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"La confutazione dell'errore è opera secondaria, e spesso vana e inutile. Non bisogna confutare, ma illuminare e precedere." Jacques Maritain

Superare neuromiti e false credenze con l'Intelligenza Artificiale

Tipologie di preconoscenza

In letteratura si distinguono tre tipologie di conoscenze.

  • La prima fa riferimento a quelle non detenute dagli studenti in merito a uno specifico concetto. Si parla in questa circostanza di preconoscenza mancante, a cui si aggiungeranno contenuti che si vorrebbero proporre ex-novo.
  • Un'altra categoria è rappresentata dalle competenze incomplete, che il docente cercherà di completare tramite il percorso da progettare.
  • Un terzo tipo di preconoscenza prevede il dover entrare in contrasto con quanto gli studenti hanno avuto modo di imparare sino a quel momento, generalmente tramite l'esperienza. In questo caso si parla di cambio concettuale, ossia in una ristrutturazione, o accomodamento, per dirla alla Piaget.
Questo approccio è difficile da perseguire quando all'interno del contesto di apprendimento si è applicato un approccio razionalista, in cui l'errore si è sempre sanzionato. Nel modello dialogico-euristico, invece, l'errore diviene opportunità di apprendimento, un punto da cui partire.

Tipologie di conoscenze errate: le mis-concezioni

Nell'ambito delle conoscenze errate, abbiamo modo di ritrovare una specifica tipologia di preconoscenza, ossia quella delle mis-concezioni, sviluppate dapprima nell'ambito della fisica e dell'economia, poi in quello della didattica della matematica degli Anni 80. Il termine rimanda a una commistione di significati, quali l'equivoco, il malinteso, la concezione fallace e la regola scorretta, le mis concezioni si creano nel momento in cui le rappresentazioni errate che un soggetto ha del mondo si vanno a consolidare e stabilizzare, ponendosi come ostacolo a un apprendimento scientificamente corretto.Le mis-concezioni possono rappresentare una fase nella costruzione della visione del mondo del bambino o possono consolidarsi divenendo granitiche. È importante rilevare che si incontreranno sicuramente durante il percorso scolastico, e ci si ritroverà a doverle destrutturare assieme agli studenti per consentire loro un apprendimento, per quanto possibile, veritiero e scientificamente valido. Ciò che si è chiamati a fare in queste circostanze è partire dalla mis-concezione per costruire percorsi di apprendimento che si rivelino momenti di dibattito, destrutturazione e ricomposizione della realtà.

Tipologie di conoscenze errate: le mis-conoscenze

Accanto alle mis-concezioni ritroviamo le mis-conoscenze, ovvero informazioni e dati sbagliati non consolidati paradigmaticamente nello schema cognitivo degli studenti. Queste, per quanto meno solide rispetto alle misconcezioni, possono comunque rivelarsi ostiche da modificare e correggere. Le mis-conoscenze possono essere fatte risalire al procedimento dell'analogia attraverso cui si possono superare le incertezze di fronte a un problema da risolvere che si trasferiscono da un dominio ben conosciuto a uno meno noto. Questo, generalmente, si rivela un processo di acquisizione della conoscenza valido, il cui utilizzo va sostenuto ritenendo l'errore un punto di partenza da cui iniziare a erigere nuove conoscenze. Si distinguono in letteratura differenti tipologie di conoscenze, ossia: le preconoscenze, le pre-concezioni e le mis-conoscenze. Le preconcezioni sono definibili come idee iniziali sul mondo fisico che i bambini costruiscono sulla base delle loro osservazioni quotidiane (es: La Terra è piatta perché così è esperita dal bambino). Le mis-concezioni sono interpretazioni erronee di concetti affrontati scientificamente, dopo l'esposizione scolastica (es: Tra gli atomi c'è l'aria e non il vuoto). Ciò che è importante rilevare è che tutte queste tipologie di mis-credenze e mis-conoscenze devono dal docente essere percepite come un'opportunità di apprendimento, da cui partire destrutturando quanto ritenuto fondato dagli studenti, per poi ricostituire i loro paradigmi e modelli conoscitivi dei fenomeni secondo modalità e procedure di indagine e ricerca, che gli permettano di interpretare in maniera ottimale la realtà.

