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Calendario dell'Avvento 2024
Scuola dell'Infanzia "D. V. Battilana"
Created on November 23, 2024
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Transcript
Scuola dell'Infanzia"Don Vittorio Battilana"
Ogni giorno una fiaba per prepararsi al Santo Natale
Calendario dell'Avvento 2024
La Fabbrica degli abbracci Caterina era una dolce signora di mezza età con capelli ricci grigi, occhiali dal bordo dorato e un grembiule verde con un grande ricamo a forma di cuore. Per tutto il quartiere, Caterina era conosciuta non solo come un’ottima cuoca, ma anche come una persona sempre pronta a condividere calore e gentilezza. Viveva sola in una piccola casa piena di piante e profumi di cucina. Preparava continuamente biscotti, zuppe e dolcetti per i suoi vicini, che passavano spesso a trovarla per assaggiare le sue prelibatezze o semplicemente per chiacchierare un po'. Tra questi, c'era Anna, una bambina di sette anni che adorava Caterina come se fosse sua nonna. Anna trascorreva i pomeriggi a casa di Caterina, aiutandola a cucinare e ascoltando le sue storie. Caterina conosceva racconti di ogni tipo: fiabe di altri mondi, leggende antiche e storie moderne di amicizia e speranza. Un giorno, mentre mescolavano insieme l'impasto per un dolce natalizio, Anna chiese: «Caterina, cosa desideri per Natale?». La donna si fermò un momento, con un sorriso malinconico. «Sai, Anna, quello che mi piacerebbe davvero è qualcosa che riempia il cuore… Una fabbrica di abbracci!». Anna rimase perplessa. Una "fabbrica di abbracci"? Sembrava qualcosa di magico. Decise che doveva trovarla, costi quel che costi. Il giorno seguente, Anna iniziò la sua ricerca. Andò al negozio di giocattoli. «Una fabbrica di abbracci?» rispose il commesso, confuso. «Abbiamo peluche, bambole parlanti e macchine telecomandate… ma niente fabbriche di abbracci, mi dispiace». Con tenacia, Anna proseguì al centro commerciale, al mercato e persino alla biblioteca. Tutti scuotevano la testa. Una fabbrica di abbracci? Nessuno sapeva cosa fosse. Stanca e delusa, Anna tornò a casa. Quella notte, sognò un giardino incantato dove un grande albero dorato le sussurrò: «Anna, la fabbrica di abbracci sei tu. Gli abbracci non si comprano, si donano». La mattina seguente, Anna si svegliò piena di energia. Corse da Caterina, le saltò al collo e la strinse così forte che la donna scoppiò a ridere e si commosse. «Ecco la mia fabbrica di abbracci!» disse Caterina, accarezzandole i capelli. Ma Anna non si fermò lì. A scuola disegnò un grande cartellone con il titolo "Il calendario degli abbracci". Ogni giorno, un bambino avrebbe fatto visita a Caterina per regalarle un po’ di compagnia e qualche abbraccio. Quando il Natale arrivò, Caterina non si sentiva più sola: la sua casa era piena di calore, risate e amicizia. Quell’anno, Caterina ricevette il regalo più bello di sempre: una fabbrica di abbracci inarrestabile, piena di piccoli gesti d’amore.
Le luci di Pietro Pietro era stato, per tutta la vita, un lampionaio. Ogni sera, con la sua vecchia bicicletta e una scala, accendeva i lampioni del paese. Partiva dalla piazza principale, fischiettando una melodia, e terminava davanti a casa sua, sulla collina. Guardando il paese illuminato, proclamava sempre con orgoglio: «Sono il custode delle luci!» prima di rientrare. Ma i tempi cambiarono. Con l’arrivo della corrente elettrica, il lavoro di Pietro divenne inutile. Provò altri mestieri, ma nessuno gli dava la stessa gioia. Intanto, il mondo si riempiva di luci artificiali: fredde, intermittenti e abbaglianti. Persino i sogni si fecero più rari, soffocati dal chiarore incessante. Alla fine, anche le stelle si spensero, dimenticate dagli uomini. Una notte d’autunno, però, Pietro sentì una voce nel vento: «Pietro, il mio bambino sta per nascere. Vorrei un cielo pieno di stelle per festeggiarlo. Ti chiedo di cercare il bene tra gli uomini. Ogni volta che lo troverai, potrai accendere una nuova stella». Pietro capì senza fare domande. All’alba partì, viaggiando per giorni e giorni, alla ricerca di gesti di bontà e amore. Ogni volta che ne trovava uno, una stella tornava a brillare nel cielo. La notte di Natale, il firmamento era di nuovo pieno di luci scintillanti. Dalla sua collina, Pietro osservò il cielo stellato e, con un sorriso soddisfatto, sussurrò: «Sono ancora il custode delle luci». Quella notte, per la prima volta dopo tanto tempo, il mondo riprese a sognare.
La notizia Gabriele era molto emozionato. Era stato scelto per l’incarico più importante della sua vita e voleva fare tutto alla perfezione. Indossò la sua veste migliore, ripassò il messaggio e persino andò a far controllare le ali. Non poteva permettersi errori. Immaginava che avrebbe incontrato una principessa in un castello sontuoso, una donna straordinaria. Quando arrivò sulla Terra, però, si trovò davanti a una piccola casa bianca. Pensò di aver sbagliato posto, ma una donna che passava gli confermò che quella era la casa di Maria di Nazaret. Un po’ confuso e con l’aureola tutta ammaccata, bussò alla porta. Gli aprì una giovane ragazza con occhi azzurri come il cielo e capelli neri come la notte. «Buongiorno, sto cercando Maria di Nazaret» disse timidamente. «Sono io» rispose la ragazza, sorpresa di trovarsi davanti un angelo. Gabriele, incredulo, balbettò: «Sei tu? La futura sposa di Giuseppe, discendente del re Davide?». Maria annuì e lo invitò ad entrare. Con emozione, Gabriele iniziò il suo annuncio: «Ti saluto, Maria. Il Signore è con te. Dio ha scelto te per un dono unico: avrai un figlio, lo chiamerai Gesù. Sarà un re il cui regno non finirà mai, un regno d’amore eterno». Maria, confusa, chiese: «Com’è possibile?». «Nulla è impossibile a Dio» rispose Gabriele con fermezza. Dopo un attimo di silenzio, Maria sorrise e disse: «Eccomi, sono pronta». Poi, colma di gioia, si mise a ballare nella sua piccola casa. Gabriele la salutò e volò via, raggiante. Aveva compreso che Maria non era una principessa in un castello, ma era davvero la donna più bella che avesse mai incontrato: semplice, luminosa e piena d’amore.
