “condanna a vita inserita nella condizione umana” non è che, come aveva già detto Primo Levi con grande lungimiranza, “puro rumore”. “Comunicare si può e si deve”.

Togliere l'identità è togliere la dignità

I sommersi e i salvatiRiflessioni sul capitolo VI

Ciò che ha reso possibile l’orrore deve essere ricordato perché in futuro si possa correre ai ripari. Una delle preoccupazioni più forti dell’autore era che il mondo non avrebbe creduto all’orrore perché troppo assurdo. Un altro rischio sul quale ha voluto metterci in guardia è quello della semplificazione che ci porta a dividere gli uomini in buoni e cattivi: l’essere umano non è un monolite, non è un santo né un demonio. Nel capitolo “L’intellettuale ad Auschwitz”, Primo Levi analizza il ruolo e l’esperienza dell’intellettuale nei campi di concentramento, approfondendo il tema della perdita d’identità. Si sofferma su un uomo in particolare, l’intellettuale filosofo Hans Mayer, alias Jean Améry. Hans Mayer era un cittadino austriaco, di famiglia ebraica. Si era sempre sentito un tedesco, quella era la sua identità. Dopo l’annessione dell’Austria alla Germania, con l’estensione delle leggi razziali, Mayer si ritrovò ad essere discriminato in quanto appartenente ad una categoria che nemmeno sentiva sua. No, non si sentiva un ebreo, non conosceva l’ebraico né la cultura ebraica e per di più era un agnostico; non era stato educato alla cultura ebraica, insomma. “ Eppure per vivere occorre un’identità, ossia una dignità. Chi perde l’una, perde anche l’altra”. Questa frattura tra ciò di cui si sente parte e ciò a cui lo Stato lo relega, conduce Mayer a non saper più chi sia. “Per il giovane Hans essere ebreo è simultaneamente impossibile e obbligatorio” Dalla propaganda nazista, sulle pagine dello Sturmer di Streicher l’ebreo veniva presentato come un parassita peloso, grasso, dalle gambe storte, dal naso a becco, dalle orecchie a sventola, buono a danneggiare gli altri. Ma Mayer non si riconosceva affatto in questa descrizione. “Tedesco non è per assioma; anzi bastava la sua presenza a contaminare i bagni pubblici e perfino le panchine dei parchi”. Il solo modo per sottrarsi a questa degradazione è paradossale; non potendosi più riconoscere nell’identità della cultura germanica perché escluso, non restava altro che costruirne una nuova, quella dell’ebreo che non era mai stato. E alla perdita dell’identità segue dunque, soprattutto dopo l’ingresso nel Lager, anche la distruzione della dignità. Il prigioniero diventa un numero, privato di ogni connotazione personale o culturale. Auschwitz rappresenta un luogo in cui ogni riferimento culturale, morale e umano viene annullato, portando l’individuo a una condizione di disorientamento estrema.