Classificazione delle conoscenze in base all'origine

Juan Ignacio Pozo (1996) si è occupato della classificazione dell'origine della conoscenze spontanee suddividendole i tre grandi categorie ideali. L'autore sottolinea che il confine tra di esse non sia netto e definito, poiché le preconoscenze sono spesso create in un continuum tra diversi contesti. Si distinguono nei suoi studi diverse tipologie di preconoscenze, ossia quelle: sensoriali, culturali e sociali, e di origine analogica e scolastica.

Preconoscenze di origine sensoriale

Queste concezioni si formano con l'intenzione di dare un significato alle attività quotidiane e si basano sull'uso di regole di inferenza causale applicate a dati osservabili, raccolti dall'interazione con il mondo naturale, attraverso la percezione e i sensi. Nel momento in cui una regola viene trasgredita, può essere dato inizio a un processo di ricerca capace di definire quanto esperito. Nel caso ciò non accadesse, poiché il soggetto potrebbe essere poco motivato, si delineeranno idee che risultino coerenti sia con il funzionamento del mondo che con l'idea inizialmente ritenuta "vera". Ad esempio:

  • La similarità tra causa ed effetto: tale preconoscenza si presenta quando il bambino riscontra elementi empiricamente più evidenti rispetto ad altri. Tali elementi condizionano una conoscenza che ricalca il modello visibile (Es: un oggetto immobile presenta componenti immobili).
  • La vicinanza o il contatto fisico tra causa ed effetto: siamo portati a pensare che un fatto sia legato alla sua causa da un criterio spaziale, come nell'inquinamento atmosferico, ritenuto fenomeno esclusivo delle metropoli e non di altri contesti antropici e naturali.
  • La vicinanza temporale tra causa ed effetto: un soggetto potrebbe considerare che la causa più prossima a un effetto sia quella che effettivamente l'abbia gerato, senza tenere in esame altre concause o fattori. Ciò si esemplifica con il comportamento diffuso di attribuire all'ultima cosa che abbiamo mangiato la causa di un malessere, probabilmente determinato da altri fattori.
  • La variazione direttamente proporzionale quantitativamente e qualitativamente tra causa ed effetto.
Tali concezioni preconoscitive si genererebbero incosapevolmente e iplicitamente nel dominio dei fenomeni naturali ed osservalbili, pertanto è difficile che vengano verbalizzate.

Le concezioni culturali e sociali

La cultura rappresenta un fattore cruciale per l'apprendimeto del bambino, agendo come veicolo di conoscenze sia prima che durante l'esposizione all'educazione formale. Tali conoscenze sono più esplicite e verbalizzabili, poiché generate da flussi informazionali più accattivati e travolgenti, grazie all'utilizzo dei media. Ciò comporta che sia importante sottolineare che la scuola non sia l'unica agenzia formativa con cui lo studente si interfaccia. Piuttosto, occorre sottolineare come il suo ruolo sia quello di organizzare, ordinare e risistemare le conoscenze apprese altrove. La competenza trasversale dell'imparare a imparare, assume particolare importanza fornendo al bambino strategie utili a selezionare correttamente le informazioni, avviando processi di rielaborazione teorica e logica.

Neuromitologie e Neuromanie

John G.Geake fa riferimento, all'interno de Il cervello a scuola, alle convinzioni errate in ambito neuroscientifico diffuse tra gli insegnanti, soprattutto in riferimento all'apprendimento dei propri studenti. Lo studioso, fondatore dell'Oxford Cognitive Neuroscience Education Forum, ne analizza alcuni, quali la convinzione che utilizziamo soltanto il 10% del nostro cervello, la distinzione tra persone cerebrodestre (creative) e cerebrosinistre (metodiche), la convinzione che esistano gli stili di apprendimento, che determinerebbero il modo personale di ciascuno di memorizzare le informazioni. Tra questi si può annoverare anche la convinzione secondo cui esistano i nativi digitali. Queste idee vengono definite neuromitologie. Di seguito si analizzerà come tali convinzioni siano prive di fondamento scientifico e si partirà dalla destrutturazione della convinzione secondo cui esistano soggetti neurodestri e neurosinistri.

