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Artemisia Gentileschi
Mighé 16
Created on April 20, 2024
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Transcript
Artemisia Lomi Gentileschi nacque a Roma l'8 luglio 1593 da Orazio e Prudenzia di Ottaviano Montoni, primogenita di sei fratelli. Orazio Gentileschi era un pittore, nativo di Pisa, dagli iniziali stilemi tardo-manieristi che, stando al critico Roberto Longhi, prima di trasferirsi a Roma «non dipingeva, ma lavorava semplicemente di pratica, a fresco» (Longhi).Fu solo dopo l'approdo nell'Urbe che la sua pittura raggiunse il suo massimo valore espressivo, risentendo grandiosamente delle innovazioni del contemporaneo Caravaggio, dal quale derivò l'abitudine di adottare modelli reali, senza idealizzarli o edulcorarli e, anzi, trasfigurandoli in una potente quanto realistica drammaticità. Roma era in quel momento un grande centro artistico e la sua atmosfera satura di cultura e di arte costituiva un ambiente unico in Europa. La Riforma Cattolica, in effetti, costituì per l'Urbe un'eccezionale spinta propulsiva e portò al restauro di numerose chiese, dunque, a un sostanziale incremento di committenze che coinvolse tutte le maestranze impegnate in quei cantieri - e a svariati interventi urbanistici, i quali sovrapposero all'antica e angusta città medievale una nuova maglia funzionale di strade scandite da immense piazze e delineate da sfarzose residenze gentilizie. Roma era molto fervente anche dal punto di vista sociale: nonostante l'alta densità di mendicanti, prostitute e ladri, in città affluivano numerosissimi i pellegrini (con l'evidente intento di rafforzare la propria fede visitando i vari luoghi sacri) e di artisti, di cui molti fiorentini (durante il Cinquecento, infatti, ben due rampolli della famiglia dei Medici ascesero al soglio pontificio, sotto i nomi di Leone X e
NFANCIULLEZZA:modifica Battezzata dopo due giorni dalla sua nascita nella chiesa di San Lorenzo in Lucina, la piccola Artemisia divenne orfana di madre nel 1605. Fu probabilmente in questo periodo che si avvicinò alla pittura: stimolata dal talento del padre, la bambina spesso lo guardava affascinata mentre si cimentava con i pennelli, sino a maturare un'ammirazione incondizionata e un lodevole desiderio di emulazione. La formazione della Gentileschi avvenne, nell'ambito artistico romano, proprio sotto la guida del padre, che fu perfettamente in grado di valorizzare al massimo il talento precoce della figlia. Ripercorrendo l'iter didattico proprio degli aspiranti pittori del tardo Rinascimento, Orazio introdusse la figlia all'esercizio della pittura, innanzitutto insegnandole come preparare i materiali utilizzati per la realizzazione dei dipinti: la macinazione dei colori, l'estrazione e la purificazione degli oli, il confezionamento dei pennelli con setole e pelo animale, l'approntamento delle tele e la riduzione in polvere dei pigmenti furono tutte perizie che la piccola metabolizzò nei primi anni. Acquisita una certa dimestichezza con gli strumenti del mestiere, Artemisia perfezionò le proprie doti pittoriche soprattutto attraverso la copia delle xilografie e dei dipinti che il padre aveva sotto mano - non era raro, per gli atelier dell'epoca, possedere incisioni di personaggi come Marcantonio Raimondi e Albrecht Dürer - e, contestualmente, subentrò alla madre ormai defunta nelle varie responsabilità della conduzione familiare, dalla gestione della casa e del vitto alla custodia dei suoi tre fratelli minori. Frattanto, Artemisia recepì stimoli cruciali anche dalla vibrante scena artistica capitolina: importante fu la conoscenza della pittura di Caravaggio, artista che aveva stupito il pubblico realizzando gli scandalosi dipinti nella cappella Contarelli in San Luigi dei Francesi, inaugurata nel 1600, quando Artemisia non aveva che sette anni. Alcuni critici del passato hanno persino avanzato l'ipotesi di una frequentazione diretta tra lei e Caravaggio, che spesso si recava nello studio di Orazio per procurarsi le travi da sostegno per le proprie opere.Molti, tuttavia, ritengono quest'eventualità poco probabile alla luce delle pressanti restrizioni paterne, a causa delle quali Artemisia imparò la pittura confinata entro le mura domestiche, non potendo fruire degli stessi percorsi di apprendimento intrapresi dai colleghi maschi: la pittura, all'epoca, era infatti considerata una pratica quasi esclusivamente maschile, e non femminile. Ciò malgrado, la Gentileschi subì ugualmente il fascino della pittura caravaggesca, anche se filtrato attraverso le pitture del padre.