Gli intellettuali, per Levi, sono coloro che possiedono un bagaglio di conoscenze vasto che però, nel contesto del Lager, spesso si rivela inutile o addirittura controproducente. La vita nel campo è incentrata sulla sopravvivenza fisica, che mette in crisi i valori degli intellettuali. Levi esplora la differenza tra gli intellettuali e i non intellettuali nel contesto del Lager. I non intellettuali, avendo spesso esperienze di vita più concrete e pratiche, possono talvolta adattarsi meglio alla crudele realtà del campo. Gli intellettuali, invece, devono affrontare una doppia lotta: contro le condizioni fisiche e contro il senso di perdita del loro ruolo e valore. Tuttavia, alcuni riescono a utilizzare il loro sapere come un’ancora per la propria umanità, ricorrendo alla memoria e alla cultura per resistere psicologicamente. Essa può consistere anche in una reminiscenza scolastica come il “canto di Ulisse” della Divina Commedia, il quale ha permesso a Levi di instaurare un legame con il suo passato.Levi opera una riflessione complessa sull’umanità. Infatti ammette che il campo di Auschwitz mette in evidenza i lati più oscuri dell'uomo, facendo diventare la sopravvivenza l'unico scopo della vita. Egli, tuttavia, riconosce che nonostante ciò che stava succedendo, alcuni uomini sono riusciti a mantenere la propria moralità e sono riusciti ad opporsi, anche solo interiormente, al sistema che li circondava. L’uomo è capace sia del bene che del male, e le condizioni estreme possono amplificare entrambe le tendenze. Auschwitz, per Levi, non è solo il prodotto dei carnefici, ma anche dell’indifferenza e della passività di chi ha scelto di non agire. Egli non racconta la sua storia per una vendetta nei confronti dei suoi "aguzzini" ma per un senso di responsabilità morale. La testimonianza che egli fa risponde ad una grande responsabilità, quella di raccontare ciò che è accaduto a lui e a milioni di altre persone innocenti, per impedire che tutto ciò cada nell'oblio. Primo Levi nasce nel 1919 da una famiglia ebraica. Dopo aver conseguito la maturità classica egli si iscrive alla facoltà di chimica, riuscendo a conseguire la laurea nel 1941, nonostante le leggi razziali. Nel 1943, a Milano, viene arrestato e deportato al campo di internamento di Fossoli per poi essere inviato al campo di concentramento di Auschwitz. Dopo essere stato liberato, è uno dei pochi italiani che riescono a tornare a casa. Subito dopo la guerra scrive una serie di libri dove racconta la sua esperienza. Non riuscirà mai a dimenticare i suoi 23 mesi passati nel campo di concentramento, i ricordi lo tormenteranno per tutta la vita.

Cacciatore Fabiana, Caruso Silvia V Europeo

Noi rifugiati

Hannah Arendt precisa che gli ebrei tedeschi non sono scappati dalla Germania per aver commesso «atti reprensibili», né per il fatto di essere stati oppositori politici; e questo ci rimanda alle parole di Liliana Segre “per la sola colpa di essere nati”.

Arendt oscilla per tutta la durata del suo scritto tra due pronomi: l’ “io” personale, critico e dal tono di denuncia politica e sociale della scrittrice, e il “noi” di quel gruppo di rifugiati, che non rifiutano «l’esilio, la marginalità» ma «se ne fanno carico rivendicando apertamente la loro condizione». La frase di apertura all’opera è proprio «Anzitutto non vorremmo essere definiti “rifugiati”», e nel “noi” si nota tutta l’insofferenza di un popolo a cui questo termine non appartiene. Era considerato rifugiato, infatti, chi era costretto a chiedere asilo ad un altro Paese dopo la fuga dal proprio, a causa di opinioni politiche radicali e contrastanti con il potere costituito. Hannah Arendt precisa che gli ebrei tedeschi non sono scappati dalla Germania per aver commesso «atti reprensibili», né per il fatto di essere stati oppositori politici.Ecco allora che emerge un nuovo utilizzo del termine “rifugiato” e più di tutto il “carattere artificioso delle etichette” che emarginano, e quindi spingono all’infuori di qualsiasi margine, «fuori dal mondo, comune e condiviso, dove è grottesco continuare a parlare di patria». Scappati dalla propria casa, i rifugiati cercano allora di creare una nuova vita o di ricomporne i pezzi.In Francia la Arendt si era ritrovata, dopo essere stata costretta a lasciare la Germania perché ebrea, ad essere trasformata in boche. E nei campi, «dopo essere stati imprigionati perché eravamo tedeschi, non siamo stati liberati perché eravamo ebrei». Entra in gioco il paradosso cui accenna la Arendt, secondo cui «la storia contemporanea ha creato una nuova specie di esseri umani: «quelli che vengono messi nei campi di concentramento dai loro nemici e nei campi di internamento dai loro amici». O ancora, lo strano paradosso che vedeva costretti ad avere un lavoro per ottenere un permesso di soggiorno e allo stesso tempo a provare di avere un permesso di soggiorno per ottenere un lavoro.