L’uomo dei sogni C’era una volta Giuseppe, un uomo buono con un cuore limpido come l’acqua di una sorgente. Era un falegname e un grande sognatore. Sognava di sposare Maria, la sua fidanzata, di costruire una casa accogliente, una famiglia, e persino un armadio di legno massiccio. Ma nel profondo del suo cuore, sognava soprattutto di essere un papà. Una notte, il suo angelo custode gli parlò in sogno. Gli angeli amano i sogni, dove possono volare liberi senza limiti. L’angelo gli disse: «Giuseppe, si preparano grandi cose per te. Tu e Maria avrete un bambino. Lo chiamerete Gesù, e lui porterà amore e pace al mondo. Non temere: Dio è con te». Quando si svegliò, Giuseppe era felice, ma anche pieno di dubbi. Si sentiva piccolo di fronte a un compito così grande, nonostante fosse forte e abile. Camminò a lungo nel silenzio del villaggio, ma alla fine disse il suo "sì" a Dio. Da quel giorno, Giuseppe si prese cura di Maria con amore e dedizione. Le portava i frutti migliori, dolci marmellate, grappoli succosi e sorrisi pieni di tenerezza. Quando Gesù nacque, Giuseppe era colmo di gioia. Guardava il bambino con occhi pieni di speranza, immaginando le passeggiate, i giochi e i momenti insieme. Anche nel suo silenzio, c’erano mille parole d’amore. Una notte, però, l’angelo tornò a parlargli: «Giuseppe, prendi Maria e Gesù e fuggi. Re Erode vuole eliminare il tuo bambino, il re dell’amore». Senza perdere tempo, Giuseppe partì nella notte, guidato dall’angelo e protetto dall’oscurità. L’angelo lo accompagnò sempre, fino a quando gli diede la buona notizia: «Erode è morto. Ora potete tornare a casa». Giuseppe, Maria e Gesù tornarono a Nazaret, e lì i sogni di Giuseppe si realizzarono. Accanto al padre, Gesù imparò l’arte del legno: il profumo della resina, i segreti degli alberi e la bellezza delle cose semplici. Da Giuseppe imparò anche il silenzio pieno di significato e l’importanza dei sogni. Così, accanto a suo padre, Gesù non solo crebbe, ma imparò a credere nei sogni e a trasformarli in realtà per il bene del mondo.
Le parole rubate Si racconta che, tanto tempo fa, una banda di ladri molto astuti rubò qualcosa di insospettabile: le parole buone. Non tutte, ma solo quelle che portano gioia, conforto e serenità. Erano ladri professionisti, gli stessi che avevano già rubato il profumo dei fiori, le melodie del vento e persino il canto degli uccelli, lasciando la natura muta e malinconica. Quando le parole buone scomparvero, la gente iniziò a comportarsi in modo strano. La prima a rendersene conto fu una giovane maestra che, entrando in classe, invece di salutare i suoi alunni con un dolce «Buongiorno», disse: «Spero che facciate solo pasticci oggi!». Il fruttivendolo augurò ai clienti che le mele fossero acerbe e il latte andato a male. Il disastro non si fermò lì. Nei libri le favole erano incomprensibili, con buchi al posto delle frasi più belle. Le radio trasmettevano litigi e insulti invece di canzoni, e gli innamorati si lasciavano con parole amare che nemmeno sentivano di voler dire. Amici e parenti, confusi e feriti, si allontanavano gli uni dagli altri. Intanto, i ladri si allontanavano felici, portando con sé le parole buone, chiuse in un grosso baule. Ma non si accorsero che uno degli angoli del baule era rotto. Una alla volta, le parole iniziarono a scivolare fuori, invisibili e leggere. Si mescolavano alla nebbia del mattino, si posavano sui fili d’erba e volavano insieme ai petali portati dal vento. Un bambino fu il primo ad accorgersene. Una sera, mentre stava seduto vicino alla finestra, vide piccole luci dorate fluttuare nell’aria e sentì una strana calma riempirgli il cuore. «Le parole buone stanno tornando!» disse a sua madre, che sorrise per la prima volta dopo giorni. Ma non fu il solo. Un vecchio pescatore notò che le onde del mare cantavano di nuovo dolci melodie, e una nonna, tessendo una coperta, cominciò a canticchiare una ninna nanna. Le parole buone si spargevano ovunque, invisibili e leggere come una carezza. Un angelo, sfrecciando con le sue ali luminose, notò ciò che stava accadendo. Raccolse le parole disperse e le cucì insieme con fili di stelle. La notte di Natale, la sua voce risuonò nel cielo: «Gloria a Dio nei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama». Le parole buone tornarono a riempire i cuori, riportando il calore, l’amore e la speranza. E quella notte, il mondo imparò di nuovo il valore delle parole.»
Chi l’avrebbe mai detto che è così bello avere un fratello? All’inizio, l’idea di avere un fratello non mi piaceva affatto. Con mamma e papà tutto era perfetto: coccole, attenzioni, regali e il lettone, tutto per me! L’unica cosa che avrei volentieri condiviso erano le sgridate. Quando mi dissero che un fratello stava crescendo nella pancia della mamma, non fui certo entusiasta. Poi, quel fratello cominciò a darmi fastidio ancora prima di nascere. La mamma era spesso stanca e aveva meno tempo per me. Papà accarezzava sempre il pancione, ma appena si allontanava, quel “guastafeste” iniziava a scalciare. E io? Io ero sicuro che nella pancia fossi stato molto più tranquillo. Quando il pancione diventò enorme, non potevo più abbracciare la mamma come prima, e quel presuntuoso sembrava volere tutto lo spazio per sé. La cosa peggiore? Decise di nascere proprio pochi giorni prima di Natale! Temevo che Babbo Natale non mi avrebbe portato nulla, con la scusa che avevo già avuto “il regalo più bello”. Immaginavo già tutti i parenti a lodare quel mostriciattolo. Ero certo: sarebbe stato un Natale rovinato. Ma poi, la sera della vigilia, mamma e papà lo portarono a casa. Il rugoso folletto dormiva pacifico in braccio a papà, e mamma mi strinse così forte che per poco non mi mancava il respiro. Quando me lo misero in braccio, scoprii che era leggero come una piuma. A guardarlo da vicino, non era poi così brutto: la pelle profumava di latte e pulito, e le sue manine, minuscole, erano perfette, con tutte le pieghe e le unghie. Mi sembrava incredibile. La casa era silenziosa, con luci soffuse. Era come se il tempo si fosse fermato. Dissi a mamma e papà che potevano andare a riposarsi: avrei badato io al mio fratellino. Mi sdraiai sul divano accanto a lui, e mentre continuava a dormire, sentii un calore nuovo nel cuore. Forse, pensai, avere un fratello non era poi così male. Anzi, era bellissimo.
