Storia dall'Imperialismo alle guerre balcaniche
alessio caporale
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Di Alessio Caporale 5°C
Dall' Imperialismo alle guerre balcaniche
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L'imperialismo è la volontà di uno Stato di estendere il proprio dominio (politico, economico e culturale) su altri territori al fine di realizzare un impero. Il termine venne coniato in Francia nell'Ottocento per definire il regime instaurato da Napoleone III, fu usato in seguito in Inghilterra, associato all'idea di dispotismo e infine il suo significato venne esteso alla tendenza di una nazione a imporre il suo dominio economico e a influenzare la politica interna di altri paesi con l'obiettivo di avviare la costruzione di imponenti imperi economici. Per i paesi dominanti uno degli obiettivi principali di questo sistema era quello di ricavare dai paesi occupati una grande quantità di materie prime a costi bassi. Il termine è usato talvolta per descrivere la politica estera di uno Stato tesa al mantenimento di colonie e domini in terre lontane, anche se lo Stato stesso non si considera un impero.
Imperialismo
Indice
Le due guerre Balcaniche
Epoca giolittiana
Politica post risorgimentale italiana
Imperialismo europeo e extraeuropeo dell'800
L'Europa, inoltre, padroneggiava i mezzi di comunicazione intercontinentali, ma le sue navi avevano bisogno di scali sicuri per approvvigionarsi di carbone durante le sue traversate. Contemporaneamente gli imprenditori volevano allargare i propri mercati e avere serbatoi di materie prime di cui l'Europa era priva, come, per esempio, il petrolio e il caucciù. Le classi dirigenti dell'Ottocento tradussero tutte queste necessità in Imperialismo, cioè in una nuova forma di colonialismo che, per la prima volta, mirò sia al totale sfruttamento economico dei paesi colonizzati sia al loro controllo territoriale. Si concretizzò attraverso:
- La conquista militare di vaste zone per prenderne il controllo ed assicurare la pace tra le popolazioni locali
- Il controllo politico delle nuove colonie attraverso funzionari europei
- Lo sfruttamento economico con lo scopo di commercializzare le materie prime e di rivenderne i prodotti finiti in Europa.
In Europa
L'atteggiamento assunto da Germania, Inghilterra e Francia in questo trentennio di storia di esasperato imperialismo, un atteggiamento di fanatico "eurocentrismo". Nella prima metà del XIX secolo tutto lasciava pensare che il colonialismo fosse ormai tramontato:
- Le colonie inglesi del Nord America erano diventate indipendenti e avevano costituito gli Stati Uniti;
- Le colonie spagnole e portoghesi dell'America centro-meridionale avevano ottenuto anch'esse l'indipendenza;
- Le poche colonie rimaste all'Europa in Asia, in Africa o nelle isole dell'America centrale sembravano poco interessanti dal punto di vista economico con la sola eccezione dell'India, saldamente dominata dalla Gran Bretagna.
Dal punto di vista economico, l'esperienza coloniale ebbe effetti positivi sui paesi che ne furono investiti, portando ad un miglioramento dell'apparato produttivo, grazie all'inserimento delle nuove tecnologie europee anche i popoli colonizzati poterono giovarne dei benefici, in molte colonie le popolazioni locali impiegate nelle attività di produzione venivano anche pagati in modo tale da poter far circolare la moneta ed agevolare gli scambi. Furono create economie orientate essenzialmente all'esportazione e alle monocolture, in molti casi però la colonia era precedentemente orientata verso un mercato interno anche se la produzione era decisamente inferiore e quindi si ebbe una sorta di shock iniziale che fu comunque assorbito nel tempo.Sul piano politico l'espansione coloniale finì per favorire la formazione o il risveglio di nazionalismi locali, ad opera soprattutto dei nuovi quadri dirigenti, che si formarono nelle scuole europee e vi assorbirono gli ideali democratici e i principi di nazionalità. L'Europa si trovò ad esportare quello che meno avrebbe desiderato: il bisogno di autogovernarsi e di decidere del proprio destino. I nuovi governanti che si trovarono ad amministrare le nazioni indipendenti nell'era post-coloniale travisarono completamente gli ideali di democrazia e giustizia acquisiti studiando in Europa. Essi sedotti dal potere grazie alla loro istruzione poterono soggiogare in breve tempo le popolazioni locali formando delle dittature.L'effetto dell'imperialismo sulle culture dei paesi colonizzati fu alquanto rilevante.I sistemi culturali che avevano una più solida tradizione e che erano legati a strutture politico-sociali organizzate benché molto primitivi, come nei paesi dell'Asia e del Nord Africa si difesero meglio nonostante alla fine furono soppiantati da sistemi democratici basati su modelli europei.
Conseguenze
Con la questione del canale di Panama gli Stati Uniti ottennero dalla Colombia l’autorizzazione di costruire e gestire un canale che unisse Pacifico e Mar dei Carabi. Ma successivamente la Colombia non ratificò il patto e gli Stati Uniti organizzarono una sommossa e Panama divenne una repubblica indipendente sotto la tutela americana e venne costruito il canale. Nella politica interna Roosvelt si aprì ai problemi sociali e introdusse vari provvedimenti riguardo la legislazione sociale. Cercò di limitare il potere dei grandi trusts (varie aziende) rendendo pubblici profitti. Quando Roosvelt lasciò la presidenza il partito repubblicano si spaccò. Wilson riprese il suo impegno sociale inserendolo in un quadro ideologico e politico diverso. Cercò di rafforzare il potere federale, lasciò inalterato il regime doganale protezionistico fu contrario ad ogni limitazione dell’autonomia degli Stati Intraprese la lotta sull’abbassamento delle tariffe protettive. Wilson fu più prudente e rispettoso negli affari internazionali ed era convinto che il ruolo degli Stati Uniti dovesse fondarsi sulla capacità espansiva dell’economia e sulla fedeltà ai principi basilari della tradizione democratica.
