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QUINTO ORAZIO FLACCO
Giulia Serra
Created on January 27, 2024
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Transcript
Quinto Orazio Flacco
Presentato da:Carnovale Sofia Galati Maria Catena Iedà Milea Serra Giulia Tavella Benedetta
INIZIa
INDICE
Vita
carpe diem
le epistole
l'ASPETTO pSICOLOGICO
OPERE
confronto
fine
lE SATIRE
GLI EPòDI
le odi
sezione 1
LA VITA
SEZIONE 1
Ci troviamo nel I secolo a.C. precisamente a Venosa dove nasce Orazio, meglio conosciuto come Quinto Orazio Flacco.Egli è stato un famoso poeta romano vissuto durante il periodo della Repubblica romana e dell'Impero di Augusto. Noto soprattutto per le sue Satire e le Odi, Orazio è considerato uno dei più grandi poeti della letteratura latina e una figura centrale nella tradizione letteraria occidentale. Andava alla ricerca di risposte ai grandi temi esistenziali, ma non troverà mai risposta ai suoi dilemmi. Orazio era figlio di un liberto, che per consentirgli un buon livello di istruzione, non esitò a trasferirsi a Roma, dove raggiunse una condizione abbastanza agiata grazie al suo lavoro di coactor argentarius, ossia esattore delle aste pubbliche. Il poeta fu sempre riconoscente verso il padre, che considerava il suo primo maestro di saggezza. A Roma Orazio ebbe la migliore istruzione: suo maestro fu Orbilio, uno dei grammatici più famosi del tempo.
SEZIONE 1
A vent’anni per concludere il suo ciclo di studi, compì un viaggio ad Atene. Qui ritrovò alcuni amici romani e si dedicò allo studio della filosofia e della poesia greca che avrebbe influenzato la sua produzione letteraria. Ad Atene si trovava anche Bruto, che stava organizzando con Cassio un esercito contro i cesariani. L'assassino di Cesare era considerato quasi un eroe e un simbolo di libertà dai giovani romani e greci. Fu così anche per Orazio, che non esitò ad arruolarsi nell'esercito dei cesaricidi, dove raggiunse il grado di tribunus militum. Tuttavia nel 42 a.C. a Filippi Bruto e Cassio subirono una pesante sconfitta e si uccisero, mentre Orazio si diede alla fuga.
sezione 1
Nel 41-40 a.C. Orazio poté ritornare a Roma, dove trascorse un periodo piuttosto critico: il padre era morto, la proprietà di Venosa era stata confiscata, la poverta incombeva. Il poeta trovò un impiego decoroso come scriba quaestorius, ossia redattore di documenti e contabile. Fu in questo periodo che la povertà lo spinse a comporre versi. Nel 38 a.C., grazie all'amicizia di Virgilio, che aveva conosciuto frequentando la scuola di Sirone a Napoli e il circolo di Ercolano, fu presentato a Mecenate. Per nove mesi non ci furono rapporti tra i due, finché Mecenate non lo invitò a far parte del suo circolo. Da quel momento nacque un'amicizia profonda che sarebbe durata fino alla morte. Nel 37 a.C. Orazio, con Virgilio e altri amici, fu tra i comites di Mecenate incaricato di una missione diplomatica a Brindisi.
sezione 1
Ben sapendo quanto per il poeta Orazio fosse importante allontanarsi dal caos della città, Mecenate gli fece dono di una villa in Sabina regalandogli un angulus che gli concesse di dedicarsi alla ricerca della serenità attraverso gli studi, la poesia e la compagnia di pochi e selezionati amici. L'amicizia di Mecenate permise poi a Orazio anche un salto sociale e favorì un rapporto amichevole anche con Augusto, che nel 25 a.C. gli propose di diventare suo segretario addetto alla corrispondenza privata. Orazio rifiutò, adducendo motivi di salute, ma in realtà perché deciso a mantenere la propria indipendenza.Nel 17 a.C. Augusto, per esaltare la grandezza del proprio principato, decise di celebrare i Ludi saeculares e affidò al poeta la stesura del Carmen saeculare, un inno solenne in cui si celebravano il destino di Roma cantato da un coro composto da 27 giovani e 27 vergini in processione. Fu questa la consacrazione di Orazio a poeta ufficiale di Roma.
sezione 1
Nel settembre dell'8 a.C. Mecenate morì.Due mesi dopo, il 27 novembre dell'8 a.C. moriva anche Orazio. Fu sepolto accanto alla tomba di Mecenate. Quest'ultimo atto suggellò la profondità di un'amicizia, ma anche la consuetudine di seppellire il cliens, quale Orazio di fatto era stato per Mecenate e per Augusto, accanto al patronus. Orazio lasciò ad Augusto tutti i suoi beni. Orazio soffrì anche di problemi di salute durante la sua vita, tra cui problemi agli occhi e problemi digestivi, che si riflettono talvolta nelle sue opere.
sezione 1
Le opere di Orazio riflettono i suoi rapporti e le sue opinioni sulle donne. Sebbene non siano presenti dettagli personali riguardo alle sue relazioni, la sua poesia spesso include lodi, critiche e riflessioni sulle donne e sui rapporti amorosi.Inoltre Orazio manifestava un forte legame con la natura e con il mondo circostante, utilizzando spesso immagini e metafore naturali per esprimere emozioni, concetti filosofici e valori morali. Dopo la sua morte, l'opera di Orazio continuò a godere di una grande reputazione e influenza, influenzando generazioni di poeti, scrittori e pensatori in tutto il mondo occidentale.