Una scala per il paradisoMio padre è un pastore, e adesso che sono cresciuto lo aiuto con il gregge. Voglio diventare come lui. Tra i pastori c’era Michele, il preferito di noi bambini, anche se i grandi lo prendevano spesso in giro. Aveva capelli arruffati, occhi azzurri profondi come il cielo, e mani grandi e callose. Camminava leggero, come se danzasse. Michele parlava con le pecore, e loro sembravano capirlo. Aveva dato a ciascuna un nome speciale: Stella Bianca di Neve, Luce Preziosa del Mattino, Fiore Fragile delle Alture. Quando le chiamava, correvano a nascondere il muso nelle sue mani. Non cercavano cibo, ma conforto, che trovavano sempre con lui. A volte spariva con una pecora, arrampicandosi sulle rocce più alte. Diceva che andava a incontrare le carezze del vento, e il vento lo accoglieva, accarezzando la sua pelle scura di sole. Dormiva tra le pecore, con una pietra come cuscino, e sorrideva anche nel sonno, sognando le sue "principesse di lana" che scalavano montagne immaginarie. Di notte, correva nei prati giocando a nascondino con la luna, che lo "catturava" sempre con le sue mani di luce. Si tuffava nei torrenti gelidi e si asciugava al sole, abbracciandolo come un vecchio amico. Con la lana delle sue pecore aveva tessuto una coperta soffice e bianca. Diceva: «È per il re bambino che sta per arrivare». Nessuno gli credeva: per i grandi, era solo un’altra delle sue stranezze, come le principesse. La notte di Natale, lo vidi dirigersi verso una capanna. Lo seguii di nascosto, incuriosito. Michele, con le mani tremanti, posò la sua coperta sopra un bambino appena nato, adagiato in una mangiatoia. Quello era il re di cui parlava. Poi, con un sorriso di pura gioia, si incamminò su una scala dorata che sembrava nascere dal nulla. Intorno a lui, schiere di angeli festanti salivano e scendevano. In quel momento capii perché Michele aveva sempre la testa fra le nuvole. Per tutto quel tempo, avevamo avuto tra noi un angelo, e nessuno se n’era accorto.
La luce eternaC’era una volta un pittore, il più talentuoso del mondo, anche se nessuno lo sapeva. I suoi quadri erano così belli che chi li ammirava ne usciva trasformato. Si racconta, per esempio, che un gobbo burbero e scontroso, sbirciando appena un dipinto di quel pittore, si fosse trasformato in un cavaliere nobile, liberando il suo paese da tre tiranni: Grigio Primo Senza Gioia, Grigio Secondo Senza Sogni e Grigio Terzo Senza Coraggio. La notte di Natale, il pittore giunse alla capanna di Betlemme con cavalletto, pennelli e colori. Davanti al Bambino, sopraffatto dall’emozione, decise di dipingere quel momento indimenticabile. Con tratti ispirati, schizzi e pennellate, creò un’opera straordinaria: al centro di un paesaggio notturno, dipinse una luce dorata così intensa che pareva uscire dal quadro, illuminando tutto intorno. Intitolò il dipinto "La luce eterna". Essendo sconosciuto, però, il quadro finì dimenticato in una soffitta. Anni dopo, passò di mano in mano fino a giungere nelle mani di Ruggero, un pirata dal carattere cupo e dalla barba ispida. Quando vide la luce dorata e lesse il titolo, Ruggero, abituato a tesori e leggende, esclamò: «Non c’è dubbio! Questa è una mappa del tesoro! Un tesoro immenso, mai trovato prima». Così partì alla ricerca. Navigò per mari agitati, scalò montagne impervie e percorse strade senza fine. Affrontò tempeste, nemici e tradimenti. Alla fine, ridotto allo stremo, senza nave né compagni, arrivò davanti a una piccola capanna. Era ancora la notte di Natale. Quello che vide lo lasciò senza fiato. Dentro la capanna, il sorriso del Bambino lo accolse come se lo stesse aspettando. La luce, quella stessa che aveva visto nel quadro, avvolse ogni cosa, inclusa la sua anima. Ruggero, il pirata temibile, sentì il cuore sciogliersi e si trasformò. Tornato al suo paese, divenne un cavaliere giusto e generoso, liberandolo dai tre tiranni: Grigio Primo Senza Fiducia, Grigio Secondo Senza Speranza e Grigio Terzo Senza Amore. Perché, come si dice, la vera Bellezza non solo illumina, ma trasforma i cuori.
Il viaggiatore e i saggiC’era una volta un uomo con occhi freddi e capelli scuri come la notte. Era un uomo egoista: non condivideva nulla, nascondeva le sue ricchezze in un luogo segreto e non salutava mai nessuno, temendo che gli chiedessero qualcosa. Viveva in una casa cupa, senza finestre, con un tetto basso e una porta così stretta che doveva chinarsi per entrare. Intorno, tutto era grigio e privo di vita. Un giorno d’inverno, sentì parlare di un bambino destinato a diventare un grande leader. Si diceva che persone da terre lontane stessero viaggiando per incontrarlo. Pensò che quell’occasione poteva essere utile: «Conoscere qualcuno di potente può sempre servire», rifletté. Si vestì con abiti eleganti, imitò l’aspetto di un saggio viaggiatore e si unì a un gruppo di persone che stavano seguendo una stella luminosa nel cielo. Durante il cammino, incontrarono un anziano tremante dal freddo. Uno dei saggi si tolse il mantello e lo avvolse sulle spalle del vecchio, che lo ringraziò con occhi colmi di gratitudine. L’uomo egoista, invece, si girò dall’altra parte, fingendo di non vedere. Più avanti, si imbatterono in un gruppo di bambini affamati. Un altro saggio si fermò e distribuì loro del pane e dell’acqua, facendoli sorridere di gioia. L’uomo egoista, intanto, si lamentava del ritardo e rimaneva distante. Infine, trovarono delle donne cariche di pesanti recipienti d’acqua. L’ultimo dei saggi si affrettò ad aiutarle, caricando i recipienti sugli animali e accompagnandole verso il loro villaggio. L’uomo egoista, invece, finse un dolore improvviso alla schiena per evitare di fare fatica. Quando giunsero alla destinazione, i saggi erano stanchi, i loro abiti semplici e consumati, ma i loro volti brillavano di serenità. Si inginocchiarono davanti al bambino appena nato, il cui sorriso sembrava avvolgere tutto di luce. La famiglia li accolse con calore, riconoscendo in loro veri portatori di saggezza. L’uomo egoista, invece, rimase in disparte, ancora avvolto nei suoi ricchi abiti. Nessuno lo notò, nessuno lo ringraziò, perché non aveva condiviso nulla lungo il viaggio, né aiutato chi aveva incontrato. Alla fine, capì che, nonostante il suo sfarzo, non era riuscito a toccare il cuore di nessuno. E quella, si dice, fu la lezione più grande che mai imparò.