Cosa succede poi quando i legami sociali vengono recisi? Ancora una volta è la scrittrice a suggerirlo. E la sua risposta risale alla definizione di Aristotele secondo cui l’uomo è un animale sociale e politico, nel suo senso originale e originario, ovvero legato alla polis e iscritto nel contesto della polis.E quando il legame con la società è rotto, interrotto, reciso per sempre, cioè, quando l’uomo è escluso non solo dalla propria nazione, ma da qualsiasi posto che renda possibile la sua esistenza, egli rimane fuori dal mondo, senza posto, apolide perché privo di una polis. Una possibile soluzione per i rifugiati, per sopravvivere in un mondo che li trovava “indesiderati e indesiderabili”, è stata quella di cambiare identità, come il signor Cohn di cui Hannah Arendt ci racconta. Inizialmente sostenitore di essere tedesco al 150%, il signor Cohn sarà poi capace di diventare ceco al 150% e austriaco e francese, poi chissà cos’altro. Ma se abbandonare il proprio io e indossare nuove maschere, come suggerisce anche Pirandello, può risultare facile, riappropriarsene, di quell’io, è difficile, secondo la Arendt, «quanto una nuova creazione del mondo». L’io è frantumato e può essere ormai qualsiasi cosa. Ecco che quella facilità nel sentirsi tedesco, poi ceco, poi francese, del signor Cohn si traduce nel suo significato più ampio e generale, che è proprio di un gruppo molto più esteso di persone e che è assimilazione. Anche su questa parola Hannah Arendt fa una precisazione: con il popolo ebreo il termine “assimilazione” ha modificato il suo significato, o meglio, lo ha approfondito.Per assimilazione si intende la capacità di adattarsi “a chiunque e qualsiasi cosa” che la Arendt spiega con un’immagine alquanto suggestiva.Quel signor Cohn di cui ci parlava prima, ovunque andrà, condotto da un destino che sarà anche destinazione, avrà la capacità di amare subito le montagne del posto in cui si trova.

Tuttavia sarebbe forse più semplice, e preferibile ad ottimismo e assimilazione, suggerisce la scrittrice, affermare di essere ebrei e non scappare, sempre, costantemente, come "Ulissi vaganti”. E in questa espressione trovano spazio i temi del viaggio, dell’esilio del desiderio di ritorno ad un posto che si possa chiamare casa. Ma ammettere di essere semplicemente ebrei, e quindi apolidi, equivarrebbe ad essere ridotti ad esseri umani privi di leggi specifiche o convenzioni politiche, esposti alla discriminazione che la Arendt con parole taglienti definisce come «il grande strumento di morte che permette di uccidere le persone senza spargimento di sangue», regolati da documenti che assumono le sembianze di «strumenti di differenziazione sociale». Come si possono conciliare sovranità statuale e diritto dell’essere umano a migrare (dove per migrazione si intende un “atto esistenziale e politico”)? E quindi, come conciliare Stati nazionali e diritto d’asilo? Forse sono inconciliabili. Ma è significativo il commento di Donatella Di Cesare che scrive una postfazione al testo della Arendt: «La disgrazia dei rifugiati, degli stranieri, dei migranti, non è la mancanza di libertà, bensì l’assenza di una comunità. Privi di una comunità sono privi anche di diritto. Chi è stato respinto verso i pericolosi bordi esterni, le temibili zone del bando, chiede posto in una comunità. Ma per Arendt comunità non vuol dire nazione. La domanda è se possano esistere comunità, non delimitate da frontiere nazionali, in cui sviluppare una politica dell’accoglienza». Solo se la risposta sarà sì, allora si potrà dire che la storia non seguirà più un andamento ciclico, bensì tenderà al meglio e al miglioramento, sempre.