sezione 1
La sua frase più celebre è “Exegi monumentum aere perennius” ovvero “Ho eretto un monumento più duraturo del bronzo”.Questa frase è una citazione tratta dall'ode 3.30. In essa, Orazio esprime la sua fiducia nella durata della propria poesia, dicendo di aver creato un monumento più duraturo del bronzo. Questo significa che, secondo lui, le sue opere letterarie avrebbero resistito nel tempo più a lungo di qualsiasi monumento fisico o statua di bronzo. La frase sottolinea il potere e la durata dell'arte e della letteratura nel trasmettere idee e emozioni attraverso le generazioni.
sezione 2
L'ASPETTO PSICOLOGICO
Orazio e l'angoscia
La critica moderna, ormai da molti anni, non crede più che Orazio rappresenti la quintessenza dell’equilibrio apollineo. «Orazio fu un uomo ansioso ... noi diremmo nevrotico» Classicismo e razionalismo sembrano aver fatto a gara nel tramandarci l’immagine di un Orazio sereno, ironico, straordinariamente equilibrato: forse perché l’incredibile perfezione del suo stile invitava a presupporne altrettanta nell’uomo. In realtà, già i romani avevano ben compreso quale fosse la vera natura di Orazio visto che un antico commentatore dell’Arte poetica notava: «Si dice che Orazio fosse un melancholicus». Per descrivere la psicologia del poeta lo scoliasta fa uso di un termine medico, che evoca i problemi aristotelici, la «bile nera» e lo scientifico «temperamento» degli umori nel corpo. Ma per parlare di sé, per descrivere la cupa affezione dell’animo che a volte lo afferrava, Orazio usa la vecchia parola: veternus.
sezione 2
Indirizzando una delle sue Epistole (l’ottava del primo libro) all’amico Celso Albinovano, Orazio scriveva:si quaeret quid agam, dic multa et pulcra minantem uiuere nec recte nec suauiter, haud quia grando contuderit uitis oleamue momorderit aestus, nec quia longinquis armentum aegrotet in agris; sed quia mente minus ualidus quam corpore toto nil audire uelim, nil discere, quod leuet aegrum, fidis offendar medicis, irascar amicis, cur me funesto properent arcere ueterno, quae nocuere sequar, fugiam quae profǒre credam, Romae Tibur amem, uentosus Tibure Romam. «Non vivo né bene né con gioia. E non perché la grandine ha rovinato la vigna, o la calura ha morso l’oliveto ... ma perché più del mio corpo ho l’animo malato: né mi sento di ascoltare nulla, sapere nulla, che possa alleviare il mio malessere. Mi irrito con i fidi medici, mi arrabbio con gli amici perché cercano di scuotermi dal mio funesto torpore . Corro dietro a quel che mi ha fatto male, e fuggo quel che potrebbe giovarmi. A Roma desidero Tivoli, a Tivoli rimpiango Roma ...».
sezione 2
Orazio si sente sano, privo di preoccupazioni reali: eppure la sua anima è malata. Immerso in un funereo veternus, è incapace di muoversi ma anche incapace di star fermo. Il suo male sembra insomma consistere in una «depressione ansiosa». Ma per la verità lo dice molto meglio Orazio, da un’altra parte, quando parla di strenua inertia: il «sollecito torpore», la «smaniosa immobilità» che caratterizza chi ha male dentro. Questa definizione (lui l’avrebbe forse chiamata callida iunctura, «accorto abbinamento» di parole) non solo enuncia in modo impeccabile i due estremi fra cui incessantemente si agita la depressione ansiosa, ma suscita anche il ricordo di quelle remote dee della religione romana arcaica. Nell’immagine oraziana Strenia e Murcia, la divinità dell’attività e quella del torpore, sembrano fondersi in una creatura mostruosa, la strenua inertia.Gli antichi eruditi mettevano infatti Murcia (e relativo aggettivo murcidus) in relazione con marcidus, cioè con il «marcio». Murcia era una dea che faceva «marcire», e la depressione (cioè l’incapacità di agire, di provare entusiasmo, addirittura di muoversi) era immaginata come una marcescenza dell’animo. A contrastare il malefico influsso di Murcia, per fortuna, c’erano Stimula, la dea che stimolava ad agire, e Strenia, quella che ispirava il coraggio e l’attività.
sezione 2
Quando (scrive Freud) «Il malato ci descrive il suo “Io” come assolutamente indegno, incapace di fare alcunché e moralmente spregevole, si rimprovera, si vilipende, e si aspetta di essere respinto e punito». In altre parole, si può anche credere che Orazio si facesse «accusare» dai suoi personaggi non per ragioni di puro schema letterario, ma perché era sotto l’influsso dello stesso stato d’animo che altre volte, più esplicitamente, dichiara: la melanconia, il veternus, la strenua inertia. Il problema formulato dalla scuola di Aristotele, inizia con questa celebre frase: «Perché tutti coloro che hanno raggiunto l’eccellenza nella filosofia o nella politica o nella poesia o nelle arti mostrano di essere dei melanconici?». Può anche darsi che la spiegazione stia già tutta qui. Orazio fu un poeta straordinario, quindi fu anche melanconico.