La strana notte dei cattivi Le feste di dicembre si avvicinavano, e ovunque si parlava di generosità e gentilezza. Nei negozi, nelle piazze, nei telegiornali, tutti celebravano lo spirito di bontà. Era una regola non scritta: a dicembre bisognava essere buoni, e per chi non lo era, non c'era posto tra i festeggiamenti. In una fredda notte d’inverno, in una baracca di legno malandata nascosta tra gli alberi spogli, si tenne una riunione speciale. Erano presenti tutti i personaggi che il mondo considerava “cattivi”: creature delle ombre, maghi oscuri, furfanti e burloni. A presiedere l’incontro c’era il Gran Maestro del Caos, che con voce solenne annunciò: «Per questo inverno abbiamo deciso di fare una cosa mai fatta prima. Per un solo giorno, diventeremo buoni. Soltanto per un giorno, chiaro. Allo scoccare della mezzanotte torneremo al nostro solito… ma fino ad allora, cerchiamo di mescolarci a questa strana atmosfera delle feste». Ci furono mormorii e borbottii. Per molti, essere buoni era un mistero. Così fu organizzato un rapido addestramento per capire come comportarsi. Alla fine, ogni partecipante si sentì pronto ad affrontare la sfida. Quando il giorno stabilito arrivò, accadde qualcosa di straordinario. Le strade si riempirono di scene mai viste. I draghi dalle fiamme ardenti usavano il loro calore per scongelare i sentieri ghiacciati e aiutare i viandanti. I ladri svuotavano i loro sacchi e distribuivano i tesori ai passanti. Gli illusionisti creavano spettacoli di luci e colori per far sorridere i bambini. Nel frattempo, i burloni organizzavano giochi divertenti per i più piccoli, e persino i maghi più oscuri preparavano incantesimi che portavano serenità nei villaggi. I fantasmi, invece di spaventare, si mettevano a cantare melodie delicate che riempivano la notte di magia. Tutti notarono che qualcosa di unico stava accadendo. Persino i più sospettosi non potevano fare a meno di sorridere. Fu una giornata memorabile, che riempì il cuore di chiunque vi assistesse. Alla fine della giornata, come da accordo, i "cattivi" tornarono alle loro case isolate, pronti a riprendere la loro solita vita. Ma nessuno li aveva avvertiti che il gusto della bontà è difficile da dimenticare. Quella notte, mentre dormivano, i loro pensieri erano pieni di gentilezza. E nei loro sogni, si vedevano ancora intenti a fare del bene. Al risveglio, senza accorgersene, continuarono a compiere piccoli gesti di gentilezza, scoprendo che, forse, essere buoni non era poi così male. E così, quella strana notte di dicembre trasformò non solo le persone che li avevano incontrati, ma anche loro stessi.
Quella volta che Chiara cadde nel presepe Chiara era una bambina estremamente curiosa. Le piaceva esplorare tutto: le credenze della cucina, i vecchi libri, il giardino e persino i presepi. Un giorno, mentre si chinava sul presepe di casa, curiosa di vedere i dettagli più nascosti, si sporse troppo e... patatrac, ci cadde dentro. «Niente di grave», penserete. Ma non fu così. In quel momento, il presepe cambiò. Tutto ciò che prima era finto divenne reale: il muschio era soffice e umido, il ruscello scorreva gorgogliando, e il cielo sopra di lei era buio e tempestato di stelle. Chiara si ritrovò in un mondo sconosciuto. L’aria era fredda, e non aveva né cappotto né scarpe adatte. In lontananza, una fioca luce illuminava un piccolo villaggio. Decise di avviarsi, camminando lungo un sentiero stretto e fangoso. Intorno a lei, il bosco era pieno di ombre e strani rumori. Mentre la luna faceva capolino tra le nuvole, Chiara udì un ululato lontano. «Forse sono lupi!» pensò, e iniziò a correre senza guardarsi indietro. Arrivò al villaggio senza fiato, ma lì la confusione regnava sovrana: uomini bevevano e ridevano, le finestre delle case brillavano di luce calda, ma nessuno sembrava notarla. Chiara bussò a molte porte, chiedendo un posto dove riposare. Ma ovunque le rispondevano: «Non c’è spazio, vai altrove!». Stanca e scoraggiata, si allontanò dal villaggio, cercando un rifugio tra le ombre. Mentre camminava, alzò lo sguardo e vide una stella incredibilmente luminosa. Sembrava muoversi verso una collina distante. «Deve essere la cometa!» pensò. Decise di seguirla, anche se il sentiero si faceva sempre più buio e freddo. Dopo un lungo cammino, vide una luce tenue in lontananza, quasi nascosta tra le rocce. Avvicinandosi, scoprì una capanna. Dentro, vide una scena che la lasciò senza parole: un bambino appena nato, avvolto in una coperta, sorrideva dolcemente da una mangiatoia. Accanto a lui c’erano una giovane madre e un uomo che sembrava proteggere entrambi con il suo sguardo. Intorno, pastori riscaldavano le mani accanto al fuoco, e nel cielo brillavano angeli che cantavano dolci melodie. Chiara si sentì subito tranquilla, come se quella luce calda e accogliente la stesse abbracciando. Si avvicinò piano, e il sorriso del bambino sembrò scacciare ogni freddo e paura. «Buongiorno, tesoro», disse una voce familiare. Chiara si svegliò di soprassalto. Era la mamma, che la stava scuotendo leggermente. «Svegliati, è la mattina di Natale!» Chiara sorrise, pensando a quel sogno incredibile. E per tutto il giorno non poté fare a meno di chiedersi: E se non fosse stato solo un sogno?.
"Vorrei essere un bambino"Dio disse: «Vorrei diventare un bambino». «Un bambino? Ma i bambini sono fragili, non sanno nulla!» «Proprio per questo. Voglio imparare il mondo poco a poco. Voglio sentire il vento, scoprire il sapore delle cose, capire la gioia di costruire qualcosa con le mie mani». «Ma tu sai già tutto! Perché vorresti scoprire ciò che hai creato?» «Per sentire la sorpresa, l’attesa, la gioia di un dono. Voglio cercare un amico, sentirmi amato, ascoltare una storia e condividere un sorriso». «Ma sei eterno e onnipotente! Perché mai voler essere debole e dipendente?» «Perché voglio sapere cosa significa essere accolto, protetto, amato senza condizioni». «E quando pensi di fare questa follia?» «Stanotte», rispose Dio. «E dove?» «In un posto qualunque, ma perfetto. In una culla semplice, tra le braccia di chi mi aspetta». Così Dio scelse di nascere come un bambino, piccolo e fragile, per scoprire e insegnare l’amore attraverso le cose più semplici.