Gli Stati Uniti continuavano a rafforzarsi grazie al loro sviluppo economico. Nell’industria (siderurgica, meccanica, elettrica e petrolifera) erano più concentrate le parti finanziarie. Venne varato lo Sherman Antitrust Act che vietava gli accordi sui prezzi tra imprenditori di uno stesso settore e che facevano aumentare i prezzi, ma ottenne un effetto opposto a quello voluto poiché le imprese si fusero e gli Stati Uniti divennero un paese esportatore di prodotti industriali. Nel settore agricolo vennero usate la tecnologia e la chimica. Lo strapotere delle corporations e il rigido protezionismo fece diffondere il malcontento dei contadini danneggiati dagli alti prezzi dei manufatti. Il Partito populista formato da contadini si ispirava a ideali democratici ed egualitari ed ottenne molto successo. In questo periodo si svilupparono anche le organizzazioni operaie ma non avevano un partito di riferimento ma ottennero poco seguito. Ma ciò non rese meno aspri i contrasti sociali e le lotte sindacali si scontrarono con una durissima resistenza ed ebbero violenti conflitti. Roosvelt, progressista repubblicano, divenne presidente e difese gli interessi americani nel mondo con la pressione economica alle minacce di interventi (diplomazia del dollaro) e la minaccia di un intervento armato (grosso bastone).
Fuori dall'Europa
Giappone
Il contrasto Russia-Giappone cominciò dopo la vittoria del Giappone contro la Cina che entrarono in contrasto per il controllo delle regioni del Nord-est. Dopo essersi alleato con la Gran Bretagna, il Giappone propose alla Russia un accordo per la spartizione della Manciuria che venne rifiutata. La flotta giapponese attaccò quella russa (assedio a Port Arthur), penetrò in Manciuria sconfiggendo l’esercito e la flotta. La Russia firmò il trattato di Portsmouth che cedeva al Giappone la Manciuria meridionale, l’isola di Sakhalin e la Corea. Ciò aggravò le tensioni interne in Russia che sfociarono nella rivoluzione del 1905. Per la prima volta un paese asiatico batteva una grande potenza europea e l’oriente cessava di essere campo d’azione incontrastato per le potenze europee avviandosi a diventare terreno di competizione tra i 2 nascenti imperialismi: giapponese e statunitense. Durante lo shogunato Tokugawa il Giappone viveva in una politica di isolamento, con unico contatto occidentale una colonia commerciale olandese, situata nell'isola di Deshima (Nagasaki). A infrangere l'isolamento del Giappone furono tre grandi paesi occidentali: la Russia, l'Inghilterra e gli Stati Uniti.
Quando gli Stati Uniti lanciarono il loro attacco nel 1853 con le navi nere al comando del commodoro Matthew Perry, lo shogunato cedette e nel 1854 firmò la convenzione di Kanagawa con cui si aprirono diversi porti al commercio e i giapponesi si impegnarono a sostenere e proteggere i marinai americani. Nel 1853, un mese dopo Perry, era arrivata la delegazione russa capitanata dal contrammiraglio Evfimij Vasil'evič Putjatin, e nonostante questa avesse perso molte delle proprie navi nello tsunami del 1854, nel 1855 la Russia e il Giappone firmarono il trattato di Shimoda, con cui il Giappone concedeva molti degli stessi diritti ai russi e cedeva parte dell'isola di Sachalin. La Russia, dunque, rappresentava per il Giappone più una minaccia territoriale e militare che una minaccia economica e commerciale. Ponendo fine alla politica di isolamento, nel 1858 il Giappone firmò dei trattati ineguali, inizialmente con gli Stati Uniti (29 luglio), poi con l'Olanda (18 agosto), la Russia (19 agosto), l'Inghilterra (26 agosto) e la Francia (9 ottobre), che consentirono “l'apertura dei porti” e lo sviluppo del commercio straniero.