sezione 2
SEZIONE 2
Il poeta vive in pieno e da protagonista il duro passaggio dalla fase repubblicana all'Impero; vede la violenza della guerra civile e prova, ancora molto giovane il senso di insicurezza legato alla mancanza di un potere forte. Come se ciò non bastasse egli esce sconfitto da questa esperienza, sarà costretto ad abbandonare ogni velleità di carriera politica, ma soprattutto vedrà i suoi ideali lasciare spazio a nuove concezioni. Oltre al travaglio politico in questo periodo comincia a manifestarsi anche un altro fenomeno molto importante per la società romana. La crisi, è infatti principalmente crisi degli "antiqui mores", incapaci di fornire risposte convincenti ai bisogni spirituali dell'epoca. In particolare la religione pagana mostra ormai chiari segni di cedimento, perché non garantisce un rapporto intimo con la divinità; questo periodo porta con sé la diffusione dei culti misterici a Roma, un'orientalizzazione della cultura che prende sempre più piede, anche e per la prima volta al di fuori dei ceti dominanti. Il rapporto tra Orazio e la nuova cultura, tra Orazio e la nuova religione emerge con chiarezza: il rifiuto è drastico e non lascia spazio ad alcuna insicurezza. Per chiarire ulteriormente basta andare a considerare il ciclo delle Odi Romane, nelle quali la glorificazione della tradizione istituzionale e del suo nuovo paladino Augusto non sono un tentativo del poeta di ingraziarsi i poteri forti; tutt'altro dimostrano la partecipazione completa del poeta al clima di restaurazione culturale voluto dall'Imperatore.
L'angulus di Orazio
sezione 2
A partire dal 33 a.C. il poeta si ritira nella villa sabina regalatagli da Mecenate, al riparo dal trambusto di Roma città; qui egli difende gelosamente la sua indipendenza di uomo, abbandona la vita pubblica e addirittura rifiuta il gentile invito dell'Imperatore Augusto a divenire il suo segretario. Se l'istante è la forma temporale della nuova filosofia oraziana, a livello di spazio essa trova la sua espressione nell'angulus appartato e ameno, a parte dal resto del mondo. In esso la storia non può esercitare il suo potere: non esistono le "Parche inique" e l'uomo ha facoltà di osservare da un punto di vista privilegiato la confusione che regna ovunque. E' chiaro quindi che questo luogo risulta essere sostanzialmente ideale ed inconciliabile con la realtà, tuttavia il poeta sostiene di averlo trovato nella sua villa sabina. Per comprendere questa affermazione bisogna ritornare alla definizione di angulus data all'inizio: esso è il luogo in cui l'uomo si ritira per esercitare il dettame etico del carpe diem. In virtù di ciò esso assume già una profonda connotazione positiva e diviene un paradiso perché è abitato da un uomo il quale, compresa la natura indecifrabile dell'Universo, è disilluso e in un certo senso riconciliato con il suo destino..
Il convito per Orazio
LOREM IPSUM
Connesso al concetto di angolo appartato è il tema del convito. Secondo Orazio la massima forma di consolazione al meccanicismo del mondo risiede nell'amicizia e nel ritrovarsi di una stretta ed unita cerchia di amici. Il convito in Orazio assume l'immagine del circolo di Mecenate; i frequentatori sono gli esponenti della cultura romana, che condividono il pensiero del poeta e ai quali egli si rivolge come pubblico preferenziale della sua opera. D'altra parte la profonda amicizia che lega Mecenate ai suoi dotti clienti emerge dal tono scherzoso della lettera oraziana e dal riferimenti espliciti ad avvenimenti della vita del benefattore. In sostanza quindi il convito risulta il corrispettivo del giardino epicureo e ne condivide gli elementi fondanti; esso perde la sua connotazione sociale e mondana assunta in età repubblicana ed ancor più durante il periodo imperiale; diviene così un centro letterario e più in generale culturale, nel quale si sviluppa una profonda forma di analisi esistenziale, necessaria per giungere all'essenza delle cose e cercare di sconfiggere il sentimento di angoscia generato dalla crisi religiosa in atto.
Orazio e Dante
sezione 2
Nel carmina I,9 Orazio tratta il tema della selva, riferendosi ad un quadro inospitale e selvaggio che rappresenta ciò che sta provando, in quanto melancholicus. Questo tema si abbraccia alla selva oscura di Dante : i due autori infatti condividono un simile stato d'animo e sono tra i pochi che illustrano questo sentimento nelle proprie opere. Orazio colto dall'angoscia vede il mondo come una selva ,mentre per Dante quella stessa selva riportata nella Commedìa è la rappresentazione vera e propria del cattivo stato d'animo che lo coglie. Inoltre, i due sono sensibili a quanto accade nella Roma e nella Firenze dell'epoca:Orazio è colto di sorpresa e angosciato dal cambiamento culturale e religioso che sta subendo l'impero; Dante è deluso dalla piega politica e dalle lotte interne che lacerano Firenze. Infine possiamo dire che i due autori, nonostante le diverse epoche, siano strettamente legati da malumori, ma che ciò non ha impedito loro di esprimere la loro vera grandezza filosofica e poetica nelle loro produzioni letterarie.
