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III CANTO

Mariaconcetta Antonucci

Created on March 9, 2024

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Transcript

La Divina commedia

PARADISO, III CANTO
Lavoro di Mariaconcetta Antonucci, Maria Pia Macchia e Fabiana Minafra 4ª I, a.s. 2024/25

III CANTO

Il 3 canto del Paradiso di Dante si svolge nel primo cielo, il cielo della Luna, nel pomeriggio del 13 aprile 1300.

«Quel sol che pria d’amor mi scaldò ’l petto,di bella verità m’avea scoverto, provando e riprovando, il dolce aspetto; e io, per confessar corretto e certo me stesso, tanto quanto si convenne leva’ il capo a proferer più erto; ma visïone apparve che ritenne a sé me tanto stretto, per vedersi, che di mia confession non mi sovvenne.»

Sequenze narrative

Concentrandoci sulla narratività del canto, potremmo dividere quest'ultimo in 5 sequenze narrative: L'arrivo delle anime beate (vv. 1-33) L'incontro con Piccarda Donati (vv. 34-57) I gradi di beatitudine (vv. 58-90) La storia del voto mancato: Piccarda e Costanza (vv. 91-120) La La sparizione delle anime (vv. 121-130)

Temi e motivi

La risposta a questa domanda ci guida verso una riflessione più ampia. Dante, attraverso la voce di Piccarda e poi di Beatrice, ci mostra che nel Paradiso nessuno si sente privato di nulla. La giustizia di Dio non è quella umana, fatta di misure e confronti, ma si fonda sull’ordine dell’amore. Ognuno è collocato laddove la sua anima è pienamente appagata, e non c’è invidia o rimpianto: tutti vedono Dio nella misura che possono, e questa visione colma ogni desiderio. «Nel suo voler è nostra pace» (v. 85) Questa frase sintetizza l’essenza della giustizia divina: accettare il volere di Dio come espressione suprema di giustizia e di pace. È una concezione profondamente mistica, che ci invita a rivedere il nostro concetto di giustizia alla luce dell’eternità.

Nel III canto assumono particolare rilievo alcuni temi: 1) La giustizia divina Uno dei punti centrali del canto è l’apparente ingiustizia del destino delle anime che Dante incontra nel cielo della Luna: anime beate, ma relegate nel cielo più basso. Tra queste spicca Piccarda Donati, che racconta la sua storia, rivelando di essere stata costretta ad abbandonare il monastero e la vita religiosa per obbedire alla volontà familiare. Qui si affaccia subito il nodo della giustizia divina: come può Dio, che è somma giustizia, collocare alcune anime in una condizione “inferiore” nel Paradiso per colpe non pienamente proprie?

2) La libertà del volere umano

Dante ci invita a riconoscere la grandezza e la gravità della libertà umana: non possiamo sempre controllare le circostanze esterne, ma siamo responsabili di come reagiamo ad esse. Anche la più sottile adesione interiore a un’azione imposta dall’esterno ha un peso morale. È una lezione che vale ancora oggi, in un tempo in cui spesso si tende a scaricare la responsabilità delle propriescelte su fattori esterni.

Piccarda introduce un tema altrettanto delicato: il libero arbitrio. Ella afferma di essere stata“vinta” dalla forza esterna, ma Beatrice, poco dopo, precisa che l’anima non può mai essere completamente costretta se non vi è un consenso interiore. Anche nel caso in cui ci sia violenza esterna, resta una zona di libertà in cui l’anima può resistere o cedere. Questo è un punto importante nella riflessione medievale sulla responsabilità morale.

utore decide di non soffermarsi su alcuna anima all’interno del canto, accennando soltanto «colui che fece per viltade il gran rifiuto».

  • .

3) La beatitudine nei diversi gradi del Paradiso

Infine, il canto tocca un altro grande tema: la struttura gerarchica del Paradiso. Per la prima volta Dante ci mostra come il Paradiso sia composto da diversi “cieli”, ciascuno dei quali ospita anime che hanno raggiunto un diverso grado di beatitudine. Tuttavia, non si tratta una differenza quantitativa di felicità, ma qualitativa: ogni anima ama Dio in modo perfetto secondo la propria capacità. Il cielo della Luna, in particolare, è riservato agli spiriti che mancarono ai voti per debolezza, non per volontà ; in questo modo, Dante ci introduce all’idea che nel disegno divino anche le differenze sono simbolo di armonia. Non c’è disparità che generi disordine: ogni grado della beatitudine è una nota in un’armonia celeste, che solo Dio può comprendere pienamente.