Nel Parlamento del nuovo Regno d'Italia erano presenti due gruppi: la destra, dove sedevano moderati e liberali (seguaci di Cavour), e la sinistra, dove sedevano democratici con idee repubblicane. Nelle prime elezioni, che si tennero nel 1861, vinse quella che fu chiamata Destra storica (liberal-moderata), formata da nobili e ricchi borghesi. Nell’Ottocento questi due gruppi condividevano l’ideologia liberale (che veniva dal pensiero di Locke) e una visione poco democratica (escludevano il popolo dalle decisioni più importanti).Destra storica: rappresentava interessi di commercianti agiati, grandi proprietari terrieri, imprenditori che appoggiavano la politica liberalista. Sinistra storica: rappresentava media e piccola borghesia (più avanti si aggiungeranno anche gli operai). Nonostante l’Unità d’Italia, il paese al suo interno era ancora profondamente diviso sotto il punto di vista linguistico, amministrativo e culturale. Per poter governare l’Italia si decise per una modalità centralizzata, che accentrasse tutti i poteri nelle mani del governo estendendo le leggi del Regno di Sardegna alle nuove regioni. Questo evento prese il nome di piemontesizzazione dell’Italia, che prevedeva l’estensione in tutto il regno dello Statuto Albertino (1848), della Legge Casati (1862) che prevedeva 4 anni di scuola elementare obbligatoria e gratuita, un provvedimento necessario in un paese in larga parte analfabeta. La sua concreta applicazione spettava ai comuni ma, soprattutto nelle aree rurali più povere, quest’obbligo scolastico restò inattuato, sia per costi sia per l’indifferenza dei sindaci e delle famiglie stesse. Venne esteso anche il servizio militare, e questo generò proteste soprattutto al Sud, dove gran parte delle persone doveva lasciare per un periodo molto lungo la coltivazione dei campi. Infine in tutto il regno venne estesa la politica liberalista che era stata impostata a suo tempo da Cavour (con la soppressione delle barriere doganali, soprattutto).
Politica post risorgimentale italiana
Nel gennaio 1861 si tennero le elezioni per il primo parlamento unitario. La Destra storica, espressione della borghesia liberale piemontese e tosco-emiliana, vinse queste elezioni. I suoi esponenti erano soprattutto grandi proprietari terrieri e le élite cittadine; e, solo secondariamente, il piccolo ceto della industrializzazione nascente.Tra i politici principali sono Ricasoli, Sella, Minghetti, Spaventa, Lanza, La Marmora, Visconti Venosta. La questione politica principale fu l'unificazione amministrativa del Regno appena costituito sulla base dell'annessione delle pre-esistenti realtà statali e amministrative. L'unificazione venne intrapresa in una ottica di accentramento dei poteri. La legislazione piemontese venne estesa a tutta la penisola. Il governo dislocò in modo capillare le prefetture come strumento principale di amministrazione periferica. Anche il sistema scolastico nel 1861 fu riformato e uniformato in tutta Italia a quello piemontese (previsto dalla legge Casati). Fu poi istituita la coscrizione obbligatoria.
Destra storica
Politiche commerciali
Infrastrutture
Gli anni 1860 videro in Europa radicali liberalizzazioni degli scambi commerciali internazionali tramite l'abbattimento dei dazi. I governi della Destra storica seguirono queste politiche di liberoscambio, non solo per motivi ideologici, ma anche per perseguire l'integrazione economica dell'Italia nel commercio internazionale.
Lo sviluppo della rete ferroviaria era considerato all'epoca uno strumento essenziale di sviluppo nazionale, per favorire l'integrazione delle attività economiche e il commercio. L'Italia era molto arretrata rispetto agli altri paesi europei, così nei primi venti anni dopo l'unificazione, la rete ferroviaria nazionale si estese rapidamente: vennero costruite tutte le direttrici principali, sia nella penisola sia nelle isole.
Politica economica
Le politiche fiscali della Destra furono espansive (aumento della spesa pubblica), per finanziare le opere pubbliche. Questa espansione fu accompagnata da un aumento del carico fiscale, per tenere sotto controllo il debito pubblico (che era stato consolidato a livello nazionale subito dopo l'unificazione). La tassazione si concentrò sui consumi (imposte indirette) piuttosto che sulla ricchezza (imposte dirette). Questo era dovuto al fatto che la ricchezza era costituita all'epoca principalmente dalla terra: la condizione arretrata del catasto, specie al meridione, e l'opposizione dei latifondisti alla sua modernizzazione, preclusero una effettiva tassazione della terra. Tra le imposte indirette vennero tassati il lotto e prodotti di base come sali, tabacchi, polveri e chinino. Nel 1868 venne introdotta la tassa sul macinato (sulla macinazione dei cereali) scatenando così proteste popolari con assalti ai mulini, distruzione dei contatori, invasioni di municipi. Al termine di questa rivolta contadina si contarono molti arrestati, feriti e morti. Il Ministro delle Finanze Quintino Sella fu il principale artefice delle politiche fiscali, che produssero rapidamente un raddoppio delle entrate pubbliche. Il 16 marzo 1876, il Presidente del Consiglio Marco Minghetti, annunciò il pareggio di bilancio. Gli effetti di queste politiche, oltre al risanamento del bilancio, implicarono un trasferimento di ricchezze dai ceti popolari a quelli più benestanti e ai detentori di titoli del debito pubblico italiano.
Pareggio del bilancio
Il brigantaggio
Al momento dell’unità, l’Italia era un paese prevalentemente agricolo: gli italiani erano quasi tutti contadini (braccianti e mezzadri) mentre gli operai erano la minima parte. I contadini del sud che avevano sostenuto l’impresa dei Mille, speravano che il nuovo governo promuovesse una riforma agraria che distribuisse ai più poveri tutte quelle terre che erano in mano ai ricchi. Queste aspettative vennero a mancare perchè la stesura dello Statuto Albertino e l’obbligo al servizio militare anche nel meridione, provocò la formazioni di bande di briganti (1860), gruppi formati da contadini delusi che combattevano contro i Savoia. Il brigantaggio era risultato di una rivolta popolare, segno evidente di un malessere profondo che coinvolgeva l’intero Meridione: si chiedeva un miglioramento delle condizioni di vita delle masse contadine, al punto che in poco tempo il fenomeno si allargò in tutto il Meridione prendendo l’aspetto di una vera e propria Guerra contadina. Un corpo di spedizione di 100 mila uomini, dopo aver occupato le regioni meridionali, riuscì a reprimere la guerriglia provocando la morte di 18 mila uomini. Nel 1865 il brigantaggio era ormai vinto.