SEZIONE 3
INTRODUZIONE ALLE OPERE
CRONOLOGIA DELLE OPERE
SEZIONE 3
Orazio compose diverse opere letterarie durante la sua vita, con alcune pubblicate in periodi specifici. Tra il 41 e il 30 a.C., scrisse le Satire e gli Epodi, pubblicando il primo libro delle Satire tra il 35 e il 33 a.C., mentre il secondo libro delle Satire e gli Epodi furono pubblicati nel 30 a.C. Passò poi alla poesia lirica, con la pubblicazione di tre libri di Odi nel 23 a.C., seguiti da un quarto libro intorno al 13 a.C. Scrisse anche le Epistole, con il primo libro pubblicato nel 20 a.C. e il secondo tra il 19 e il 13 a.C. La datazione dell'Epistola ai Pisoni, successivamente chiamata Ars poetica, è controversa, con diverse ipotesi riguardo alla sua composizione. Orazio smise gradualmente di scrivere verso la fine della sua vita e morì nell'8 a.C., poco dopo la morte di Mecenate, venendo sepolto vicino alla tomba di quest'ultimo sull'Esquilino.
opere
- Le Satire (Sermones)
- Gli Epòdi
- Le Odi
- Le Epistole
Sezione 4
LE SATIRE
Cosa sono?
sezione 4
Le Satire (che l'autore denominò Sermones) sono una raccolta di componimenti, scritti in esametri nel tipico genere della satira, ed articolati in argomenti letterario–programmatici, che vanno dal proemio al commiato a riflessioni sull'incontentabilità umana e l'avarizia, espressioni contro l'adulterio, anche un diario di viaggio, un ripensamento della propria condizione sociale e un resoconto dei rapporti con Mecenate, al quale fu dedicato il primo libro.
sezione 4
Gli argomenti sono tratti dall'osservazione della vita quotidiana, nella quale si stigmatizzano i comportamenti, i vizi e le manie degli uomini: appunti di viaggio, cene, incontri più o meno graditi. Non sono trattati con lo sfogo passionale dei Giambi, ma con un misurato equilibrio: infatti il tutto è filtrato sempre attraverso una riflessione morale, che si caratterizza non tanto per l'amarezza o il sarcasmo della denuncia quanto per l'indulgenza della condivisione o, al massimo, per il distacco di un'ironia sorridente. Molti spunti sono tratti dalla filosofia epicurea, altri dalla polemica stoico-cinica; talvolta il poeta si scaglia direttamente contro l'astratto rigorismo degli stoici; in ogni caso, i temi filosofici sono proposti con la semplice naturalezza di un accostamento in prima persona. Nella VI Satira del primo libro, come nella corrispondente del secondo, l'autore parla direttamente di sé, della propria modesta origine, della propria educazione, dei rapporti con Mecenate: ne emerge, oltre che il ritratto cordiale e insieme pudico nell'uomo, il senso della sua moralità, fondata sui valori della misura e dell'autosufficienza,la greca autàrkeia, cioè l'autosufficienza interiore.
Si dividono in due libri:
sEZIONE 4
- PRIMO LIBRO
- è composto da 10 componimenti
- SECONDO LIBRO
- è composto da 8 componimenti (pubblicato nel 30 a.C.)
Le satire di Orazio si concentrano sull'osservazione della vita quotidiana, criticando comportamenti, vizi e manie umane. Questi argomenti vengono trattati con equilibrio e riflessione morale, evitando l'amarezza dei Giambi e optando per un tono più indulgente e ironico. Orazio attinge spesso dalla filosofia epicurea e stoica, ma si distingue per una visione personale e una presentazione in prima persona dei temi filosofici. Nelle satire, il poeta si confronta direttamente con sé stesso, la sua origine modesta, l'educazione e i rapporti con Mecenate, rivelando una moralità basata sulla misura e sull'autosufficienza interiore.
Alcune satire
sezione 4
Libro II
Libro I
"Satire I": Questa satira tratta principalmente delle questioni morali e sociali della Roma antica, criticando la corruzione, l'ipocrisia e la ricerca smodata di ricchezza e potere."Satire II": In questa satira, Orazio si concentra sulla vita e sui vizi dei cittadini romani, affrontando temi come l'avidità, la vanità e la ricerca di piacere senza limiti. "Satire III": Orazio discute le aspirazioni e le preoccupazioni dei poeti e degli intellettuali della sua epoca, analizzando i vari modi in cui cercano fama e successo. "Satire IV": Questa satira è una delle più celebri di Orazio ed è nota anche come "Satira dell'Epistola ai Pisones" o "Ars Poetica". In essa, Orazio offre consigli e linee guida per la scrittura poetica, esplorando il ruolo del poeta e i criteri per la creazione di opere d'arte.
"Satira V": Questa satira è nota anche come "La Banchettatrice" o "Saturae Menippeae". È un dialogo immaginario tra Orazio e una donna di nome Trebatius Testa, che racconta i dettagli di un banchetto da lei ospitato. Orazio critica sarcasticamente il lusso e gli eccessi del banchetto e riflette sulle conseguenze negative di un tale stile di vita. "Satira VI": Questa satira, spesso chiamata "Il Poeta e l'Argentiere", si concentra sulla relazione tra Orazio e un argentiere chiamato Mena. Orazio usa l'episodio per discutere le implicazioni sociali e morali della ricchezza, riflettendo sul fatto che la vera ricchezza non risiede solo nel possesso di beni materiali, ma anche nell'essere liberi da desideri eccessivi.