La Barbera Sofia V Europeo

Riflessioni a partire da Israel Joshua Singer La famiglia Karnowski

Nel romanzo La famiglia Karnowski di Israel Joshua Singer, quello dell'identità è un tema centrale. Le vicende narrate riguardano una famiglia ebraica, il cui capostipite si era trasferito in Germania dalla Polonia durante la prima metà del Novecento. Il suo intento era stato quello di integrarsi nel mondo tedesco e nella cultura tedesca, per la quale aveva grande ammirazione, pur non tradendo la cultura ebraica alla quale si sentiva di appartenere. La narrazione esplora l'identità personale e collettiva, mettendo in evidenza le difficoltà che la famiglia deve affrontare in un periodo storico segnato da gravi turbolenze politiche, sociali e religiose. La famiglia è divisa tra coloro che abbracciano le tradizioni e i valori ebraici e coloro che cercano di integrarsi nella società, spesso rinunciando alle proprie radici. Questa divisione interiore crea conflitti di identità che si riflettono nelle scelte di vita dei singoli personaggi: alcuni cercano di assimilarsi al mondo tedesco, altri resistono, mentre altri ancora cercano di conciliare le due dimensioni. L’autore dipinge l’identità come un concetto in continua evoluzione, che è influenzato dalle circostanze. Un altro aspetto dell’identità che emerge è legato all'appartenenza religiosa e nazionale. L’ascesa del Nazismo e le persecuzioni antisemite intensificano questa crisi di identità, portando i protagonisti a fare i conti con il loro posto nel mondo e con la propria sopravvivenza. Jegor è uno dei personaggi principali nel romanzo e gioca un ruolo significativo nel tema dell'identità, che si evidenzia in particolar modo nel conflitto interiore tra l'appartenenza e il desiderio di emancipazione. Jegor rappresenta la terza generazione: è il nipote del capostipite, figlio dunque di un padre "ebreo" e di una madre "tedesca".

Non sa nulla dell'ebraismo fino a quando, proprio a causa di questa appartenenza, la famiglia non sarà costretta ad emigrare negli Stati Uniti. Ed è in questo momento che il personaggio si ritrova senza più un'identità: rifiutato dalla nazione alla quale egli sente di appartenere incondizionatamente e incapace di riconoscersi in una tradizione, quella ebraica, che non gli appartiene affatto. Questo sentimento di estraneità, in un contesto in cui gli ebrei sono visti come una minoranza rifiutata e oppressa, lo porterà forse all'autodistuzione. La sua evoluzione psicologica e le sue scelte di vita sono emblematiche della ricerca di sé che caratterizza molti dei protagonisti del romanzo. Jegor, infatti, è un personaggio che non trova mai una totale realizzazione o accettazione di sé. La sua lotta con l'identità ebraica non è solo un conflitto interiore, ma anche una riflessione sul ruolo che la società e la storia impongono all'individuo. La figura di Jegor nel romanzo mette in luce come l'identità possa essere messa alla prova dal confronto con le aspettative familiari, religiose e sociali. Mentre alcuni membri della famiglia Karnowski cercano di mantenere e proteggere la propria identità ebraica, Jegor sembra cercare una via d'uscita, ma alla fine la sua storia diventa un esempio tragico della difficoltà di sfuggire alle proprie radici in un mondo in cambiamento. La sua alienazione e la sua ricerca di una forma di appartenenza che lo renda libero dalla sua identità ebraica riflettono il dramma di molti che, come lui, si trovano ad affrontare le sfide di un'epoca di profondi cambiamenti storici e culturali.

Capparelli Victoria, Parrinello Marta V Classico

Memoria, Diritto, spirito critico e umanità

Terzo articolo della Costituzione

A cosa possono condurci l'obbedienza cieca alla legge e l'omologazione

La lezione di Kant…troppo spesso dimenticata!Riflessioni a partire da Per la pace perpetua

Il cosmopolitismo, come visto da Kant, rappresenta una delle idee più audaci e innovative nella storia della filosofia politica. In un'epoca segnata da conflitti interminabili tra Stati e dalla nascita di potenze coloniali, Kant disegna un orizzonte di pace, giustizia e cooperazione universale, che trascende le frontiere nazionali e promuove l'idea di una comunità globale. La sua visione non solo propone un modo di vivere civile tra gli uomini, ma fornisce anche le basi per una nuova teoria del diritto internazionale e dei diritti umani. Il punto di partenza del cosmopolitismo kantiano è il concetto di diritti universali, che non dipendono dalla cittadinanza in un determinato Stato, ma sono intrinseci alla natura umana. Kant ritiene che ogni individuo, in quanto essere razionale, debba essere trattato con dignità e rispetto, e che questa dignità non sia negoziabile in base alla sua appartenenza a una nazione o cultura specifica. La visione kantiana della persona come soggetto dotato di diritti universali è l'anima del suo cosmopolitismo. Questi diritti si manifestano, in primo luogo, nei diritti di ospitalità, che costituiscono uno dei cardini della sua filosofia politica internazionale. Il diritto di ospitalità implica che ogni essere umano abbia la possibilità di entrare in un altro paese e di essere trattato come un ospite, e non come un nemico, a meno che non ne violi le leggi. La pace, per Kant, non è solo la fine della guerra ma una situazione positiva che si realizza quando gli Stati sono legati da leggi comuni e si impegnano a rispettare i diritti di ogni individuo, indipendentemente dalla sua origine nazionale. È un'idea di pace che abbraccia la giustizia, quella che nasce dal riconoscimento reciproco dei diritti umani universali.