Da destra a sinistra
L'era egemonica della Destra finì nel 1876: il governo Minghetti fu messo in minoranza dallo stesso Parlamento, che rifiutava la nazionalizzazione delle neonate ferrovie, cosicché il primo ministro dovette dare le dimissioni. Era stata attuata la rivoluzione parlamentare: per la prima volta un capo del governo veniva esautorato non per autorità regia, bensì dal Parlamento. Il re Vittorio Emanuele II, preso atto delle dimissioni, diede l'incarico di formare un nuovo governo al principale esponente dell'opposizione, Agostino Depretis. Iniziava l'era della Sinistra storica. Gli esponenti della Destra storica che continuarono in un ruolo di opposizione parlamentare, e che in prevalenza provenivano dalla Toscana, furono chiamati dai loro avversari "consorteria". Il loro raggruppamento, il Partito Liberale Costituzionale, confluì nel 1912 nell'Unione Liberale insieme alla Sinistra.
Il primo presidente del consiglio a capo di un governo solo della Sinistra storica fu Agostino Depretis, incaricato dal Re, oltre che dallo schieramento di cui faceva parte, si reggeva anche sull'appoggio di una parte della Destra, quella che aveva contribuito alla caduta del governo Minghetti. Nella sua azione di governo, Depretis cercò sempre ampie convergenze su singoli temi con settori dell'opposizione, dando vita al fenomeno del trasformismo. I membri della Sinistra storica erano conosciuti anche come Democratici o Ministeriali. A differenza della sua controparte Destra, la Sinistra storica era il risultato di una coalizione che rappresentava la classe media del nord e del sud, la borghesia urbana, i piccoli imprenditori, i giornalisti e gli accademici. Ha anche sostenuto il diritto di voto e la scuola pubblica per tutti i bambini. Inoltre, il partito era contrario alle politiche fiscali elevate promosse dalla Destra. Dopo il 1890, la Sinistra iniziò a mostrare tendenze più conservatrici, tra cui sostenere la rottura di scioperi e proteste e promuovere una politica colonialista in Africa.
Sinistra storica
Furono avviate numerose inchieste per esaminare le condizioni di vita della popolazione rurale: la più nota è l'inchiesta Jacini, che rivelò una diffusa malnutrizione (pellagra), alta mortalità infantile (per difterite), grande povertà e scarse condizioni igieniche. Diffuso era il fenomeno dell'emigrazione. La Sinistra storica introdusse un limitato decentramento amministrativo, con l'elezione dei sindaci e presidenti delle province da parte dei rispettivi consigli (precedentemente erano di nomina prefettizia). In campo sociale, introdusse il servizio sanitario pubblico (Legge Crispi-Pagliarini, 1888) e di una prima modesta libertà di sciopero (con la riforma del Codice Penale "Zanardelli" del 1889). Un'importante riforma riguardava l'istruzione: la legge Coppino (1877) rese obbligatoria e gratuita l'istruzione elementare dai 6 ai 9 anni d'età.
Riforma elettorale e amministrativa-sociale
La volontà della Sinistra storica era quella di ampliare il suffragio fino all'universalità basandosi non più tanto sul censo dei cittadini, quanto sulla loro istruzione. La Sinistra si batté per l'allargamento del suffragio, tramite la legge elettorale del 1882 (legge Zanardelli) che concedeva diritto di voto a tutti i maschi, che avessero compiuto i 21 anni e rispettassero requisiti per il voto: il pagamento di un'imposta di almeno 19,8 lire (invece delle precedenti 40) o, in alternativa, il conseguimento dell'istruzione elementare appena allargata (era comunque sufficiente dimostrare di saper leggere e scrivere). Per effetto di questa riforma, il corpo elettorale salì al 6,9% della popolazione italiana, rispetto al 2,2% del 1880.
Gli esponenti della Sinistra storica erano perlopiù esponenti della media borghesia, in maggior parte avvocati. Essa rifletteva una base politica relativamente più larga di quella della Destra; ne condivideva l'ideologia liberale ma la interpretava in maniera più pragmatica. I governi della Sinistra tentarono di riconciliare la politica col «paese reale» democratizzando e modernizzando lo stato e il paese.