SEZIONE 5
GLI EPÒDI
Cosa sono?
sezione 5
Gli Epòdi sono una raccolta di diciassette poesie che furono scritti dopo il 42-41 a.C. e pubblicati intorno al 30. Il libro degli Epòdi, dedicato a Mecenate, doveva probabilmente intitolarsi Iambi, con un termine che oltre al significato metrico rimandava direttamente al termine "epós", indicava un genere caratterizzato da toni aspri, realistici, a volte violentemente polemici che ha origine nei poeti classici greci Archiloco e Ipponatte. Mentre la ricerca formale, il cosiddetto "labor limae" che caratterizzano gli Epodi, è da ricondurre al poeta classico greco Callimaco. Il nome Epòdi o Giambi fu attribuito da grammatici antichi a causa dell'uso di una categoria peculiare di strofe, basate su coppie di versi in cui il primo è più lungo del secondo, l'epodo appunto. I contenuti sono vari: si ha una poesia d'apertura in forma di "propemptikon" (carme di accompagnamento) in cui Orazio dichiara di voler sposare la causa augustea e di voler quindi seguire Ottaviano; poi si alternano poesie erotiche, politiche, "scherzi" autobiografici.
sezione 5
Alla varietà dei temi corrisponde la varietà dei toni (secondo l'esempio del poeta ellenistico Callimaco). Gli epòdi più antichi presentano una visione assai cupa di Roma dilaniata dalle guerre civili, mentre l'epodo IX celebra la vittoria di Ottaviano come promessa di pace e di salvezza. Nella raccolta si possono distinguere alcuni filoni, come ad esempio: magia, poesia civile, invettiva, amore ed un elogio della campagna. Il filone dell'invettiva si esprime negli epodi 4,6 e 10. Soltanto il decimo è diretto contro una persona, Mevio, cui viene augurato di morire in un naufragio; in realtà, si pensa che Orazio, utilizzi l'identità fittizia del poetastro Mevio, in modo da attaccare diversi tipi umani (in questo caso i poeti di basso livello) e non persone ben precise.
sezione 5
Ai modi dell'invettiva si possono ricondurre anche gli epodi 8 e 12, rivolti contro una vecchia, e sollecita da lui prestazioni sessuali. In questo caso rivela una tendenza espressionistica. L'espressionismo infatti è uno dei tanti aspetti più rivelanti degli epòdi (designa una rappresentazione o uno stile che tende a una deformazione dei dati del reale per aumentarne l'impatto emotivo). Il filone della magia: è un atteggiamento affine il quale caratterizza i componimenti dedicati alla magia (epodi 5 e 17) il tema viene trattato con un accentuato realismo, orientato verso l'eccessivo, l'orrendo e il repellente.
SEZIONE 6
LE ODI
Cosa sono?
SEZIONE 6
Le Odi di Orazio sono costituite da 103 poesie raccolte in quattro libri. Il modello dell'opera è la grande poesia greca di età arcaica, soprattutto Alceo, Anacreonte, Saffo, Pindaro e i poeti dell'isola di Lesbo, con la ripresa di diversi tipi di componimenti e di metri vari. Il primo libro contiene 38 poesie, il secondo 20, il terzo 30 e il quarto 15. I primi tre libri furono pubblicati nel 731 ab Urbe condita (23 a.C.) e il quarto nel 741 (13 a.C.).I modelli principali delle Odi, sono i poeti di Lesbo, principalmente Alceo e Saffo: essi sono il punto di riferimento più importante anche per la metrica; è significativo che persino i carmi di tono più alto e pindareggiante siano scritti non nei metri pindarici, ma in strofe alcaiche o saffiche. A proposito del rapporto con i modelli tuttavia l'influsso di testi ellenisti è notevole e documentabile. Essi erano parte integrante della cultura e del gusto di Orazio e dei suoi contemporanei, che si erano formati sull'estetica e sulla letteratura ellenistica.
Orazio conferisce quasi sempre ai suoi componimenti un'impostazione "allocutiva": raramente cioè i carmi si presentano come monologhi interiori; normalmente essi sono rivolti a un destinatario, che può essere un personaggio reale oppure una figura più o meno fittizia, che può avere maggiore o minore risalto, ma che comunque favorisce e orienta lo svolgimento del discorso poetico. Tale impianto discorsivo è collegato a una situazione particolare, che inserisce il carme in determinati schemi tradizionali: ad esempio la celebrazione della divinità, l'imminenza del viaggio di un amico indirizza verso lo schema del propemptikón ("augurio di buon viaggio"), il compianto per la morte di una persona cara e così via. Questo debito verso la tradizione non significa però che le Odi si presentino come una sorta di rivisitazione di materiali precedentemente elaborati da altri poeti; esso indica invece la volontà di aderire a una determinata maniera poetica, nel cui patrimonio di forme e di immagini l'autore spazia con grande libertà e con sensibilità nuova e personale.
SEZIONE 6
Primo libro:
sezione 6
Ode I Pur non avendo una datazione certa si ipotizza che la prima ode sia stata scritta intorno al 23 a.C. La raccolta delle Odi è dedicata a Mecenate e si attuava l’intenzione di dedicare la sua opera all’uomo che gli fu maggiormente amico e protettore. Dopo un elenco di differenti stili di vita che le persone seguono, Orazio presenta il suo, ovvero il dedicarsi alla poesia, aspirando un giorno ad essere un grande poeta lirico. Ode II La datazione di quest’ode è incerta ma non vi è dubbio che sia tra le più antiche di Orazio, come appare anche dal tono retorico e dallo scarso valore stilistico e poetico. Orazio rievoca alcuni degli orrendi fenomeni seguiti alla violenta scomparsa di Cesare e scongiura Ottaviano, incarnazione di Mercurio, di farsi mezzo di espiazione. L’augurio all’imperator che egli ritorni tardi in cielo è, al tempo stesso, augurio di pace a Roma e di lunga vita al principe. Ode XX I commentatori di quest’ode si sono divisi sul significato del testo che può sembrare avere quasi un carattere epigrammatico. Orazio invita Mecenate a bere nella sua villa in Sabina, dove però egli potrà offrirgli solo del vino modesto, a confronto con i vini pregiati a cui l'ospite era abituato; ma è proprio qui che si scorge il vero carattere dell'ode, il vino offerto a Mecenate ha un valore particolare: Orazio infatti l'ha travasato con le sue mani in un giorno di grande gioia per la notizia della guarigione dell'amico.