Cervello destro e sinistro

La capacità dei discorsi di diffondere mitologie tra le persone è stata analizzata da Barthes (1957), che definiva il mito come un sistema semiologico capace di trasformare la cultura in natura. Un esempio concreto si può osservare quando un genitore, appreso che alcune persone avrebbero un cervello “sinistro” più predisposto alla razionalità e altre un cervello “destro” maggiormente incline alla creatività, afferma: "Ecco perché Giacomo è negato per la matematica! È cerebrodestro!". Questa affermazione fa comprendere che Giacomo viene ritenuto poco portato per la matematica a causa della sua presunta predisposizione neurologica. Tale ragionamento è un chiaro esempio del funzionamento mitologico della comunicazione, in cui una costruzione culturale (l’essere “cerebrodestro”) viene naturalizzata (Giacomo è biologicamente poco incline alla matematica). Tuttavia, l'idea di cervelli “sinistri” e “destri” è una semplificazione priva di fondamento scientifico, poiché il concetto stesso è basato su interpretazioni culturali, non su dati empirici validati. In realtà, è scientificamente scorretto affermare che l’essere umano utilizzi un solo emisfero cerebrale in modo predominante nelle interazioni con l’ambiente. L'encefalo, infatti, opera in modo integrato e utilizza in modo simultaneo tutti i sistemi cognitivi a sua disposizione. Anche nelle funzioni più lateralizzate, come quelle linguistiche o spaziali, è stato dimostrato il coinvolgimento di molteplici network neuronali distribuiti tra entrambi gli emisferi e tra aree diverse del cervello (parietali, occipitali, temporali e frontali) a vari livelli (corteccia, subcorteccia e cervello profondo). Di conseguenza, l'affermazione secondo cui Giacomo sia "negato" per la matematica perché cerebrodestro rappresenta un’asserzione pseudoscientifica che semplifica e distorce la complessità del funzionamento cerebrale umano.

Cervello destro e sinistro

L'altra asserzione pseudoscientifica che si potrebbe contestare riguarda il concetto di "compito razionale". Cosa significa ciò? Non saper applicare delle routine procedurali? Non saper analizzare e scomporre problemi complessi? Anche in questo caso si assiste a semplificazioni estreme riconducibili a due preconcetti, ovvero quello secondo cui sia possibile discernere la razionalità dall'emozione, dato che quest'ultima è coinvolta anche nelle scelte razionali che guidano la nostra esistenza, in quanto basata su esperienze e vissuti che appartengono al nostro passato. L'altro preconcetto è quello secondo cui creatività e razionalità non possano coesistere. Da un punto di vista semiotico, si assiste al delinearsi di due catene di significazione. La prima, quella della lingua, che esprime la scarsa propensione alla risoluzione di compiti razionali di alcuni soggetti cerebrodestri, e la seconda, asserente la relazione esistente tra prevalenza del cervello destro e mancanza di creatività.

Cervello destro e sinistro

La ricerca neuroscientifica successiva ha confermato la sostanziale infondatezza di una caratterizzazione di cervello destro e sinistro. Sono state portate successivamente avanti altre rappresentazioni del cervello, come quella tra cervello alto e basso, o come quella che immagina i neuroni organizzati in colonne corticali, che si approfondiranno successivamente. Assistiamo adesso all'analisi di altre convinzioni neuroscientifiche, come quelle legate alla figura dei nativi digitali. Ovvero una nuova generazione di homo sapiens, geneticamente predisposti all'utilizzo dei dispositivi digitali.

Nativi digitali: la comparsa di una nuova specie?

Viviamo all'interno della società dell'informazione. Ciò non significa che le informazioni, o l'Informazione, intesa come i pc, i sistemi AI, gli algoritmi, ne costituiscano un elemento significativo. Se così fosse, questo sarebbe solo un altro appellativo da aggiungere a quelli già rinvenibili in letteratura, come società: "tardomoderna"(Augé, 1992), "complessa" (Luhmann, 1992), del rischio (Beck, 1992), dell'incertezza (Bauman, 1999). Sarebbe possibile definirla anche come una società dell'informazione, in cui diviene imprescindibile saper reperire, contestualizzare e applicare quest'ultima, al fine di risolvere problematiche di natura complessa. A tal porposito, Jenkins individua diverse tipologie di competenze, stilandone un elenco in cui si annoverano: il gioco (orientato al problem solving), la simulazione, la performance, l'appropriazione (intesa come l'attitudine al collage cognitivo), il multitasking, la conoscenza distribuita, l'intelligenza collettiva, il giudizio (capacità di applicare il proprio senso critico), la navigazione transmediale, il networking e la negoziazione. Queste competenze andranno sviluppate ricorrendo a dispositivi digitali, anzi, è proprio la maggiore dimistichezza con simili dispositivi da parte delle nuove generazioni che ha alimentato la diffusione del neuromito dei nativi digitali.