Riforme politiche e sociali
Dalla sinistra storica a Crispi
La fase egemonica della Sinistra storica si concluse nel 1896 a seguito delle elezioni politiche. Il governo Depretis, infatti, si era spostato verso l'ala conservatrice del parlamento, incontrando i moderati più progressisti, che erano stati inglobati all'interno di una più grande coalizione. Lentamente furono estromessi gli esponenti più progressisti della Sinistra, dando vita ad un Grande Centro, che monopolizzava la vita politica del Paese, lasciando a pochi partiti minori il ruolo di opposizione di estrema sinistra, destra ed estrema destra. Questa politica, in cui la dialettica e la differenza ideologica fra le ali del Parlamento vengono sfumando, è detta trasformismo, e fu resa possibile dalla riforma elettorale. Dopo Depretis, la figura cardine della politica italiana dal 1887 al 1896 fu Francesco Crispi che voleva un'Italia forte e ordinata. Il modello della sua politica era la Germania di Bismarck, dove le tensioni sociali fra la classe operaia e la borghesia sembravano equilibrate. Crispi represse nel sangue la rivolta dei fasci operai in Sicilia e sciolse il Partito Socialista Italiano, fondato da Turati a Genova nel 1892, tuttavia emanò una serie di riforme sociali quali la riduzione della giornata lavorativa e la prima legge sull'assistenza sociale, passata alla storia proprio come "legge Crispi". Sotto il suo governo la politica coloniale fu ripresa con più vigore, fino alla disfatta di Adua (1896), che segnò la fine della Sinistra Storica con le dimissioni del primo ministro. Nella crisi di fine secolo si manifestarono le conseguenze sul piano sociale della politica protezionistica, come dimostrano i moti di Milano del maggio 1898 quando il generale Bava Beccaris non esitò a sparare con i cannoni sulla folla che chiedeva "Pane e lavoro". Si era infatti verificato un ulteriore aumento del prezzo del grano a causa delle diminuite esportazioni dagli Stati Uniti, impegnati allora nella Guerra ispano-americana. Benché la Sinistra Storica tradizionale fosse terminata nel 1896, si continuerà a parlare di questa denominazione anche successivamente fino alle elezioni del 1913, quando Destra e Sinistra storica si fusero nel gruppo dell'Unione Liberale.
Età giolittiana
Per età giolittiana s'intende quel periodo della storia italiana che va dal 1903 al 1914, un decennio che prese il nome dai governi guidati da Giovanni Giolitti, esponente liberale, che caratterizzarono la vita politica italiana sino alla vigilia della prima guerra mondiale. Anche nei periodi in cui i governi non furono presieduti da Giolitti, egli mantenne comunque la sua preminenza sulla politica italiana. Tale periodo s'inserisce nell'ultima fase della Sinistra storica: l'età giolittiana fu preceduta da un primo governo transitorio guidato da Giolitti sul finire del XIX secolo, per cominciare propriamente nel 1903, dopo la cosiddetta "crisi di fine secolo", e concludersi con l'ultimo governo Giolitti, poco prima della marcia su Roma. L'età giolittiana fu caratterizzata da una notevole crescita economica e sociale e si svolse nell'ultima parte di quel periodo chiamato, a livello continentale in Europa, Belle Époque. Vide anche, sul finire, la ripresa del colonialismo italiano, con la guerra di Libia.Giolitti ebbe un totale di 5 mandati.
Tra Giolitti I e Giolitti II: la crisi di fine secolo
Di fronte alle debolezze mostrate da Giolitti, gli elettori vollero di nuovo affidarsi al governo autoritario di Crispi, per tentare di porre fine ai continui disordini causati dai lavoratori. La politica estera di Crispi, aggressiva e colonialista, lo portò in Eritrea, ma una serie di sconfitte culminate con quella di Adua (1º marzo 1896) ne causarono le dimissioni. Il periodo che va da questo momento sino al 1901, quando Giolitti ritornò al governo come ministro dell'interno, è comunemente indicato come la "crisi di fine secolo": un periodo di recessione economica contribuì infatti all'aumento della tensione sociale e politica, che produsse i moti di Milano del 1898 e si tradusse nella successione di più governi, in pochi anni. Il 4 febbraio 1901 il pronunciamento di Giolitti alla Camera, emblematico della sua ideologia, contribuì alla caduta del governo Saracco, responsabile di aver ordinato lo scioglimento della Camera del Lavoro di Genova. Già a partire dal governo Zanardelli (15 febbraio 1901 - 3 novembre 1903), Giolitti ebbe una notevole influenza che andava oltre quella propria della sua carica di ministro dell'interno, anche a causa dell'avanzata età del Presidente del consiglio.
Dopo Crispi, messo in minoranza nel febbraio del 1891 su una proposta di legge di inasprimento fiscale, e dopo una breve parentesi (6 febbraio 1891 - 15 maggio 1892) durante la quale il Paese fu affidato al governo liberal-conservatore del marchese Antonio Starabba di Rudinì, il 15 maggio 1892 Giolitti fu nominato Primo ministro, allora ancora facente parte del gruppo crispino. Il suo rifiuto di reprimere con la forza le proteste che, nel frattempo, attraversavano l'intero Paese e che, il più delle volte, si riversavano nelle piazze a causa di una generale crisi economica che faceva salire, fra l'altro, il costo dei beni di prima necessità; le voci che lo indicavano come propositore di una tassa progressiva sul reddito e, infine, lo scandalo della Banca Romana che gli valse accuse di aver "coperto" irregolarità fiscali lo travolsero in pieno, facendo crollare la base del consenso su cui poggiava la sua ancora giovane politica, e lo costrinsero a dimettersi a poco più di un anno e mezzo dalla nomina, il 15 dicembre 1893.