Disattenzione: una storia che si ripete «Dunque?» «Succederà di nuovo, come ogni volta». «Non ci credo!» «E invece sì. Loro due partiranno, secondo la legge. Lei è giovanissima, aspetta un bambino. Ma lui sarà con lei, sempre». «Ma almeno questa volta il viaggio sarà più facile, vero?» «No, sarà lungo e faticoso, come sempre». «Di sicuro qualcuno li aiuterà: un’auto, un treno, un aereo. Lei ha bisogno di stare comoda!» «No, andranno a dorso di un asino». «Non può essere! Stavolta qualcuno si sarà ricordato di loro». «Nessuno se n’è preoccupato. Andranno soli». «Ma almeno li accoglieranno! Una stanza calda, cibo, coperte… devono sapere che sta per nascere un bambino!» «Non ci sarà posto. Le porte saranno chiuse. Qualcuno dirà che sono stranieri, forse pericolosi. Qualcuno penserà che dovrebbero starsene a casa loro». «Impossibile! Qualcuno offrirà un letto, un rifugio… il bambino sta per nascere!» «Le porte resteranno serrate. Nessuno sorriderà loro. Il bambino nascerà dove capita: una stalla, una capanna, o magari sotto un cielo aperto. Ma sai cosa? La prima cosa che vedrà sarà la gioia negli occhi dei suoi genitori, che saranno lì, coraggiosi e pieni d’amore». E così, ancora una volta, la storia si ripete..
Nessuno scoopLa notizia era ovunque: quest’anno la Natività si sarebbe svolta nella straordinaria città di Grandetopia, famosa per la sua modernità e grandezza. Una Commissione Universale della Natività (CUN), composta da eminenti leader e personalità, aveva deciso che un evento di tale portata doveva essere pianificato con attenzione. E Grandetopia fu scelta come la sede perfetta. La città si mise subito all’opera. Vennero costruite nuove strade, parchi e piazze con nomi evocativi come "Piazza Magnifico Natale" e "Viale Glorioso Bambino". Al centro della città, un’imponente struttura, ispirata alla forma di una capanna, fu dotata di tutti i comfort: una suite di lusso per Maria e Giuseppe, una culla riscaldata per Gesù, spazi per eventi e una sala stampa per i media mondiali. Il governatore di Grandetopia appariva spesso in televisione, dichiarando con orgoglio: «Dopo millenni, daremo al Figlio di Dio l’accoglienza che merita!». La gente applaudiva, convinta che fosse un Natale senza precedenti. La sera di Natale, il mondo intero attendeva con trepidazione davanti ai televisori. Nessuno notò che, lontano da tutto questo, in un piccolo villaggio chiamato Bethlehem, Maria e Giuseppe cercavano disperatamente un posto dove stare. Andarono di porta in porta, ma le risposte furono sempre le stesse: «Non c’è posto». Alcuni li scacciarono con parole dure, altri finsero di non sentire. Tutti erano troppo impegnati a non perdere lo spettacolo trasmesso in mondovisione. Alla fine, Maria e Giuseppe trovarono rifugio in una vecchia stalla. Il calore del fiato di un bue e di un asinello li accolse, e lì, tra il profumo della paglia, nacque Gesù. Maria lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia. Nel frattempo, le telecamere di Grandetopia inquadravano una culla vuota nella capanna di lusso. Nessuno si accorse che il vero miracolo era avvenuto altrove, in silenzio, tra l’umiltà e il calore dell’amore.
Festa immaginariaIl Natale era alle porte, e i bambini lo aspettavano con impazienza. Controllavano il calendario ogni giorno, osservando come i numeri 25 e 26 fossero stati cerchiati di rosso, pronti a ricordare l’arrivo della festa. Per loro, era tutto pronto, almeno nei pensieri e nell’entusiasmo. I grandi, però, sembravano completamente ignari dell’atmosfera natalizia. L’architetto, perso tra i suoi disegni, non riusciva a superare il piano terra del progetto di un condominio. La sindaca, senza voce per il mal di gola, non era in grado di portare a termine i suoi discorsi ufficiali. Lo scrittore fissava inutilmente il foglio bianco, frustrato dal suo blocco creativo, mentre la mamma, interrotta continuamente dal telefono, non riusciva a completare le pulizie di casa. Il muratore continuava a costruire muri storti, e la maestra, senza occhiali, cercava invano di correggere i temi da lontano. Quando finalmente arrivò il giorno di Natale, i grandi erano così presi dai loro impegni che non si accorsero nemmeno di cosa stesse accadendo. Ai bambini che saltavano gridando «È Natale, evviva!», rispondevano distrattamente con frasi come «Non adesso!» o «Lasciatemi lavorare!». I piccoli, però, non si lasciarono scoraggiare. Decisero di organizzare la loro festa e si riunirono al parco, dove immaginarono un grande abete di Natale al centro. In realtà era una magnolia, ma ai loro occhi sembrava perfetta. Ognuno trovò il proprio regalo sotto l’albero. Marco afferrò un pallone da basket immaginario e iniziò una partita con gli amici. Anna, con un violino immaginario, suonò una melodia natalizia. Giovanni si immerse nella lettura di un’intera collezione di fumetti, mentre Matteo, sorridendo, accese il suo nuovo computer immaginario. Sofia provò lo skateboard che aveva desiderato da tanto, e Marta condivise con Lorenzo i biglietti immaginari per il concerto del loro cantante preferito. Francesca e Tommaso si sfidarono in una corsa sulla pista immaginaria per biglie, tra risate e scherzi. Intorno a loro cominciò a cadere una neve immaginaria, trasformando il parco in un paesaggio incantato. Con lo slittino immaginario trovato sotto l’albero, i bambini si divertirono a scendere dalla collinetta, ridendo e gridando di gioia. Il tempo passò senza che nessuno di loro volesse tornare a casa. Se qualcuno avesse chiesto loro di scrivere un tema su "Il Natale più bello", non avrebbero avuto dubbi. Quel Natale, fatto di giochi e sorrisi, non era stato affatto immaginario. Era stato vero, verissimo, e nessuno lo avrebbe mai dimenticato.