Secondo libro:
sezione 6
Il secondo è fra i quattro libri delle odi quello più pacato e organico; si tratta di una pacatezza non inerte ma creativa. Le venti odi che compongono il libro presentano un’organica regolarità: 4 che non oltrepassano i 40 versi e le altre che non scendono sotto i 20 versi, come se l’autore cercasse l’estensione quantitativa ottimale per i suoi carmi. Le poesie del secondo libro non si pongono nessuna sul piano della emulazione di un modello.
Ode V Solitamente Orazio indica il destinatario delle sue odi, in questo caso però ciò non avviene. C'è però un pronome, un “tu” che ci fa desumere che si tratta di un colloquio dell'autore a sè stesso. Egli è innamorato di una adolescente, Lalage, non ancora abbastanza matura per dedicarsi all'amore. Egli la guarda intenerito e rammaricato perché sa che con il passare del tempo lei crescerà e amerà qualcuno diverso da lui. Ode XVIII Orazio, ancora legato alla metrica degli Epodi, descrive la sua villa in Sabina, evidenziandone l'apparente povertà, compensata dalla ricchezza di affetti. Ode XX Quest’ode può essere definita il congedo dell’opera e la fiducia del poeta di sentirsi maturo, di essere ormai esperto a un proseguimento: in tal senso la finzione del poeta-cigno apre l’orizzonte dalla cadenza alla perennità. Il poeta predice la propria immortalità, sotto la figura della sua trasformazione in cigno, l’uccello sacro di Apollo, che volerà su tutte le regioni della terra, facendo risuonare il suo canto.
Terzo libro:
sezione 6
Il libro terzo è il vero e proprio compimento del progetto lirico dell’autore. In questa raccolta Orazio esalta i motivi e i generi già canonici nella lingua greca e che l’autore ripropone nel linguaggio italico e latino. Nella letteratura amorosa le serenate si sviluppano in forma patetica o drammatica, invece la serenata dell’ode 10ª è simbolo dell’ironia italica e dei suoi luoghi. Altro tema della letteratura d’amore è il contrasto tra gli innamorati, Orazio lo rielabora in un dialogo diretto, semplice e bello, organizzato in tre parti distinte. Nella maggior parte di questi suoi componimenti compaiono gli dei: Venere è avvertita presenza in tutte le sue poesie d’amore, in più il gran numero di preghiere a lei dedicate è dovuto alla devozione e non per pura abitudine di costume o di letteratura. Altra divinità ricorrente nei componimenti oraziani è Bacco, dio liberatore ed italico, che offre all’uomo il bene spirituale e fisico. A questo punto possiamo aprire il discorso sull’ultima parte del libro ovvero le odi Romane, tradotte anche come “Odi ai Romani”. Egli ha compreso che portare in lirica la storia di Roma significava cogliere e fermare la vicenda della romanità in ciò che ha di perenne, perciò le Odi ai Romani nascono tardi e maturano al termine del progetto lirico, col terzo libro. Esse non sono un poemetto, ma bensì una rivisitazione lirica.
sezione 6
Ode XXIX L'ode pare sia l'invito a Mecenate perché trascorra nella villa in Sabina di Orazio una pausa della contemplazione tormentata della grande Roma. Quest'ode è il punto d'incontro e di frizione tra l'autarkeia del saggio e la pena di Orazio uomo per la nostra precarietà esistenziale. Ode XXX Quest'ultima ode appare alta e sublime per darle un'aria commossa in seguito al grande obiettivo conseguito. Orazio è riuscito a rendere la lirica latina degna succeditrice della lirica greca e sa di essere stato il primo a riuscire in questo progetto. Tuttavia ciò che gli è più caro è che il suo paese, il suo luogo d'origine non tacerà mai riguardo alla sua gloria di poeta.
Quarto libro:
sezione 6
All’interno di questo libro Orazio tematiche incentrate principalmente sulle varie sfaccettature della vita dell’uomo, a partire dall’amore fino ad arrivare alla morte.
Ode I Il primo carme del quarto libro delle Odi oraziane introduce la figura di Cinara, la donna che rappresenta la giovinezza, l'amore, a cui Orazio ha ormai rinunciato per l'avvicinarsi della vecchiaia. L’inizio si configura come unapreghiera destinata ad allontanare, da chi prega, il pericolo proveniente da una divinità, in questo caso Venere. Ode VII Lettera in versi, dedicata a Torquato. È ritornata la primavera. Solo per noi uomini, una volta morti, non c’è più speranza di ritorno; Orazio alla ciclicità della natura contrappone la linearità della vita umana. Il carme è una triste e sincera presa di coscienza della misera condizione dell’uomo. Il poeta è preso questa volta dalla malinconia. Più fresco nell'ispirazione, più snella nella composizione metrica, più fusa nella struttura complessiva, riprende anche nei particolari, un motivo già utilizzato precedentemente conservandone lo stesso tono scherzoso quasi familiare.
sezione 7
IL CARPE DIEM
Cos'è il Carpe Diem?