È un invito a riconoscere che non tutti siamo chiamati alla stessa missione, ma che ciascuno ha un posto unico e necessario per la salvezza.

Analisi del canto

Il canto presenta una struttura circolare, che si apre e si chiude con la metafora del sole riferita a Beatrice, simbolo della verità divina. All’inizio, questa immagine richiama sia la condizione attuale di luce e verità in cui si trova Beatrice, sia l’amore che aveva suscitato nel giovane Dante. Alla fine, la stessa immagine della donna che “abbaglia” ritorna, ma in modo più forte poiché l’allegoria mostra Dante ancora incapace di sostenere il bagliore della verità. Questa circolarità è doppia, perché subito dopo l’apparizione di Beatrice compaiono delle figure femminili che sembrano emergere dall’acqua : «Quali [...], per acque nitide e tranquille, / non si profonde che i fondi sien persi, / tornan d’i nostri visi le postille» per poi scomparire lentamente, come «per acqua cupa cosa grave». In questa cornice simbolica, si inserisce il dialogo tra Dante e Piccarda, che, con grande delicatezza, affronta sia vicende umane sofferte sia temi teologici, mantenendo un equilibrio tra emozione e riflessione spirituale.

metafora

Quel sol che pria d'amor mi scaldò 'l petto, di bella verità m'avea scoverto, provando e riprovando, il dolce aspetto; e io, per confessar corretto e certo me stesso, tanto quanto si convenne leva' il capo a proferer più erto; ma visïone apparve che ritenne a sé me tanto stretto, per vedersi, che di mia confession non mi sovvenne.

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riferimento alla filosofia scolastica

All’inizio del passo, Dante ribadisce che Beatrice, gli ha mostrato il “dolce aspetto” della verità attraverso il metodo del “provando e riprovando”, cioè il classico procedimento della filosofia scolastica fatto di dimostrazione e confutazione. Dopo aver capito il proprio errore, si sente ormai “corretto” e “certo” della spiegazione ricevuta.Subito però una sensazione visiva prende il sopravvento sul pensiero, come in una dissolvenza cinematografica: Dante vede dei volti sbiaditi emergere, che poi svaniranno alla fine del canto (nel momento dell’addio a Piccarda). Questa realtà evanescente e incorporea viene descritta con una similitudine molto elaborata: le anime sono paragonate ai lineamenti riflessi in vetri o acque limpide, detti “postille”, una metafora ricercata che richiama le annotazioni a margine nei manoscritti. L’idea è che le anime siano come le postille rispetto al testo, cioè un riflesso debole rispetto all’immagine vera.

Quali per vetri trasparenti e tersi, o ver per acque nitide e tranquille, non sì profonde che i fondi sien persi, tornan d'i nostri visi le postille debili sì, che perla in bianca fronte non vien men forte a le nostre pupille;

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similitudine

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metafora

Dante, credendole solo immagini riflesse, si volta di scatto: è l’opposto di Narciso, che invece scambiò un riflesso per una persona vera. Questo errore istintivo, espresso con vivacità sintattica, contrasta con la calma e l’immobilità di Beatrice, che lo guarda con occhi ardenti (vv. 23-24). Si crea così un’opposizione tra l’istinto umano fallibile e la verità divina, immobile e perfetta. Questo è il secondo errore che Dante commette in Paradiso, simile a quello del primo canto, quando pensava di trovarsi ancora sulla Terra. L’origine di questi errori è l’incapacità dell’intelletto umano di cogliere la verità da solo, “sopra il vero ancor lo piè non fida”. Da qui i riferimenti all’immaturità intellettuale, come l’immagine della madre che guarda il figlio (Par. I, vv. 101-102) e il “pueril coto” (v. 26), cioè un pensiero infantile.