In questa visione, il cosmopolitismo non è né utopia né imposizione. È il risultato di un impegno razionale per la costruzione di un ordine mondiale che riconosca la dignità degli esseri umani come il fondamento di ogni relazione politica. Per Kant, non vi è alcuna giustificazione morale per la guerra tra popoli, né per l'oppressione di un individuo da parte di un altro. Gli Stati devono rispettare i diritti reciproci dei loro cittadini e degli stranieri, e la cooperazione internazionale deve essere guidata da principi morali che superano le leggi particolari di ogni nazione.La legge internazionale che Kant propone è dunque una forma di giustizia cosmopolita, in cui ogni atto di guerra e di violenza tra Stati viene visto come una violazione della dignità umana. Kant sviluppa il suo cosmopolitismo in un contesto segnato dalla violenza e dall'instabilità politica, ma la sua proposta è sorprendentemente moderna, e la sua attualità è emersa in molteplici dibattiti contemporanei. Le sfide globali del nostro tempo – le migrazioni, i conflitti internazionali, i diritti umani, la giustizia globale – pongono in evidenza la necessità di una visione cosmopolita. Oggi, come in passato, il diritto di ospitalità e la cooperazione internazionale non sono soltanto ideali, ma necessità urgenti per affrontare le crisi globali. Le sue idee hanno avuto una profonda influenza sullo sviluppo delle teorie del diritto internazionale e dei diritti umani, fornendo le basi per una comunità globale più giusta e pacifica. La sua visione ci invita a pensare a una comunità globale in cui ogni persona, indipendentemente da dove nasce, possa vivere con dignità e giustizia.

Misuraca Francesca V Classico

3 Art. Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

L’Onda è un film del 2008 diretto da Dennis Gansel. Si tratta di un dramma intenso, ispirato a un esperimento realmente accaduto negli Stati Uniti nel 1967, noto come “The Third Wave”. Il film affronta temi attuali e universali come il conformismo, la manipolazione di massa e i pericoli della perdita di libertà individuale. La storia si svolge in una scuola superiore tedesca, dove il professore Rainer Wenger, per spiegare ai suoi studenti come nascono le dittature, decide di condurre un gioco di ruolo. Crea un gruppo chiamato “L’Onda”, con regole rigide, un simbolo e uno spirito di squadra molto forte. All’inizio, il progetto sembra un gioco educativo, ma presto il gruppo inizia a isolare chi non si conforma, scatenando tensioni, violenza e conseguenze inaspettate…o forse troppo note. L’esperimento sfugge rapidamente al controllo del professore, mostrando come il fascino dell’autoritarismo possa infiltrarsi anche in una società che si pensa e si dice accorta. La forza del film sta nella sua capacità di rendere visibili i meccanismi psicologici e sociali che portano le persone a seguire ciecamente un leader o un’ideologia. Gli studenti, inizialmente scettici, si lasciano coinvolgere sempre di più, dimostrando quanto sia sottile il confine tra normalità e totalitarismo. Il finale è drammatico e spinge lo spettatore a interrogarsi su come simili fenomeni possano ripetersi nella società contemporanea. Il film non si limita a raccontare una storia, ma lancia un messaggio chiaro: nessuna società è immune al rischio di un regime totalitario. Per questo L’Onda è più di un semplice film: è una lezione di storia, psicologia e, soprattutto, umanità.