Nativi digitali: la comparsa di una nuova specie?

Tale teoria è stata presentata la prima volta e alimentata da Marc Prensky e si basa sul semplice assunto che un nativo digitale, sin dal suo primo istante di vita, ha avuto modo di confrontarsi con dispositivi digitali. Gli adulti non appartenenti a questa generazione vengono invece definiti "immigrati digitali", ossia persone che, per quanto possano interagire con le tecnologie, non acquisiranno mai competenze paragonabili nella loro gestione a quelle dei nativi digitali. Da questi assunti Prensky farebbe derivare tre conseguenze essenziali, ovvero: la scarsa familiarità degli immigrati digitali con le tecnologie; la mancata applicazione dei dispositivi negli istituti scolastici, determinata dall'incapacità dei docenti a integrarli nelle proprie lezioni; e le modificazioni strutturali nei sistemi cognitivi degli studenti, determinate dall'interazione continua con i dispositivi digitali.

Esistono davvero i Digital Native?

La teoria dei "Nativi digitali", introdotta da Marc Prensky, sostiene che gli individui nati nell'era digitale abbiano sviluppato un'intelligenza "digitale" grazie all'esposizione precoce ai dispositivi tecnologici. Questa abilità sarebbe legata alla capacità di operare in un sistema binario di scelte, come acceso-spento o vero-falso, denominata "opzione click". Per validare questa teoria, gli studiosi propongono alcuni criteri chiave:

  • prove obiettive tramite brain imaging,
  • tracciamento evolutivo dell'opzione click anche tra i primati,
  • articolazione in sottodomini come l'euristica digitale,
  • codificabilità in un linguaggio specifico,
  • sviluppo osservabile,
  • casi di incapacità o eccezionalità nel possesso di tali abilità.

Esistono davvero i Digital Native?

Il secondo assunto viene criticato con diverse argomentazioni. Il multitasking, spesso associato ai nativi digitali, è un fenomeno antico, ma non ci sono prove che migliori le prestazioni. Al contrario, studi indicano che possa ridurre la concentrazione e causare sovraccarico cognitivo per via della sovrapposizione di stimoli. Lo stile di apprendimento non è fisso, poiché ogni individuo lo adatta alle circostanze. L'uso della tecnologia a scuola non è sempre ideale, poiché può generare ansia negli studenti, e l'idea di trasferire le pratiche del tempo libero nel contesto educativo è irrealistica, in quanto la didattica richiede pensiero critico. L'idea dei "nativi digitali", analizzata sociologicamente, sembra legata al fenomeno del "Moral Panic", in cui teorie prive di basi scientifiche vengono accettate nei media e nel dibattito accademico, come descritto da Cohen (1972). In questo contesto, i "digital native" rappresentano una metafora che colma una lacuna linguistica per descrivere un fenomeno nuovo. Questo porta a due posizioni: la mitizzazione dei nativi digitali o un atteggiamento critico da parte di chi richiede prove scientifiche. In realtà, da un punto di vista neuroscientifico, non siamo di fronte a una generazione diversa dalle precedenti né a una mutazione genetica della specie Homo Sapiens.

Esistono davvero i Digital Native?