Subito sì com’io di lor m’accorsi, quelle stimando specchiati sembianti, per veder di cui fosser, li occhi torsi; e nulla vidi, e ritorsili avanti dritti nel lume de la dolce guida, che, sorridendo, ardea ne li occhi santi. "Non ti maravigliar perch’io sorrida", mi disse, "appresso il tuo püeril coto, poi sopra ’l vero ancor lo piè non fida, ma te rivolve, come suole, a vòto: vere sustanze son ciò che tu vedi, qui rilegate per manco di voto.

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perifrasi riferita a Beatrice

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coto è un latinismo che significa pensiero (da cogito)

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30

All’errore di Dante si contrappone «la verace luce», cioè Dio, che è anche la fonte della piena felicità delle anime. Beatrice lo incoraggia, e lui si rivolge a una di queste anime con un tono rispettoso e raffinato, usando una captatio benevolentiae dal sapore stilnovistico (ad esempio l’aggettivo “vaga” al v. 34). Dice: «O ben creato spirito, che a’ rai / di vita etterna la dolcezza senti...», con una perifrasi elevata che contrasta con quella usata per i dannati nell’Inferno (“mal nati”). Alla richiesta di Dante su identità e condizione, Piccarda risponde in modo quasi impersonale,perché in Paradiso (già in parte anche in Purgatorio) il dato biografico e psicologico si annulla nella coralità felice e nell’adesione totale alla volontà divina. Nei vv. 37-39 si insiste sul termine “dolcezza”, legato alla poesia stilnovista, come espressione della beatitudine.Piccarda risponde «pronta e con occhi ridenti», gesto che esprime la “claritas”, cioè la luminosità divina che, secondo San Tommaso, splende nei corpi dei beati.La sua prima parola è “carità”, a indicare l’amore perfetto che unisce tutti i beati, uguale a quello divino «che vuol simile a sé tutta sua corte»: qui il termine “corte” rimanda all’ideale dell’amore cortese.

E io a l’ombra che parea più vaga di ragionar, drizza’ mi, e cominciai, quasi com’uom cui troppa voglia smaga: "O ben creato spirito, che a’ rai di vita etterna la dolcezza senti che, non gustata, non s’intende mai, grazïoso mi fia se mi contenti del nome tuo e de la vostra sorte". Ond’ella, pronta e con occhi ridenti: "La nostra carità non serra porte a giusta voglia, se non come quella che vuol simile a sé tutta sua corte. I’ fui nel mondo vergine sorella; e se la mente tua ben sé riguarda, non mi ti celerà l’esser più bella,

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termine legato alla poesia stilnovista

perifrasi elevata

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rivela il suo passato da monaca

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Li nostri affetti, che solo infiammati son nel piacer de lo Spirito Santo, letizian del suo ordine formati. E questa sorte che par giù cotanto, però n’è data, perché fuor negletti li nostri voti, e vòti in alcun canto".

Ma subito torna sul concetto che la vera beatitudine è l’essere perfettamente conformi all’ordine divino (vv. 52-54). Parla poi della debolezza della volontà, all’origine della loro condizione, usando un bisticcio: «fuor negletti / li nostri voti, e voti in alcun canto». Infine, Dante nota che le anime sembrano trasfigurate, diverse da come erano in vita, a causa di un “non so che divino” che le ha “trasmutate”.

54

parla della debolezza della volontà

57

Dante solleva un dubbio teologico: i beati della Luna desiderano forse essere più vicini a Dio per amarlo di più? La domanda provoca un sorriso di compatimento (segno dell’ingenuità di Dante) e un aumento di gioia in Piccarda, espressa con la metafora del fuoco, simbolo dell’amore divino.La risposta è più lunga e approfondita: Piccarda ribadisce che la beatitudine consiste nell’abbandono completo alla volontà divina, che li rende pienamente appagati Il tono è più teologico e si nota per l’uso di latinismi legati alla filosofia scolastica :“superne”,"cerne”, “necesse”. Nei vv. 70-78 si riconosce una struttura sillogistica: - Premessa maggiore: i beati vogliono ciò che vuole Dio ; - Premessa minore: volere altro significherebbe andare contro Dio; - Conclusione: quindi non possono desiderare una beatitudine maggiore . Questo discorso spiega come i beati, anche se non al grado massimo di vicinanza a Dio, siano completamente felici, perché la loro volontà è perfettamente unita a quella divina

premessa maggiore

"Frate, la nostra volontà quïeta virtù di carità, che fa volerne sol quel ch’avemo, e d’altro non ci asseta. Se disïassimo esser più superne, foran discordi li nostri disiri dal voler di colui che qui ne cerne; che vedrai non capere in questi giri, s’essere in carità è qui necesse, e se la sua natura ben rimiri.