Armanno Dalila, Saglimbene Arianna V Europeo

Riflessioni a partire dal film L'Onda

Riflessioni a partire dal capitolo VIII de La banalità del male

Il capitolo ottavo de La banalità del male rappresenta uno dei nuclei concettuali più forti dell'opera di Hannah Arendt, in quanto esplicita il carattere ordinario del male incarnato da Adolf Eichmann. L’autrice si concentra sulla figura dell’imputato durante il processo di Gerusalemme, smontando l’immagine del criminale eccezionale per svelare un uomo mediocre, privo di particolare intelligenza o malvagità intrinseca. Eichmann agisce non per un odio personale verso gli ebrei, ma per obbedienza e desiderio di adeguarsi a un sistema che richiede efficienza e fedeltà. In questa logica burocratica, il male diventa “banale” perché si svuota di ogni riflessione morale e si riduce ad una questione tecnica. Arendt sottolinea come Eichmann si fosse costruito una sorta di autoinganno per giustificare le sue azioni. Egli si presentava come un semplice esecutore, un uomo che rispettava le leggi e faceva il proprio dovere senza interrogarsi sulle conseguenze etiche delle sue decisioni. Questa incapacità di pensare al di fuori delle regole imposte dallo Stato nazista rende Eichmann l’emblema della "banalità del male", una condizione in cui l’assenza di pensiero critico e il conformismo trasformano persone comuni in complici di crimini indicibili.Arendt pone l’accento anche sulla distorsione del linguaggio operata dal regime nazista, elemento che Eichmann aveva completamente interiorizzato. Espressioni come “soluzione finale” o “trasferimento” servivano a camuffare la realtà della deportazione e dello sterminio, permettendo agli esecutori di non confrontarsi con l’orrore delle proprie azioni.

Nel caso di Eichmann, l’uso di questo linguaggio burocratico non era solo una strategia difensiva, ma la manifestazione di una mentalità che si era disumanizzata al punto da non riconoscere più il valore della vita umana.Il capitolo si chiude su una riflessione più ampia che investe la responsabilità individuale. Per Arendt, l’obbedienza alle leggi non può mai giustificare l’assenza di giudizio morale. Eichmann, in quanto essere pensante, avrebbe avuto la possibilità di opporsi, ma la sua adesione cieca al sistema lo rese colpevole. Questo monito risuona ancora oggi, mostrando come il male non sia necessariamente frutto di ideologie fanatizzate, ma possa nascere dall’assenza di riflessione critica e dall’adattamento passivo a un ordine disumano. In conclusione, il capitolo ottavo non è solo un’analisi del processo Eichmann, ma un’esplorazione del potenziale distruttivo della mediocrità e della mancanza di pensiero critico, che possono rendere ogni individuo partecipe dei crimini più efferati.

Calderone Paola V Europeo

L'umanità che restaRiflessioni a partire da Etty Hillesum Diario, Lettere

Cosa resta quando la realtà solida attorno ad un essere umano crolla? Quando l’uomo diventa il maggiore nemico di sé stesso? Cosa resta?Etty Hillesum resta sé stessa, nella sua umanità. Persino di fronte alla nuova regola che porrà un limite all’entrata e all’uscita delle lettere dal campo di transito, si mostrerà imperturbabile, decisa nel volere scrivere e dar voce all’umanità profonda che la anima. Da quel campo di Westerbork, in Olanda, dove si ritrova a svolgere la sua attività per conto del Consiglio ebraico, incoraggia gli amici, Jopie, Klaas, e parole di speranza sono quelle che pronuncia. «La sera tardi, quando il giorno si è inabissato dietro di noi, mi capita spesso di camminare di buon passo lungo il filo spinato, e allora dal mio cuore si innalza sempre una voce - non ci posso far niente, è così, è di una forza elementare -, e questa voce dice: la vita è una cosa splendida e grande, più tardi dovremo costruire un mondo completamente nuovo. A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un frammento di amore e di bontà che bisognerà conquistare in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere. E se sopravvivremo indenni a questo tempo, corpo e anima ma soprattutto anima, senza amarezza, senza odio, allora avremo anche il diritto di dire la nostra a guerra finita».Senza amarezza e senza odio, Etty Hillesum scrive le sue Lettere e il suo Diario. Durante un controllo della Gestapo, la scrittrice descrive il comportamento di un giovane, ansioso, che camminava “su e giù” con un’espressione che lasciava trasparire il suo stato d’animo. Quel giovane «cercava in continuazione pretesti per urlare a quei disgraziati ebrei». E forse, suggerisce la Hillesum, «era da compiangere più di coloro a cui stava urlando».