Gary Small, direttore del Semel Institute for Neuroscience and Human Behaviour, esclude l'esistenza di un gap biologico tra generazioni di nativi e immigrati digitali. In uno studio del 2009, Small ha dimostrato la superiorità nelle capacità di ricerca di esperti accademici tra i 55 e i 76 anni rispetto a partecipanti meno esperti. Gli esperti mostravano un'attività nei lobi frontali doppia rispetto ai neofiti, ma, dopo una settimana di addestramento, i meno esperti hanno sviluppato le stesse capacità cognitive degli esperti. Questo evidenzia che il tempo e l'impegno nell'uso delle tecnologie sono determinanti per le abilità digitali, mentre i cambiamenti strutturali e genetici richiedono centinaia di migliaia di anni. Le nuove generazioni possono sembrare più abili con le tecnologie solo perché vi interagiscono sin dall'infanzia, ma ciò accadrebbe con qualsiasi altra abilità, come l'apprendimento di una lingua. Queste evidenze hanno spinto Marc Prensky, ideatore del termine "nativi digitali", a rivedere la sua teoria, passando dalla distinzione tra nativi e immigrati a una tra "saggi, svelti e stupidi digitali". Oggi si parla di "digital literate" per descrivere coloro che usano la tecnologia con consapevolezza critica e responsabilità.

Hard Science , Soft Science

La genesi e la proliferazione di neuromitologie dipendono dalle possibilità concesse dalle neuroscienze alle scienze umane per legittimare i propri discorsi rispetto a quelle scienze prettamente sperimentali. Tra le scienze in questione troviamo la psicologia, o la pedagogia, definite quali scienze soft, in quanto epistemologicamente meno solide rispetto alle Hard, legate a procedure dimostrative più rigorose. La durezza di una scienza si definisce in base a due principi, ovvero l'oggetto del suo studio e il tipo di misurazioni che autorizza. Alla luce di ciò, una cosa è studiare la tettonica a zolle, con le misurazioni che ne conseguono e altro invece è verificare l'efficacia di un paradigma educativo che intende garantire un apprendimento significativo a uno studente. Nella caduta di un masso si calcolano delle variabili oggettive, nel perché uno studente va male a scuola possono invece rientrare una molteplicità di fattori complessi tra loro, che darà adito a molteplici interpretazioni del fenomeno. Le scienze hard richiedono ai fenomeni studiati di fornire risposte precise, mentre le soft fanno analisi interpretative, procedendo per indizi. Per tali motivazioni le scienze hard sono vincolate alle analisi in laboratorio, mentre le soft a contesti come la classe nel caso della pedagogia. Questo genera la predisposizione delle prime a delineare leggi universali, le seconde (Scienze dello spirito per DIlthey), invece, a produrre a generalizzazioni.

Hard Science , Soft Science

Le scienze dello spirito criticano le scienze naturali per la loro tendenza a non considerare l'essere umano nella sua complessità, privilegiando un approccio riduzionista e materialista. Tuttavia, esiste un altro filone delle scienze umanistiche, rappresentato dalla pedagogia e dalla psicologia sperimentale, che cerca di misurare i fenomeni mentali con metodi "duri", come statistiche e strumenti scientifici. Da qui l'affermazione che l'unica pedagogia e psicologia possibile sia quella sperimentale. Questa pluralità di approcci ha generato scetticismi, ma le neuroscienze offrono una possibile soluzione, poiché forniscono un linguaggio comune che favorisce la collaborazione tra discipline hard e soft. Le tecnologie di Neuroimaging giocano un ruolo cruciale, permettendo di osservare con maggiore precisione i fatti mentali, cosa che nessun altro metodo (come l'osservazione o l'intervista) è mai riuscito a fare. Queste tecnologie consentono di verificare cosa accade nel cervello di un individuo durante specifiche attività, chiarendo i processi cognitivi che sottendono i comportamenti osservabili.

E se fossimo tutti neuromaniaci?

Nel 2009, Legrenzi e Umiltà pubblicarono un libro in cui avvertivano del rischio di "neuromanie" attorno alle neuroscienze, alimentate soprattutto dalle tecniche di brain imaging. Queste tecnologie danno alla pedagogia e alla didattica una legittimazione neuroscientifica che le rafforza dal punto di vista epistemologico. Gli autori riportano uno studio in cui vennero presentate a due gruppi di 40 persone quattro affermazioni psico-pedagogiche (2 vere e 2 false), supportate da evidenze neuroscientifiche. I risultati mostrarono che le affermazioni false risultavano più credibili grazie al supporto neuroscientifico, mentre quelle vere non venivano rese più convincenti. Tuttavia, gli esperti di neuroscienze non furono ingannati, dimostrando che solo chi ha competenze specifiche può evitare di cadere nei "neuromiti". Un'altra dimostrazione di questa "neuromania" è il riduzionismo tipico delle scienze e dell'antropologia, che riduce il cervello umano a un insieme di elementi chimici, fisici e biologici, elevando le neuroscienze al rango di scienza predominante. Questa visione ha origini nel dualismo cartesiano, sostenuto successivamente da Helvetius, La Mettrie e dal positivismo.