Giolitti I: la disfatta di Crispi
Il 3 novembre 1903 Giolitti ritornò al governo, ma questa volta si risolse per una svolta radicale: si oppose, come prima, alla ventata reazionaria di fine secolo, ma lo fece dalle file della Sinistra e non più del gruppo crispino. Questo cambiamento gli consentì di seguire un po' più agevolmente quella politica che si era proposta già all'epoca del suo primo mandato; a questo proposito è notevole come Giolitti sia stato il primo a proporre l'entrata nel suo governo come ministro al socialista Filippo Turati, che comunque rifiutò, convinto che la base socialista non avrebbe capito una sua partecipazione diretta ad un governo liberale borghese. L'apertura nei confronti dei socialisti fu di fatto una costante di questa fase di governo: Giolitti programmava, infatti, di estendere il consenso del governo tra queste aree popolari e in particolare presso quelle aristocrazie operaie che, grazie ad una migliore retribuzione salariale e, quindi, a un migliore tenore di vita, raggiungevano il reddito minimo che consentiva il diritto di voto. Giolitti era infatti convinto che non fosse utile a nessuno tenere bassi i salari perché, da un lato, non avrebbero consentito ai lavoratori di condurre una vita dignitosa e, dall'altro, avrebbero danneggiato il mercato provocando una sovrapproduzione di beni. Per la riuscita di questo suo progetto occorrevano due condizioni: la prima che i socialisti rinunciassero alle loro proclamate volontà rivoluzionarie, la seconda che la borghesia italiana fosse disponibile a rinunciare ai suoi privilegi, in favore di una politica di riforme moderate. La situazione storica che attraversava il partito socialista, spaccato tra massimalisti rivoluzionari e turatiani riformisti, favorì il programma giolittiano di coinvolgere in qualche misura questi ultimi nella guida del Paese, ma tra l’altro lo condizionò. Giolitti riproponeva, in un differente contesto, la politica del trasformismo di Depretis, nel tentativo di isolare l'estrema sinistra e dividere i socialisti, associandoli al governo. Tuttavia Filippo Turati non soddisfece appieno le aspettative di Giolitti, rifiutando chiaramente la partecipazione diretta al governo, che preferì appoggiare dall'esterno, temendo, se avesse invece accettato il ministero offertogli, ripercussioni sulla propria base elettorale, che sarebbe rimasta scandalizzata da un aperto sostegno socialista a un governo liberale di "padroni".
Giolitti II: l'apertura ai socialisti
Il 28 marzo 1905, su indicazione di Giolitti, Alessandro Fortis formò il suo primo governo, legato soprattutto alla nazionalizzazione delle ferrovie: una delicata riforma che, se pure attuata, causò la caduta del governo. Fortis allora si dimise il 24 dicembre, ma ricevette il reincarico dal re Vittorio Emanuele III e formò un nuovo governo, dove tenne il dicastero dell'interno, governo che però non ottenne la fiducia della Camera e che cadde l'8 febbraio 1906 dopo solo 1 mese.
Gli scioperi che si susseguirono negli anni 1901 e 1902 sia nel settore agricolo sia in quello industriale, tanto nel più sviluppato Nord che nel Sud del Paese, dimostravano che tutta la floridezza economica e le riforme giolittiane non arrivavano ad incidere in profondità sulla precaria situazione della società italiana, soprattutto di quella meridionale, abbandonata a se stessa e spesso interpellata solo come serbatoio di voti da ottenere con la corruzione dei deputati meridionali, gli "àscari" del governo, con le pressioni dei prefetti, della mafia e della camorra. Gli intellettuali meridionali non si stancavano di accusare Giolitti persino di connivenza con la criminalità, come scriverà anche Gaetano Salvemini, definendolo «ministro della malavita». Le riforme moderate non bastavano più: il Paese aveva l'esigenza di riforme radicali strutturali, che, se non avessero soddisfatto le esigenze della popolazione più povera, avrebbero causato quella estremizzazione delle classi sociali. I primi segni di questo fenomeno storico furono probabilmente quelle contraddizioni che caratterizzarono l'età giolittiana tra governi riformisti e conservatori. Non a caso il 1904 fu l'anno del primo sciopero generale della storia italiana voluto per motivi politici dai sindacalisti rivoluzionari di Arturo Labriola, nella speranza che fungesse da stimolo per una rivoluzione proletaria. Però il calcolo politico fallì dinanzi alla tattica giolittiana di lasciare esaurire e sfogare lo sciopero, limitandosi a garantire l'ordine pubblico.
Le agitazioni sociali
Tra Giolitti II e Giolitti III: il fallito governo
Alla caduta del secondo Governo Fortis, dopo un breve ministero Sonnino, Giolitti insediò il suo terzo governo.Il malessere continuava ad essere diffuso soprattutto nel Mezzogiorno d'Italia dove, anche a causa dell'aumento demografico e ai numerosi dissesti economici causati da grandi disastri naturali, continuava l'emorragia dell'emigrazione che divenne un fatto culturale tale da trovare espressioni nella nostra letteratura nazionale, da Giovanni Verga a Luigi Capuana: interi paesi si spopolavano e sparivano antiche culture. Un fenomeno crudele e doloroso, ma anche in un certo senso benefico, poiché intere popolazioni ebbero modo d'uscire dal loro isolamento medioevale e entrare in contatto con le moderne società occidentali. Il governo, che in un primo momento aveva ostacolato il flusso migratorio per non far salire troppo i prezzi sul mercato del lavoro, in seguito diede via libera, favorendo l'espatrio di centinaia di migliaia di appartenenti alle classi subalterne, soprattutto perché cominciava a temere le conseguenze di un'aumentata pressione sociale e poteva così contare su un'affidabile stabilità monetaria. Durante questo mandato Giolitti continuò, essenzialmente, la politica economica già avviata nel suo secondo governo, e si preoccupò di risanare il bilancio dello Stato, con una più equa ripartizione degli oneri sociali, aiutato dalla congiuntura economica positiva dei primi anni del Novecento. Il governo poté dare il via nel 1906 alla conversione della rendita nazionale; ma ben pochi furono i sottoscrittori che lo richiesero, segno della buona fiducia nelle finanze dello Stato. Questa era, in realtà, un'operazione rischiosa, perché, per quanto si potesse prevedere un limitato panico tra i creditori dello Stato, le richieste di rimborso non erano facilmente prevedibili. Di fatto, comunque, ebbe successo perché queste furono assai limitate e la possibilità della bancarotta fu ampiamente sventata. Ciò fu possibile perché la conversione della rendita provocò una generale diminuzione del costo del denaro, che consentì di ottenere crediti ad un saggio di interesse più favorevole e, quindi, incontrò un nutrito consenso. Questa riduzione dei tassi d'interesse favorì l'industria pesante, che risultava ancora arretrata a causa della mancanza, da parte degli industriali, dei grandi capitali che sarebbero stati necessari a modernizzarla.