Per Etty Hillesum il destino dell’uomo è già dentro se stesso, la sua strada già segnata, come un ragno, suggerisce lei, che nel tessere la tela, «lascia i fili principali davanti a sé e ci si arrampica poi sopra». Non ha paura della vita lei, e invita i suoi amici a non averne per lei, a non disperarsi. Non riesce a provare odio per l’essere umano, quello stesso essere umano che è lupo per gli altri uomini. Quell’essere umano che provoca dolore ed è causa di ingiustizia e barbarie. Piuttosto nutre una paura diversa, più sottile: quella nei confronti dei sistemi, creati dall’uomo e che diventano più grandi dell’uomo stesso, come una piovra, il cui veleno si sparge ed è estremamente letale. «Un sistema funziona al di sopra delle nostre teste, un’inquietante costruzione che può crollare addosso sia a coloro che interrogano sia agli interrogati». La domanda persiste. Cosa resta? Resta l’umanità. L’umanità di una donna che è certa che negli anni che seguiranno, dopo la guerra, parallelamente a bambini che studieranno di “stelle gialle e ghetti e terrore”, ci sarà qualcuno che leggerà di lei e dei suoi compagni di vita, che in mezzo ad un’umanità perduta trovavano lo spirito per filosofeggiare e bere, insieme, una tazza di caffè. Resta la certezza che la vita valga la pena di essere vissuta e che «sia ancora così bella». Resta la consapevolezza che Etty Hillesum, pur non tralasciando le vicende storiche né sottovalutando la loro importanza, sia capace di racchiudere, termine da lei stessa usato, l’indignazione morale genuina «entro un’ampia cornice umana che si allarghi agli accadimenti mondiali, e non sia un odio personale, che spesso usa gli eventi intorno a noi come scuse per fomentare piccole irritazioni private, anche forse rancori di anni addietro, sostanze velenose mai rielaborate». Ecco cosa resta. Nata nel 1914 in una famiglia della borghesia intellettuale ebraica, Hetty Hillesum è morta ad Auschwitz nel novembre del 1943. Resta la sua testimonianza di vita!

La Barbera Sofia V Europeo

Etty Hillesum, Lettere edizione integrale Adelphi Edizioni, Milano 2013. Traduzione di Chiara Passanti, Tina Montone, Ada Vigliani. Etty Hillesum, Diario edizione integrale, Adelphi Edizioni, Milano 2012. Traduzione di Chiara Passanti, Tina Montone. Hannah Arendt, Noi rifugiati Giulio Einaudi Editore, Torino 2022. Traduzione di Donatella Di Cesare. Hannah Arendt, La banalità del male Universale Economica Feltrinelli, Milano marzo 2004. Traduzione di Piero Bernardini. Primo Levi, I sommersi e i salvati Super Et Einaudi Editore, Torino 2008. Prefazione di Tzvetan Todorov Postfazione di Walter Barberis. M. Fossati, G. Luppi, E. Zanette, Storia concetti e connessioni. Edizioni Scolastiche Mondadori PEARSON, Milano-Torino 2016. Joshua Singer, La famiglia Karnowski. Newton Compton Editori, Roma 2022. Traduzione di Rinaldi e Sacerdoti Marcello Pezzetti, Sara Berger, LA RAZZA NEMICA, La propaganda antisemita nazista e fascista. Gangemi Editore, Roma 2017.

Bibliografia

Filmografia

Scene tratte da: Il giardino dei Finzi Contini Regia: Vittorio De Sica Produzione: Italia, Germania dell’Est, 1970 Dall’omonimo libro di Giorgio Bassani. L’Onda (Die Welle) Regia: Dennis Gansel Produzione: Germania, 2008 Dall’omonimo libro di Todd Strasser.

Botta Francesca V Europeo