SEZIONE 7
Carpe diem (da carpo:cogliere e dies,diei:giorno) è il titolo dell’undicesimo componimento del primo libro delle Odi (Odi 1, 11,), ;si presenta come un profondo avvertimento del poeta al lettore, qui la fanciulla Leuconoe, sulla natura della vita secondo i precetti della morale epicurea e della teoria del piacere : è meglio vivere l’attimo, piuttosto che interrogarsi inutilmente sul destino che ci attende. Il consiglio di Orazio è quello di abbandonare le illusioni e di prestare attenzione a vivere a pieno un attimo dell’eterno fluire del tempo. Carpe diem grammaticalmente è una locuzione latina traducibile in "afferra il giorno", ma spesso resa con "cogli l'attimo", Viene di norma citata in questa forma abbreviata, anche se sarebbe opportuno completarla con il seguito del verso oraziano: "quam minimum credula postero" ("affidandoti il meno possibile al domani"). È un invito ispirato alla concezione epicurea di felicità come assenza di dolore ed esprime l'angosciosa imprevedibilità del futuro, la gioia dignitosa della vita e la rassegnazione nell'accettare la morte, che il poeta cerca di tradurre con l'invito a vivere il presente, a godere ogni giorno dei beni offerti dalla vita, dato che il futuro non è prevedibile, da intendersi non come invito alla ricerca del piacere, ma ad apprezzare ciò che si ha.
È l’espressione di un valore che spesso nelle odi oraziane si confonde con l'ammirata esplorazione lirica del paesaggio, talvolta meraviglioso e sublime, talvolta a tinte cupe e fosche: riflesso perenne di un'esistenza complessa, di un reticolo fittissimo di esperienze ed emozioni che è lecito vivere intensamente. Si tratta non solo di una delle più celebri poesie della latinità, ma anche di una delle filosofie di vita più influenti della storia. Si pone in primo piano la libertà dell'uomo nel gestire la propria vita e invita a essere responsabili del proprio tempo, perché, come dice il poeta stesso "Dum loquimur, fugerit invida aetas" ("Mentre parliamo, sarà fuggito avido il tempo"). L'esistenza è vista come limitata e precaria, che può essere bruscamente interrotta da qualsiasi accidente e perciò dev'essere vissuta senza pensare alla fine inevitabile. È perciò invito al piacere fisico, in un’oculata etica della rinuncia: per raggiungere l’autárkeia epicurea occorre rinunciare a ciò che ci allontana dalla aurea mediocritas,a metà strada tra sapienza filosofica e disincantata ironia.
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Dum loquimur ,fugerit invida aetas: carpe diem,quam minimum credula poster .(Mentre parliamo sarà fuggito, inesorabile, il tempo: cogli l' attimo, il meno possibile fiduciosa in quello successivo.)
Il carpe diem è una "callida iunctura", (callida:ingegnosa iunctura,ae: unione)ossia la singolare giustapposizione di due termini, tecnica tipicamente oraziana. Dal punto di vista stilistico si compone grazie alle tecniche della brevitas: periodi concisi ed inseriti in una struttura semplice,che pone in rilievo al centro di alcuni versi le “massime” filosofiche che Leuconoe dovrebbe seguire.
Il Carpe Diem durante i secoli
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L’epicureismo, contrapposto allo stoicismo, vivrà ancora per secoli assumendo a volte connotazioni semplicistiche,fino a quando la civiltà latina non subirà un profondo mutamento antropologico: l’avvento del cristianesimo.Padre dell’Europa moderna, artefice e demiurgo della coscienza dei popoli mediterranei per i molti secoli del Medioevo, questo nuovo credo propone una visione della vita, un rapportarsi con essa, totalmente opposto all’ottica edonistica. Pentirsi della vita, pregare non per un domani migliore, ma per la vita eterna che ci attende una volta varcata la soglia nera della morte.Umanesimo e Rinascimento, invece, riscoprono e reinterpretano la filosofia epicurea: personaggi come Lorenzo de’ Medici, e in generale il clima che si respira nell’Italia delle corti, riprende quella raffinatezza e quel mecenatismo che erano tipici della cultura antica. Lorenzo De’ Medici, inoltre, è anche poeta e, come è noto, una delle sue poesie più note invita a godere dell’esistenza, in quanto «chi vuol esser lieto sia,di doman non c’è certezza». L’Epicureismo si mescola e diventa quasi sinonimo di edonismo.
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Anche nel Rinascimento maturo l’opulenza e la raffinatezza delle corti si manifestano in una serie di affreschi, di iconografie che ricordano l’età dell’oro, Bacco e Arianna, i banchetti spensierati di figure mitiche e antiche. Questo si può vedere a Palazzo Schifanoia a Ferrara oppure, in particolare, a Palazzo Te a Mantova, in cui viene rappresentata la giocosità, le maschere, il divertimento: nella sala di Amore e Psiche, per esempio, possiamo ammirare il banchetto degli dei, in cui vediamo Sileno afferrare un’anfora di vino, vediamo figure seminude, animali esotici, spensieratezza e gioia. Il richiamo propagandistico è evidente: la corte dei Gonzaga è una riedizione moderna dell’età dell’oro. La prosperità di quell’epoca è la prosperità del presente.
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La concezione del tema è diversa nella corrente letteraria e artistica del Barocco:la realtà qui è movimento, instabilità, labilità, metamorfosi continua. Il motto di Orazio diventa pertanto sinonimo dell'espressione tempus fugit e viene spesso utilizzato come esplicita spiegazione di nature morte, teschi e clessidre. Nel Settecento si torna a preferire la frivolezza della mondanità, precario ma felice antidoto allo spettro della morte; carpe diem diventa ora un invito all'amore, al corteggiamento galante, a godere di una bellezza effimera.Durante il romanticismo viene ripreso il tema della fugacità del tempo che porta pace ad una vita tormentata, placando l’animo. Carpe diem divenne il nome di un museo barocco a Lisbona.