L’albero della pace C’erano una volta due paesi confinanti, Terranova e Altavalle, separati da un unico punto preciso: un antico e maestoso abete. Alto e imponente, l’albero era stato lì per secoli, testimone di una rivalità tanto antica che nessuno ricordava più come fosse iniziata. Tra i due paesi c’era sempre tensione, e i loro abitanti si guardavano di traverso anche da lontano. Ogni anno, però, per Natale, l’abete diventava protagonista. Gli abitanti di Terranova addobbavano il loro lato con ornamenti verdi, mentre quelli di Altavalle usavano decorazioni dorate. L’albero, diviso a metà, si sentiva ridicolo e malinconico. Avrebbe voluto essere un simbolo di festa e gioia, ma invece rappresentava solo divisione. Quando soffocava i suoi sospiri tra le fronde, sembrava che il vento portasse via il suono della sua tristezza. Un inverno, la rivalità tra i due paesi raggiunse un punto critico. Dopo litigi e scontri, entrambi finirono le loro risorse. E quando arrivò Natale, le scatole degli addobbi erano vuote. Nonostante le dispute, però, c’era una cosa su cui entrambi i paesi erano d’accordo: il Natale senza un albero decorato non era Natale. Così, i due sindaci, per la prima volta, decisero di collaborare. Vennero invitate tutte le famiglie a portare qualcosa per decorare l’albero, qualsiasi cosa avessero. Durante la notte della vigilia, le persone rovistarono in ogni angolo delle loro case, tirando fuori vecchi oggetti dimenticati. Per ore, sotto il freddo della notte, lavorarono insieme, appendendo ciò che trovavano ai rami dell’abete. Quando arrivò l’alba, tutti si radunarono per vedere il risultato. L’albero era addobbato con un miscuglio incredibile: teiere e scolapasta, vecchi cappelli, calze spaiate, palloni bucati, giocattoli usati, persino qualche scarpa. Qualche bambino si era persino arrampicato sui rami più bassi per appendere altri oggetti e ora, fiero, si teneva stretto all’albero. Alla vista di quell’albero così bizzarro, scoppiò una risata generale. Gente di entrambi i paesi rideva senza sosta, le barriere di rivalità crollarono in un istante. Anche i più burberi si lasciarono andare. La risata divenne contagiosa, riempiendo l’aria di gioia. Le campane delle chiese iniziarono a suonare, i bambini correvano e giocavano insieme, e nessuno pensò più a ciò che li aveva divisi. L’abete, finalmente, si sentì orgoglioso. Non era il più elegante, ma era il più felice. Quella volta, non fu solo un simbolo di festa, ma anche di pace. E da quel giorno, ogni Natale, i due paesi si ritrovarono sempre lì, ai piedi dell’albero, per ricordare che la condivisione può rendere speciale anche un vecchio paio di scarpe appeso a un ramo.all'albero, dal canto suo era così felice che allungò le braccia, fino a toccare il cielo.
Il dono ritrovatoQuel Natale sembrava destinato a essere diverso per Elisa. Amava le luci, i regali, l’atmosfera calda del caminetto acceso, ma nulla riusciva a cancellare il vuoto lasciato dalla sua adorata Lulù, la piccola giraffa di stoffa che aveva sempre avuto con sé. Lulù le era stata regalata quando era nata, con un maglioncino giallo ricamato dalla nonna, e da allora non l’aveva mai abbandonata. Elisa la portava ovunque: in vacanza, a scuola, persino dal dentista. Ma un giorno di ottobre, durante una gita al luna park, era successa una cosa terribile. Dopo una giornata tra giostre e giochi, Elisa si era accorta che Lulù non era più nella borsetta. Avevano cercato dappertutto, ma senza successo. Tornarono a casa con il cuore pesante. Elisa passò giorni a piangere. Tutti le dicevano che con il tempo si sarebbe abituata, ma non era così. Anche se le avevano regalato nuovi pupazzi – un orsetto, un coniglietto, persino una giraffa simile – nessuno era Lulù. Ogni volta che pensava a lei, sentiva un nodo alla gola. La mattina della vigilia, mentre la casa era immersa nei preparativi, il campanello suonò. Elisa corse ad aprire e trovò il postino con un piccolo pacchetto e una busta indirizzati proprio a lei. Emozionata, li portò alla mamma, che l’aiutò a leggere la lettera: Cara Elisa, mi chiamo Lucia, ho 74 anni e sono una nonna. Quel giorno al luna park ho trovato una piccola giraffa abbandonata vicino alla fontana. Ho capito subito che doveva essere importante per qualcuno. Profumava di biscotti e crema alla vaniglia, e l’ho portata con me, decisa a cercare il suo proprietario. Ho chiesto a molte persone, ho lasciato messaggi, ma sembrava impossibile trovarti. Stavo per arrendermi, ma poi ho incontrato un uomo al negozio di giocattoli che mi ha parlato di una famiglia che cercava disperatamente una giraffa simile. Da quel momento, ho capito che doveva essere tua. Ora Lulù può tornare a casa, dove appartiene. Buon Natale, Elisa. Spero che questo sia il Natale più speciale per te. Con affetto, Lucia Elisa scartò il pacchetto con mani tremanti. Dentro c’era Lulù, con il suo maglioncino giallo ricamato. La strinse forte al petto, con un sorriso che le illuminava il viso. Quel piccolo dono, perso e ritrovato, era davvero il regalo più prezioso che potesse ricevere. Per Elisa, quel Natale diventò unico, perché ritrovare Lulù significava ritrovare una parte di sé.
Un'attesa diversaDavanti a una piccola stalla, in una notte fredda e stellata, si era radunata una folla. Curiosi e cronisti erano lì, armati di quaderni, macchine fotografiche e cellulari, pronti a documentare un evento che prometteva di essere straordinario. Si diceva che sarebbe nato un bambino speciale, e tutti volevano essere i primi a raccontarlo. Tra la folla, c’era un continuo vociare. Alcuni ipotizzavano come sarebbe stato il bambino: avrebbe avuto occhi scuri o chiari? Sarebbe stato timido o sorridente? Altri si chiedevano che doni avrebbe ricevuto. «Oro, argento o qualcosa di nuovo e sorprendente?» si domandavano, mentre l’atmosfera si riempiva di speculazioni e supposizioni. Le ore passavano, ma dalla stalla non giungeva alcuna notizia. La mezzanotte arrivò e passò. Poi l’una, poi le due. L’entusiasmo della folla cominciò a scemare. Uno a uno, i giornalisti si allontanarono, delusi per non aver avuto la loro storia. Anche i curiosi, stanchi e infreddoliti, tornarono alle loro case, spegnendo luci e telefoni. Ma non tutti se ne andarono. Rimasero un asino e un bue, qualche pastore con le sue pecore, e un piccolo gruppo di stelle che illuminavano dolcemente la notte. Erano persone semplici, che sapevano cosa significa aspettare. Non avevano bisogno di notizie immediate o grandi annunci per capire che ogni nascita è un miracolo. Poi, quasi senza clamore, accadde. In quella stalla modesta, il bambino venne al mondo. Il suo primo respiro fu accolto dal calore degli animali e dai sorrisi di chi era rimasto. Non ci furono telecamere, né dirette, né tweet. Ma in quell’istante, qualcosa cambiò. Un piccolo evento che sarebbe diventato grande, non per chi lo raccontò, ma per chi lo seppe riconoscere.