E se fossimo tutti neuromaniaci?

Un esempio di rinforzo "neuro" è il "metodo analogico", secondo cui il cervello apprende per analogia, anche in ambito matematico, come sostenuto dal Metodo Bortolato. Alcuni studiosi, come Dehaene e Butterworth, ritengono che l'apprendimento matematico con questo metodo sia legato alla capacità innata del subitizing (riconoscimento immediato delle quantità). Tuttavia, un gruppo di esperti ha sollevato obiezioni, spostando l'attenzione dalle giustificazioni neuroscientifiche ai problemi centrali del metodo analogico. Il riduzionismo alimenta stereotipi come il determinismo genetico, secondo cui un certo tipo di cervello, organizzato in specifiche strutture neurali, sarebbe limitato a determinate performance cognitive. Questo approccio ignora l'importanza delle variabili culturali nella modifica delle strutture cerebrali, soprattutto della corteccia cerebrale, e sottovaluta il ruolo fondamentale dell'educazione nel plasmare l'apprendimento.

Voi cosa pensate dell'Intelligenza Artificiale?

Le neuromitologie, come abbiamo verificato, sono convinzioni errate, ma largamente diffuse, riguardanti il funzionamento del cervello umano e le sue implicazioni educative. Questi miti possono influenzare profondamente le pratiche didattiche, portando a scelte basate su false credenze piuttosto che su evidenze scientifiche. L’Intelligenza Artificiale (AI), applicata alla didattica, è spesso circondata da neuromiti che generano resistenze o aspettative poco realistiche. Alcuni docenti, ad esempio, temono che l’AI possa "sostituire" il loro ruolo, mentre altri credono che l’AI possa adattarsi automaticamente e senza errori alle esigenze di ogni studente. Conoscere e riconoscere questi miti ci permette di fare scelte più consapevoli, per un uso realmente efficace dell'AI. "Voi cosa pensate dell'AI applicata alla didattica?

Verifichiamo le vostre opinioni con un questionario

Alcuni dispositivi AI

Alcuni dei principali sistemi di AI applicabili alla didattica includono:

  • ChatGPT: un modello di AI conversazionale sviluppato da OpenAI, progettato per comprendere e generare testo in modo simile a come interagirebbe un essere umano. ChatGPT può fornire risposte a domande, suggerire risorse e offrire spiegazioni dettagliate su vari argomenti, rendendolo uno strumento utile per chiarire dubbi e approfondire temi complessi.
  • Gemini: sviluppato da Google DeepMind, Gemini è una piattaforma che integra capacità avanzate di apprendimento profondo per analisi e risposte basate su grandi quantità di dati. Gemini è in grado di gestire interazioni complesse e offre supporto nella creazione di contenuti didattici interattivi.
  • Perplexity: un altro strumento di AI che si concentra sul supporto alla ricerca e all'informazione. Perplexity consente di generare sintesi accurate e di ottenere una panoramica sulle tematiche educative, aiutando gli insegnanti a raccogliere informazioni affidabili per la progettazione dei contenuti didattici.

Esercitazione di gruppo

Utilizzando Google Scholar, effettuate una ricerca su articoli e studi accademici che affrontano i neuromiti nell'educazione e le applicazioni dell’AI nella didattica. Identificate le fonti che trattano le credenze errate e le potenzialità dell'AI. Servitevi di ChatGPT, Gemini e Perplexity per sintetizzare le informazioni e facilitare la comprensione dei dati raccolti. Utilizzate questi strumenti per creare esempi pratici e adattare il contenuto per la vostra presentazione. Progettate una presentazione multimediale che includa:

  1. Una descrizione dei principali falsi miti legati all’AI nell'educazione.
  2. L’impatto reale e le opportunità dell’AI nella progettazione didattica.
  3. Una sezione che illustri come utilizzare questi strumenti di AI per migliorare l’interazione e il supporto agli studenti durante una lezione.

Rispondete cortesemente al seguente questionario

Grazie mille della cortese attenzione e della preziosa collaborazione!