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premessa minore

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conclusione

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Anche se Dante è già soddisfatto, la sua curiosità insaziabile lo spinge a chiedere ancora un desiderio di conoscenza che riflette quello dell’intellettuale che vuole «seguir virtute e canoscenza» (Inferno, XXVI, v. 120).Per introdurre la nuova domanda, usa due metafore concrete: una legata al cibo (vv. 91-93), per esprimere il desiderio di sapere; una dalla tessitura (vv. 94-96),che serve anche a riportarci gradualmente sul piano della vita terrena, a cui farà riferimento Piccarda nella risposta.La vicenda mondana di Piccarda è raccontata in modo distaccato e misurato. Cita l’esempio di santa Chiara, fondatrice delle Clarisse, e descrive la vocazione religiosa con un linguaggio nuziale tipico dei mistici: lo sposo è Cristo, che accoglie i voti ispirati dalla carità. Piccarda era ancora giovane («giovinetta») quando lasciò il mondo per entrare in convento. L’enjambement tra i vv. 103-104 esprime il movimento di fuga dal mondo verso la vita claustrale.

Ma sì com’elli avvien, s’un cibo sazia e d’un altro rimane ancor la gola, che quel si chere e di quel si ringrazia, così fec’io con atto e con parola, per apprender da lei qual fu la tela onde non trasse infino a co la spuola. "Perfetta vita e alto merto inciela donna più sù", mi disse, "a la cui norma nel vostro mondo giù si veste e vela, perché fino al morir si vegghi e dorma con quello sposo ch’ogne voto accetta che caritate a suo piacer conforma. Dal mondo, per seguirla, giovinetta fuggi’ mi, e nel suo abito mi chiusi e promisi la via de la sua setta.

metafora legata al cibo

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metafora legata alla tessitura

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102

è presente un enjambement

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L’espressione «nel suo abito mi chiusi» richiama il passaggio da uno spazio aperto e pericoloso a uno chiuso e protetto, il convento, che impone regole ma facilita il rapporto con Dio. Anche l’espressione «dolce chiostra» (v. 107) è notevole, in quanto “chiostra” (cioè “chiostro”, spazio chiuso) entra in contrasto con l'aggettivo “dolce”. Ma qui indica una prigione scelta volontariamente, un luogo nel quale è possibile rifugiarsi dal peccato del mondo. Nella terzina 103-105 si trovano i motivi fondamentali della scelta di Piccarda: il ritiro dal mondo, la vocazione religiosa, il voto solenne; la terzina seguente riassume poi con forza drammatica il suo rapimento e il matrimonio forzato, imposto per motivi politici. Tuttavia il racconto resta ellittico, pieno di reticenze ed eufemismi:

Dal mondo, per seguirla, giovinetta fuggi’ mi, e nel suo abito mi chiusi e promisi la via de la sua setta. Uomini poi, a mal più ch’a bene usi, fuor mi rapiron de la dolce chiostra: Iddio si sa qual poi mia vita fusi. E quest’altro splendor che ti si mostra da la mia destra parte e che s’accende di tutto il lume de la spera nostra,

103 106 109

contrasto terminologico

- «Uomini poi, a mal più ch’a bene usi» (v. 106): “uomini” indica dei criminali, ma è detto con tono caritatevole, da anima beata; - «Iddio si sa qual poi mia vita fusi» (v. 108): espressione allusiva che evita di raccontare apertamente l’accaduto. Il tono è elegiaco, quasi nostalgico, e sembra avvicinarsi a quello delle anime del Purgatorio, pur essendo in Paradiso. Le anime del cielo della Luna mantengono ancora i loro lineamenti, anche se “debili”, non sono pura luce come quelle più vicine a Dio. Questo segnala dunque la loro maggiore vicinanza alla Terra, cioè al mondo sublunare, e una possibile traccia residua dell’influsso terreno. Ma tutto ciò non contraddice quanto Piccarda ha già detto: le anime sono comunque in perfetta beatitudine, pienamente unite alla volontà divina, quindi quell’influsso non ha più forza reale su di loro.

ciò ch’io dico di me, di sé intende; sorella fu, e così le fu tolta di capo l’ombra de le sacre bende. Ma poi che pur al mondo fu rivolta contra suo grado e contra buona usanza, non fu dal vel del cor già mai disciolta.