Abbiamo avuto modo di vedere come Gentileschi sia stata avviata assai precocemente all'attività pittorica. Questo suo innato talento per le belle arti fu motivo d'orgoglio e di vanto per il padre Orazio, che nel 1611 decise di allocarla sotto la guida di Agostino Tassi, un virtuoso della prospettiva in trompe-l'œil con cui collaborava alla realizzazione della loggetta della sala del Casino delle Muse, a palazzo Rospigliosi. Agostino, detto «lo smargiasso» o «l'avventuriero», era sì un pittore talentuoso, ma aveva un carattere sanguigno e iroso e dei trascorsi più che burrascosi: oltre a essere coinvolto in diverse disavventure giudiziarie, era un furfantesco scialacquatore e per di più fu anche mandante di diversi omicidi. Ciononostante, Orazio Gentileschi aveva grande stima di Agostino, che frequentava assiduamente la sua dimora, e – anzi – fu felicissimo quando accettò di iniziare Artemisia alla prospettiva. Gli eventi, tuttavia, presero una piega tutt'altro che piacevole. Tassi, dopo diversi approcci, tutti rifiutati, approfittando dell'assenza di Orazio, violentò Artemisia nel 1611. Questo tragico evento influenzò in modo drammatico la vita e l'iter artistico della Gentileschi. Lo stupro si consumò nell'abitazione dei Gentileschi in via della Croce, con la compiacenza di Cosimo Quorli, furiere della camera apostolica, e di una certa Tuzia, donna a servizio dai Gentileschi. Artemisia descrisse l'avvenimento con parole tremende: «Serrò la camera a chiave e dopo serrata mi buttò su la sponda del letto dandomi con una mano sul petto, mi mise un ginocchio fra le cosce ch'io non potessi serrarle et alzatomi li panni, che ci fece grandissima fatiga per alzarmeli, mi mise una mano con un fazzoletto alla gola et alla bocca acciò non gridassi e le mani quali prima mi teneva con l’altra mano mi le lasciò, avendo esso prima messo tutti doi li ginocchi tra le mie gambe et appuntendomi il membro alla natura cominciò a spingere e lo mise dentro. E li sgraffignai il viso e li strappai li capelli et avanti che lo mettesse dentro anco gli detti una stretta al membro che gli ne levai anco un pezzo di carne.
Dopo aver violentato la ragazza, Tassi arrivò persino a blandirla con la promessa di sposarla, così da rimediare al disonore arrecato. Bisogna ricordare che all'epoca vi era la possibilità di estinguere il reato di violenza carnale qualora fosse stato seguito dal cosiddetto «matrimonio riparatore», contratto tra l'accusato e la persona offesa: d'altronde, all'epoca, si pensava che la violenza sessuale ledesse una generica moralità, senza offendere principalmente la persona, nonostante questa venisse coartata nella sua libertà di decidere della propria vita sessuale.Artemisia cedette dunque alle lusinghe del Tassi e si comportò more uxorio, continuando a intrattenere rapporti intimi con lui, nella speranza di un matrimonio che mai arriverà. Orazio, dal canto suo, tacque sulla vicenda, nonostante Artemisia l'avesse informato sin da subito. Fu solo nel marzo del 1612, quando la figliola scoprì che Tassi era già coniugato, e quindi impossibilitato al matrimonio, che papà Gentileschi ribollì per l'indignazione e, nonostante i vincoli professionali che lo legavano al Tassi, indirizzò un'infuocata querela a papa Paolo V per sporgere denuncia al suo perfido collega, accusandolo di aver deflorato la figlia contro la sua volontà. La petizione recitava così: «Una figliola dell'oratore [querelante] è stata forzatamente sverginata e carnalmente conosciuta più et più volte da Agostino Tasso pittore et intrinseco amico et compagno del oratore, essendosi anco intromesso in questo negozio osceno Cosimo Tuorli suo furiere; intendendo, oltre allo sverginamento, che il medesimo Cosimo furiere, con sue chimere, abbia cavato, dalle mane della medesima zitella, alcuni quadri di pitture di suo padre et in specie una Juditta di capace grandezza. Et perchè, B[eatissimo] P[adre], questo è un fatto così brutto et commesso in così grave et enorme lesione et danno del povero oratore et massime sotto fede di amicizia che del tutto si rende assassinamento»
GLI ULTIMI ANNI:Sappiamo che nel 1642, alle prime avvisaglie della guerra civile, Artemisia aveva già lasciato l'Inghilterra, dove d'altronde non aveva più senso restare una volta morto il padre. Poco o nulla si sa degli spostamenti successivi. È un fatto che nel 1649 fosse nuovamente a Napoli, in corrispondenza con il collezionista don Antonio Ruffo di Sicilia, che fu suo mentore e buon committente in questo secondo periodo napoletano. Esempi di opere ascrivibili a questo periodo sono una Susanna e i vecchioni, oggi a Brno, e una Madonna e Bambino con rosario, conservata all'Escorial. L'ultima lettera al suo mentore che noi conosciamo è del 1650 e testimonia come l'artista fosse ancora in piena attività. Fino al 2005 si credeva che Artemisia fosse morta tra il 1652 e il 1653, ma recenti testimonianze mostrano che accettò ancora delle commissioni nel 1654, sebbene allora dipendesse molto dall'aiuto del suo assistente Onofrio Palumbo. Si presume oggi che sia morta durante la devastante peste del 1656 che colpì Napoli, spazzando via un'intera generazione di grandi artisti. Fu seppellita presso la chiesa di San Giovanni Battista dei Fiorentini di Napoli, sotto una lapide che recitava due semplici parole: «Heic Artemisia». Attualmente questa lapide, così come il sepolcro dell'artista, risulta perduta in seguito alla ricollocazione dell'edificio. Sinceramente pianta dalle due figlie superstiti e da pochi intimi amici, i detrattori non persero invece occasione per colpirla con lo scherno. Tristemente noto è il sonetto steso da Giovan Francesco Loredano e Pietro Michiele, che recita così: «Co'l dipinger la faccia a questo e a quello / Nel mondo m'acquistai merto infinito / Nel l'intagliar le corna a mio marito / Lasciai il pennello, e presi lo scalpello / Gentil'esca de cori a chi vedermi / Poteva sempre fui nel cieco Mondo; / Hor, che tra questi marmi mi nascondo, / Sono fatta Gentil'esca de vermi»