La zampogna ritrovata di Federico «Non ce la faccio più! È una vergogna!» sbottò Federico, lo zampognaro, mentre cercava di liberarsi dal caos nello scatolone. Era incastrato tra una vecchia casa di cartone e qualche filo di luci aggrovigliate. Ma non era la scomodità a renderlo furioso: era il pensiero del presepe imminente. «Anche quest’anno mi metteranno senza la mia zampogna. È insopportabile!» protestò. Da tre lunghi Natali il suo strumento era scomparso, e nessuno si era preso la briga di cercarlo. «Hai ragione, Federico» disse Paolo, il fornaio, con un tono solidale. «La tua musica rendeva tutto più vivo nel presepe». «Mi mancano i tuoi brani» aggiunse Sofia, la pastorella, facendo finta di ballare sotto la stella cometa di plastica. Federico sospirò: «Non suonare è come perdere una parte di me. Mi sento inutile, come un pittore senza pennelli o un poeta senza parole». Le altre statuine, dispiaciute, si guardarono tra loro. Fu Sofia a proporre una soluzione: «Perché non la cerchiamo? Abbiamo ancora qualche giorno prima che il presepe venga allestito. Non possiamo arrenderci!». Fu così che tutti si misero al lavoro. Chi cercava tra i rami dell’albero di plastica, chi tra i fondali del presepe, chi nei fili aggrovigliati delle luci. Ma, nonostante gli sforzi, la zampogna sembrava essere svanita nel nulla. Federico, sconsolato, si sdraiò accanto alla mangiatoia vuota, pensando che quel Natale sarebbe stato triste come gli ultimi tre. Fu allora che il cane del gregge, un vecchio segugio chiamato Arturo, alzò il naso e iniziò a fiutare. Il suo fiuto lo guidò verso uno scatolone che nessuno aveva controllato: quello dei vecchi giocattoli. «Non ci avevamo pensato!» esclamarono tutti, seguendo Arturo. Rovistando tra bambole senza capelli, palle sgonfie e macchinine arrugginite, alla fine la trovarono. Lì, nell’angolo più buio, c’era la zampogna di Federico, coperta di polvere ma intatta. Federico non riusciva a credere ai suoi occhi. Prese lo strumento, lo pulì con cura e lo portò alle labbra. La sua musica riempì la stanza, una melodia così dolce e allegra che tutte le statuine iniziarono a danzare. Quando il presepe fu allestito, Federico suonava come mai prima d’ora, e la sua musica portava una gioia così grande che sembrava contagiare anche il piccolo bambino nella mangiatoia. Se qualcuno avesse guardato da vicino, avrebbe visto un sorriso sul volto del neonato, e forse, solo forse, avrebbe sentito il ritmo della zampogna nei suoi piedini scalcianti. E così, grazie alla zampogna ritrovata, quel Natale divenne indimenticabile.
La pecora azzurra e il Natale mancatoIn una calda giornata estiva, l'orso Bruno raduna gli animali della foresta per annunciare che qualcosa di straordinario accadrà il 25 dicembre, in una stalla vicina, ma molti di loro saranno in letargo e rischiano di perderlo. Dopo alcune lamentele, l'orso propone di chiedere al picchio inventore di costruire sveglie speciali per svegliarli in tempo. Il picchio costruisce le sveglie, e la vigilia di Natale, alle 23:33, iniziano a suonare con grande frastuono, ma nessun animale si sveglia. Quando la primavera arriva e gli animali si risvegliano, si dirigono alla stalla, ma trovano solo fieno e nessun segno del Natale. Mentre tornano alle loro tane, la lepre nota un ciuffo di lana azzurra. È la pecora azzurra! Gli animali la trovano e le chiedono cosa sia successo quella notte. La pecora racconta di una stella speciale, di angeli e della nascita di un bambino portatore di pace e gioia. Gli animali, ascoltando il suo racconto, capiscono che la magia del Natale non si perde, ma rimane nei loro cuori, trasformando la delusione in meraviglia. Anche senza essere presenti quella notte, il racconto rende il Natale indimenticabile per tutti.
Decreto di Natale di Re EdoreSi riporta qui il proclama del Re Edore per tutta la popolazione:
- Nessun bambino deve mai nascere al freddo o soffrire la fame e la sete.
- Ogni nascita deve essere festeggiata con gioia e affetto. Si consiglia l’uso generoso di baci, abbracci e parole gentili.
- Le future mamme devono sempre trovare ospitalità e accoglienza. Chi si rifiuta sarà condannato a dire “no” per un anno intero, anche a proposte allettanti come una fetta di torta o una vacanza al mare!
- Tutti possono essere re, purché abbiano buon senso e pensino pensieri di pace.
- Niente corone d’oro! Al loro posto, solo doni utili: giochi, dolci e cioccolatini.
- Stupirsi davanti a una stella cometa è obbligatorio. Sono accettati balli, salti, canti e anche capriole per esprimere meraviglia.
- Tutti gli animali sono sacri, dal bue all’asino, fino agli scarafaggi.