112 115

L'altra anima: Costanza d'Altavilla

Accanto a Piccarda si trova un’altra anima, Costanza d’Altavilla, la cui vicenda è speculare alla sua: anche lei fu costretta a lasciare il convento per un matrimonio politico, ma con conseguenze ancora più importanti, poiché da quell’unione sarebbe nato Federico II, imperatore della casata sveva. Nonostante ciò, la narrazione rimane delicata e sfumata, proprio come nel caso di Piccarda. L’interruzione della vita religiosa è espressa con una perifrasi poetica e pudica: «le fu tolta / di capo l’ombra de le sacre bende» (vv. 113) Questa immagine allude al velo monacale, simbolo di pudicizia e consacrazione, che le fu strappato con la forza, segno della violazione della sua scelta spirituale. Nonostante il matrimonio, però, Costanza non si allontanò mai “del cor”, cioè nel cuore rimase fedele alla vita pia.

Quest’è la luce de la gran Costanza che del secondo vento di Soave generò ’l terzo e l’ultima possanza".

118

Il ritorno di Beatrice

Il colloquio si conclude con una suggestiva dissolvenza, sia visiva che sonora. Piccarda, infatti, svanisce mentre canta l’Ave Maria, e il suo canto sfuma gradualmente, rafforzando il senso di pace e distacco che caratterizza questo cielo. Anche a livello fonico si percepisce questa dissolvenza: - nel verso 122, c’è un’eco sonora tra «Maria», «vanio» e «cantando», che crea un effetto musicale; - nel verso 123 («come per acqua cupa cosa grave»), il ritmo lento e la presenza di bisillabi e suoni duri (c) rendono l’idea della sparizione graduale, come di un oggetto pesante che sprofonda in un’acqua profonda e scura. Infine, lo sguardo di Dante si rivolge nuovamente a Beatrice, ma non riesce ancora a sostenerne lo splendore: anche se purificato, il suo spirito non è ancora abbastanza forte per contemplare una luce così divina. Questa chiusura segna una sospensione mistica, preludio alla successiva ascesa verso cieli ancora più alti.

suoni duri (c)

Così parlommi, e poi cominciò ’Ave, Maria’ cantando, e cantando vanio come per acqua cupa cosa grave. La vista mia, che tanto lei seguio quanto possibil fu, poi che la perse, volsesi al segno di maggior disio, e a Beatrice tutta si converse; ma quella folgorò nel mïo sguardo sì che da prima il viso non sofferse; e ciò mi fece a dimandar più tardo.

121 124 127 130

In questo canto possiamo osservare 2 donne esempio di ciò.

Ruolo delle donne nel Medioevo

La società medievale era fortemente patriarcale, con padre e marito detentori del potere sulla donna. Tuttavia, alla donna era riconosciuto un ruolo centrale come madre, poiché la vita nasceva dal suo grembo. In assenza di eredi maschi, i figli potevano ereditare i beni del nonno materno, come accadde a Riccardo Cuor di Leone, che ottenne un vasto patrimonio dalla madre Eleonora, nipote di Guglielmo di Aquitania. La donna era vista come ponte tra due casate nobiliari, uno strumento nobile e prezioso per garantire la discendenza. Inoltre, nelle famiglie aristocratiche, il matrimonio era anche mezzo politico e sociale, utile a stringere alleanze e placare i cavalieri: Enrico Plantageneto, ad esempio, teneva pronte dame da dare in sposa ai suoi vassalli in cerca di “donna e terra”, cioè appagamento affettivo ed economico.