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Nell’era contemporanea sono avvenuti così tanti sconvolgimenti, cambi di paradigma, di pensiero, che la filosofia antica ci appare lontana, e forse anche un po’ ingenua. Pasolini parlava di edonismo descrivendo la civiltà dei consumi: godere i piaceri concessi dalla vita è il nostro canto, ispirato da un materialismo non meglio definito, impostoci dalla realtà consumista che ci circonda, satura di possibilità da cogliere al momento.Nei secoli le diverse concezioni assumono di volta in volta nuove sfumature e colori ma rimanendo al contempo sempre le stesse e veicolando sempre lo stesso invito: afferrare il presente.
La concezione di Seneca riguardo al tema
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Lucio Anneo Seneca, filosofo stoico romano del I sec d.C,non concorda con Orazio.Seneca, nella sua grande produzione letteraria ed in particolare nel “De brevitate vitae”, passa in compendio il concetto del tempo. La prima cosa da considerare, secondo il filosofo, è che la durata della vita degli uomini sia sufficiente a condurre una vita piena. Il problema, invece, sussiste su come il tempo a disposizione venga speso.Il tempo, analogamente al denaro, può essere portato via in tre modi: per violenza, mancata accortezza e negligenza.L'ultimo è il più grave, perchè il non curarsi di ciò che riguarda noi stessi è il peggiore dei mali. Ciò è causato dalla poca importanza che l’uomo dà ad una delle più grandi ricchezze in suo possesso.
Seneca condanna chi programma la propria vita o chi rimanda il “possesso di sé” solo in età avanzata. Tutto questo per dedicare il proprio tempo agli altri. Senza rendersi conto che il tempo è il dono piú grato degli uomini che non può essere restituita.Seneca (con tono rabbiosamente satirico) mette in rassegna chi egli considera “occupati“. Ovvero, quelle persone che sono coinvolte in effimere attività. come la partecipazione ad oziosi banchetti, l’attenzione maniacale nei confronti della cura estetica e persino l’eccessiva erudizione storica riguardante avvenimenti meritevoli di essere dimenticati.
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LE EPISTOLE
Cosa sono?
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Le Epistole sono una raccolta di lettere fittizie scritte da Orazio. Furono pubblicate nel 20 a.C. e l'opera è suddivisa in due libri: il primo di 20 epistole e il secondo di 3 lunghi componimenti su questioni letterarie. È un'opera a sé stante l'Epistola ai Pisoni, chiamata Ars Poetica, comunque inserita nella raccolta. La poesia delle epistole è più intima, incline alla meditazione pacata e definitivamente depurata dall'invettiva satirica. I due componimenti del secondo libro sono indirizzati a personaggi importanti della Roma del tempo: il primo è indirizzato a Mecenate e tratta dell'evoluzione della storia della letteratura romana; il secondo invece a Giulio Floro e ritorna sui motivi che hanno condotto l'autore ad abbandonare la poesia spingendosi alla ricerca della saggezza, invitandolo a cercare il giusto mezzo tra l'avidità e la dissipazione e a ritirarsi dalla vita pubblica prima di diventare ridicolo.Al secondo libro viene spesso associata l'Ars Poetica, poiché Orazio disegna una sintesi teorica della natura, degli scopi e degli strumenti della poesia. Il terzo libro viene quindi indirizzato ai Pisoni. Considerato una dichiarazione poetica e un caposaldo alla stregua della poetica di Aristotele, afferma che la letteratura non deve solo intrattenere ma anche trasmettere valori. La poesia deve tenere un equilibrio formale e capacità di mescere utili dulci, cioè avere carattere paideutico e forma soave. Egli sottolinea l'importanza del labor limae e della callida iunctura, cioè l'accorta disposizione delle parole e l'accurata articolazione del periodo. Orazio dà suggerimenti su come ottenere un perfetto stile di scrittura e su come il poeta non debba mai spingersi al di là delle proprie capacità.
L'Ars poetica
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Si tratta di una corrispondenza epistolare che spesso si fa rientrare nel secondo libro delle Epistole, anche se di per sé non ne fa parte. Rappresenta un vero e proprio trattato sulla poesia, paragonabile, guardando nel passato, solo alla Poetica di Aristotele e nel quale Orazio disegna una sintesi teorica della natura, degli scopi e degli strumenti della poesia. Qui egli sosteneva la ripresa della poesia e del teatro arcaico, affermando il ruolo dei modelli greci, difendeva la poesia docta alessandrina e sottolineava l'importanza della callida iunctura e del labor limae. Le teorie contenute nell'Ars Poetica poggiano sul fondamento dell'aristotelismo così come era stato divulgato dagli scritti di Neottolemo di Pario; in particolare, Orazio ha ben presente il precetto aristotelico che vede la poesia come un organismo vivente. L'epistola ai Pisoni, dopo una sezione introduttiva, si occupava di questioni di ordine e di stile, contenutistiche e linguistiche: dà suggerimenti su come creare uno stileperfetto e spiega come si debba sempre usare una lingua facile da capire. Infine, il poeta deve saper distribuire ogni particolare in modo appropriato e non deve mai spingersi troppo al di là delle proprie capacità. Segue il principio che l'arte deve unire l'utile al dilettevole, dove per comporre una poesia è necessaria sia la genialità dell'ispirazione e sia l'ars, per elaborare un componimento in perfetto stile.
Gratias omnibus!