Giolitti III: risanamento economico
Nel dicembre del 1909 divenne presidente del consiglio Sidney Sonnino, di tendenze conservatrici. A lui succedette Luigi Luzzatti.
Oltre a ciò, la conversione della rendita centrò il suo scopo primario: far "guadagnare" virtualmente allo Stato la differenza sugli interessi dei suoi debiti che, con l'abbassamento del tasso, non era più tenuto a pagare. I proventi di questa manovra poterono, così, essere impiegati nella realizzazione di grandi opere pubbliche come l'acquedotto pugliese, il traforo del Sempione (1906), la bonifica delle zone di Ferrara e Rovigo, che consentirono l'aumento dell'occupazione e notevoli profitti per le imprese chiamate a realizzarle. La lira godeva di una stabilità mai raggiunta prima, al punto che sui mercati internazionali la moneta italiana era quotata al di sopra dell'oro e addirittura era preferita alla sterlina inglese. Accanto all'ormai completata nazionalizzazione delle ferrovie, infine, andò a collocarsi la proposta di nazionalizzazione delle assicurazioni. Lo sviluppo economico si estese, anche se in misura minore, al settore agricolo che, soprattutto con la riapertura del mercato francese, vide accrescersi le esportazioni dei prodotti ortofrutticoli e del vino, mentre l'introduzione della coltura della barbabietola da zucchero incrementò lo sviluppo delle raffinerie nella pianura padana.
Tra Giolitti III e Giolitti IV: periodo conservatore
Giolitti aveva comunque capito la pressione che saliva dall'inaffidabile e contraddittorio movimento socialista ed andò quindi a cercare quei naturali alleati che gli offriva la Chiesa di papa Pio X che, preoccupato del pericolo sovversivo, aveva attenuato il non expedit consentendo ai conservatori cattolici di partecipare alle elezioni politiche del 1909 assicurando in questo modo il rafforzamento del governo Giolitti, che da questo momento iniziò il suo cammino verso la destra conservatrice, la quale avrebbe celebrato nel 1910, a Firenze, la nascita del Partito Nazionalista Italiano, che chiedeva a gran voce l'ingresso della "Terza Italia" nella gara coloniale delle grandi potenze europee. La guerra italo-turca, realizzata con l'appoggio diplomatico delle potenze dell'Intesa, voluta dall'opinione pubblica italiana e dalla borghesia industriale interessata alla produzione bellica, rappresenta l'inizio della fine dell'età giolittiana. Alle delusioni seguite alla sanguinosa conquista di quello "scatolone di sabbia", come diceva il socialista Salvemini, si aggiunse la preoccupazione per la ricomparsa, dopo dieci anni di pareggio, del passivo nel bilancio dello Stato.
La guerra di Libia
Il quarto governo Giolitti durò dal 30 marzo 1911 al 21 marzo 1914. Nacque come il tentativo probabilmente più vicino al successo di coinvolgere al governo il Partito Socialista, che comunque votò a favore. Il programma prevedeva la nazionalizzazione delle assicurazioni sulla vita e l'introduzione del suffragio universale maschile, progetti di considerevole valenza "sociale" ed entrambi immediatamente realizzati. Nel settembre del 1911 Giolitti, premuto dalle spinte nazionaliste diede tuttavia inizio alla guerra di Libia; il conflitto ebbe notevoli ripercussioni anche in politica interna, dividendo il Partito Socialista e allontanandolo dal governo in maniera irrimediabile.
Giolitti IV: progetti sociali e guerra
Dopo il congresso di Reggio Emilia del 1912 che aveva visto l'espulsione dell'ala moderata e il prevalere della corrente massimalista, guidata da un giovane anarco-sindacalista, Benito Mussolini, divenuto direttore dell'"Avanti!", tutto stava ad indicare che la lotta politica si stava acutizzando tra l'estremismo di sinistra e una borghesia passata alle tesi dell'imperialismo. Furono forse queste preoccupazioni che nell'imminenza delle elezioni del 1913 spinsero Giolitti alla ricerca di un più vasto consenso di massa con l'istituzione del suffragio universale maschile e soprattutto con il patto Gentiloni con i cattolici in funzione antisocialista. I risultati elettorali sembrarono premiare la politica giolittiana, ma era un'illusione: ormai lo scontro tra la destra e la sinistra si combatteva nelle strade come dimostreranno i disordini della "Settimana rossa" nel giugno del 1914, guidata dal socialista Mussolini, dal repubblicano Pietro Nenni, dall'anarchico Errico Malatesta. Questa situazione sociale ingestibile politicamente convinse Giolitti, già dimessosi nel marzo del 1914, di aver visto giusto nella sua decisione di abbandonare almeno temporaneamente la vita politica. Giolitti in realtà si era dimesso designando come suo successore il conservatore Antonio Salandra, calcolando che dal fallimento della politica di questi egli sarebbe potuto tornare al governo da sinistra con un programma di più avanzate riforme. Ma il suo piano si rivelò sbagliato: ormai non era più possibile alcuna mediazione tra capitale e lavoro.La fine dell'età Giolittiana arrivò con l'inizio della Grande guerra che pose fine ad un'epoca liberale per dare inzio a un'epoca anti-parlamentare. Giolitti comunque ebbe un'altro mandato dal 1920 al 1921 per poi morire nel 1928.