Lettera alla vitaMARIA, LA MAMMA Figlio mio, quante volte ti ho sognato, immaginato, atteso. Non sto aspettando un bambino qualsiasi: sto aspettando te. Ti scrivo una lettera segreta, disegnata con la luce delle stelle sulla tela della notte. Questo viaggio è lungo e faticoso, ma lo amo perché è il cammino che ci condurrà a essere una famiglia: tu nascerai figlio, io diventerò madre. Mentre l'asino avanza, ti culla il ritmo costante del suo incedere, come il battito del mio cuore. Sei un bambino portato dal vento, giunto con il bisbiglio di un angelo. Ogni bambino è annunciato dal cielo, anche se spesso non ce ne accorgiamo. Tu sei la luce che scioglie l'oscurità, una promessa di giorni nuovi. Respiro il buio per dirti che non ho paura, che tutto questo è giusto e bello. Puoi sentire il mio respiro? È pieno di coraggio e gioia, una forza che la vita mi dona per accoglierti. Tu sei il bambino che appartiene al mondo, eppure sei tutto il nostro mondo. Ti preparo una collezione di abbracci: leggeri come una brezza d'estate, caldi come un focolare d'inverno. Ti parlerò con le mie mani, con gli occhi e con il canto. Ti mostrerò mappe speciali: la mappa delle meraviglie e quella delle lacrime, quella dei segreti del tempo e quella delle avventure infinite. Ti guiderò nei sentieri del coraggio e ti insegnerò a rialzarti quando cadrai. Un giorno aprirai la tua valigia, unica e misteriosa, con la tua combinazione segreta. Forse sceglierai di esplorare le montagne o di costruire sogni con una penna. Qualunque sia il tuo cammino, io ti amerò. Ora è il momento: tu vieni alla luce, e la luce si fa vita. GIUSEPPE, IL PAPÀ Figlio mio, ho pensato a tutto: una coperta spessa per il freddo, il cibo per il viaggio e il mantello per proteggere Maria. Questo censimento ci costringe a partire proprio ora, a lasciare la casa vuota mentre tu stai per arrivare. Ma nulla importa più della mia famiglia e io ti proteggerò. Maria è straordinaria, con il suo grembo che sembra custodire il sole. Porta con sé una forza tranquilla che illumina ogni cosa intorno a noi. Tu sei nato nei sogni e nelle promesse degli angeli e ora sei qui, più reale di qualsiasi pensiero. Le strade sono affollate e ogni porta è chiusa. “Non c’è posto,” ci ripetono. Offro tutto ciò che ho, ma nessuno ci accoglie. Alla fine troviamo una stalla malandata, con un tetto che sembra abbracciare le stelle. Non è un rifugio ideale, ma per Maria diventa un luogo sacro. Sistemo la paglia come posso, accendo una lanterna che fa eco alla luce della notte. Ti aiuterò, Maria, anche se il mondo mi obbligherebbe a restare fuori. Dimmi cosa fare ed io lo farò. Ora il tempo è giunto. Eccoti, bambino mio. Sei così piccolo, così grande. Maria riposa, mentre io ti tengo stretto, il mio dono più prezioso. Io ti resterò nell'amore, per sempre.
Memorie di una Civetta Avendo raggiunto un'età che gli umani chiamerebbero "della saggezza", ho deciso di raccontare la notte più straordinaria della mia esistenza, una notte che rimarrà per sempre nei ricordi degli esseri viventi. È curioso che nessuno abbia mai citato il mio ruolo in questa vicenda. Certo, compare Asino, messere Bue e le immancabili comari Pecore hanno sempre ricevuto attenzione. Ma io? Nulla. Eppure, modestia a parte, il mio contributo fu essenziale. Era una notte tranquilla, di quelle in cui il silenzio abbraccia ogni cosa. Dalla mia postazione, un albero nodoso ai margini del villaggio, osservavo il mondo come sempre. Ma quel buio venne interrotto da un rumore di passi insoliti. Tra i primi bagliori dell'alba, vidi un uomo robusto condurre fuori un vecchio asino, mentre una donna, dal volto luminoso, lo seguiva. Mi accorsi presto che aspettava un bambino e che il momento era ormai vicino. L’uomo la aiutò a salire sull’asino, coprendola con un mantello caldo, e poi la condusse verso il bosco. Qualcosa mi disse che quell’evento era speciale. Senza esitazione, li seguii dall’alto, saltando di ramo in ramo. Camminarono tutto il giorno, fermandosi solo per riposare e condividere un pasto semplice di pane, fichi e datteri. Parlottavano tra loro con sguardi dolci e complici, come se stessero custodendo un segreto prezioso. Al calar del sole giunsero a Betlemme, una città viva di voci, luci e caos. Li vidi bussare a porte che si richiudevano implacabili. Finalmente, sotto un cielo ormai nero come l'inchiostro, trovarono riparo in una stalla modesta ai margini del villaggio. Anche io, stanca per il lungo volo, mi sistemai su una trave vicina, lottando contro il sonno. D’un tratto, il pianto di un neonato ruppe il silenzio. Aprii gli occhi di scatto: là, tra le braccia della madre, c’era un bambino splendente come una fiammella, mentre il padre lo guardava con un sorriso pieno d’amore e devozione. La scena mi riempì di un’emozione che mai avevo provato. Capendo subito l’urgenza del momento, volai verso il Bue, che russava placidamente in un angolo. Con un picchiettio deciso, lo svegliai. Serviva il suo calore per proteggere quella piccola vita. Poi mi lanciai nel bosco, emettendo il mio verso più potente: una chiamata che risvegliò ogni creatura. Compare Gufo e il Pipistrello erano impegnati in una discussione sulla traiettoria delle stelle, ma le comari Pecore, più sensibili al rumore, balzarono subito in piedi. Così, quando l’angelo apparve per dare il suo annuncio, trovò tutti già pronti. La stalla divenne il centro di una festa incredibile: canti celestiali si mescolarono ai belati delle pecore, ai bramiti dei cervi, ai cinguettii degli uccelli e perfino agli squittii dei topolini. Era un’armonia così caotica e meravigliosa che sembrava abbracciare il mondo intero. Ecco, dunque, la verità. Anche se nessun libro mi ha mai citato, tra i protagonisti di quella notte indimenticabile c’ero anch’io, comare Civetta, testimone discreta e operosa di un miracolo.
“Nascere” Dal giallo e dal rosso nasce l’arancio di un tramonto. Dal mare nasce una conchiglia che custodisce il suono delle onde. Dal profumo di resina nasce il mistero del bosco. Dal desiderio di volare nascono ali di carta, di legno e di piume. Dal silenzio nasce una melodia, leggera come il vento. Dal dialogo nasce un ponte tra me e te. Dalla solitudine nasce il coraggio di condividere. Dalla pizza nasce un tavolo pieno di risate. Dal seme nasce un albero che abbraccia il cielo. Dal micio che fa le fusa nasce un sorriso, morbido come il velluto. Dal soffio della notte nasce un poeta, che ascolta le stelle. Dai giorni di fatica nasce la gioia del riposo. Dal passo incerto nasce un viaggio lontano. Dal ramo spoglio nasce la promessa delle stagioni. Dal guardare con attenzione nascono le stelle cadenti. Dal sasso nel fiume nasce il canto dell’acqua. Dalla panchina al parco nasce il tempo per pensare. Dalla nebbia nasce la danza di ombre e sogni. Da un bambino nasciamo noi.