Piccarda Donati

Piccarda, figlia di Simone Donati e sorella di Forese (XXII del Purgatorio) e di Corso (Purgatorio,XXIV), era una giovane molto religiosa, tanto da decidere di entrare nel monastero di Santa Chiara a Firenze per farsi monaca.

Ma il fratello Corso, rissoso capo dei Guelfi neri la sottrasse con la forza e la rece sposare a Rossellino della Tosa, un nobiluomo violento seguace del partito del Neri, a cui era stata precedentemente promessa.

Costanza d’Altavilla

Dante riprende in parte una leggenda diffusa dai Guelfi per screditare la Casa di Svevia, secondo cui Costanza d’Altavilla, monaca a Palermo, sarebbe stata costretta a sposare Enrico VI a 52 anni per portare in dote la Sicilia e rafforzare il dominio svevo nel Sud Italia. Da questo matrimonio sarebbe nato Federico II, ritenuto nemico della Chiesa per la sua nascita “demonica”: figlio di un’ex suora e nato in età avanzata. In realtà, Costanza non fu mai suora, si sposò a 31 anni (1185), ebbe Federico II a 40 anni (1194).

«non ragionam di lor, ma guarda e passa» (v.51)

«Lasciate ogne speranza, voi ch'intrate» (v.9)

Bibliografia

- La Divina Commedia, Pearson a cura di Alessandra Marchi

-lA

Sitografia

- Wikipedia - Treccani - Weebly

Grazie a tutti per l'attenzione!

Lavoro di Mariaconcetta Antonucci, Maria Pia Macchia e Fabiana Minafra

L'arrivo delle anime beate

Dopo che Beatrice ha chiarito a Dante il mistero delle macchie lunari, lui si gira per guardarla, ma viene distratto da una visione: appaiono delle figure, simili a riflessi sull’acqua. Dante si volta per cercare le figure reali dietro di sé, ma non trova nessuno. Beatrice sorride e gli spiega che quelle apparizioni sono vere anime beate, rese evanescenti dalla luce divina. Sono nel Cielo della Luna perché in vita non hanno portato a termine i loro voti religiosi e Beatrice lo incoraggia a parlare con loro.

I gradi di beatitudine

Dante chiede a Piccarda se non desiderino una beatitudine più alta. Lei sorride con le altre anime e risponde che, essendo colme di carità, non possono volere nulla se non ciò che Dio vuole per loro. In Paradiso nessuno può avere desideri contrari alla volontà divina, perché questo significherebbe non essere beati. Accettare pienamente la propria condizione fa parte della vera pace e dell’ordine perfetto del Paradiso. Ogni anima è dove deve essere, e questo basta per essere felici davvero.

La storia del voto mancato: Piccarda e Costanza

Dante, colpito da ciò che ha appena ascoltato, chiede a Piccarda di raccontargli qual è il voto che non è riuscita a compiere. Lei racconta che da giovane aveva preso il velo seguendo la regola di Santa Chiara, ma fu portata via con la forza da uomini corrotti e costretta a rinunciare alla vita religiosa. Cosicchè indica un’altra anima accanto a sé: Costanza d’Altavilla, imperatrice e madre di Federico II, anche lei costretta a lasciare il convento; tuttavia, pur lontana fisicamente dal velo, rimase fedele alla sua vocazione nel cuore.

L'incontro con Piccarda Donati

Dante si rivolge alla figura che gli sembra più disposta a parlare. Le chiede chi sia e in che condizione si trovi, lodandone la luce che trasmette vita eterna. L’anima gli risponde con dolcezza: dice che la carità che le unisce le spinge a rispondere volentieri. Rivela di essere Piccarda Donati, una suora che, insieme ad altri spiriti come lei, si trova in questo Cielo per non aver adempiuto pienamente i voti. Anche se sono nel grado più basso di beatitudine, sono comunque felici e in perfetta armonia con la volontà di Dio.

La sparizione delle anime

Dopo aver parlato, Piccarda intona l’“Ave Maria” e inizia lentamente a svanire, come se sprofondasse nell’acqua profonda. Dante la guarda finché può, ma poi i suoi occhi si posano di nuovo su Beatrice. Lo splendore della donna è talmente forte che all’inizio Dante non riesce nemmeno a guardarla in volto, e questo lo frena un po’ dal farle altre domande.