Un'immagine di un combattimento durante l'Assedio di Adrianopoli
Del resto, già a metà Ottocento, le tensioni fra gli stati balcanici desiderosi di sottrarre terre in Macedonia e Tracia all'Impero Ottomano avevano spinto le grandi potenze a far sì che lo status quo fosse mantenuto e che le autorità ottomane garantissero l'incolumità delle popolazioni cristiane a loro sottomesse, già coinvolte nella lotta per la liberazione dal dominio ottomano.
Le guerre balcaniche furono due guerre combattute nell'Europa sud-orientale nel 1912-1913 nel corso delle quali gli Stati componenti la Lega Balcanica (Regno di Bulgaria, Grecia, Regno del Montenegro e Regno di Serbia) dapprima conquistarono agli ottomani la Macedonia e gran parte della Tracia e poi si scontrarono tra loro per la spartizione delle terre conquistate. Le promesse disattese e i malumori furono causati dal mancato completamento del processo di emancipazione delle terre balcaniche da quel che rimaneva dell'Impero ottomano durante il XIX secolo. I serbi, durante la guerra russo-turca del 1877-78, avevano infatti conquistato molti territori; mentre la Grecia si era annessa la Tessaglia nel 1881 e la Bulgaria la provincia della Rumelia orientale nel 1885. Questi tre stati, insieme al Montenegro, nutrivano mire espansionistiche verso quei territori, ancora sotto il dominio ottomano, noti con il nome di "Rumelia" e che comprendevano la Rumelia orientale, la Macedonia e la Tracia.
Le due guerre balcaniche
Queste questioni, tuttavia, si ripresentarono quando nel luglio del 1908 i Giovani Turchi costrinsero il Sultano a ripristinare la Costituzione ottomana da lui stesso sospesa. Fu così che l'Austria-Ungheria approfittò dell'instabilità politica dell'Impero Ottomano per annettersi la provincia della Bosnia ed Erzegovina. A sua volta, la Bulgaria si proclamò un regno completamente indipendente, mentre i greci procedettero con l'annessione dell'isola di Creta.Deluso dall'annessione all'Austria-Ungheria della Bosnia e costretto a riconoscere tale annessione nel marzo 1909 mettendo così un freno alle agitazioni dei nazionalisti serbi, il governo serbo rivolse le sue mire espansionistiche verso sud, in quella che era la "Vecchia Serbia" (il Sangiaccato di Novi Pazar e la provincia del Kosovo). Alle mire serbe si aggiunsero quelle bulgare: dopo aver ottenuto l'appoggio della Russia nell'aprile 1909, la Bulgaria desiderava infatti annettere i territori ottomani in Tracia e Macedonia. Nel frattempo, il 28 agosto 1909 in Grecia, un gruppo di ufficiali (Stratiotikos Syndesmos) chiesero una riforma costituzionale, la rimozione della famiglia reale dalla guida delle forze armate e una politica estera più decisa e nazionalista con cui poter risolvere la questione cretese e ribaltare l'esito della sconfitta del 1897. A questi avvenimenti si aggiunse l'insurrezione del marzo 1910 della popolazione albanese in Kosovo e, nell'agosto 1910, il Montenegro diventò a sua volta un regno. Nel 1911, l'occupazione italiana della Tripolitania, regione appartenente nominalmente all'Impero ottomano, ne indebolì la posizione internazionale stimolando ulteriormente le mire dei piccoli stati balcanici.Grazie alla mediazione russa, gli Stati balcanici conclusero una serie di accordi: tra la Serbia e la Bulgaria nel marzo del 1912; tra la Bulgaria e la Grecia nel maggio del 1912; il Montenegro, infine, siglò accordi con Serbia e Bulgaria nell'ottobre del 1912. Proprio in seguito a questi accordi, si ebbe lo scoppio della prima guerra balcanica, a cui seguì l'anno dopo la seconda guerra balcanica. Le due guerre balcaniche rappresentarono un'importante premessa per lo scoppio della prima guerra mondiale: fu proprio in seguito all'espansione serba nella regione che l'Austria-Ungheria cominciò ad allarmarsi. Tali timori erano condivisi dalla Germania, che vedeva nella Serbia un prezioso alleato della minacciosa Russia. Dunque, fu proprio l'accresciuta potenza serba a rappresentare una delle principali ragioni che spinsero gli Imperi centrali a decretare l'inizio della prima guerra mondiale in seguito all'assassinio dell'Arciduca d'Austria Francesco Ferdinando nel giugno del 1914.