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Nicastro

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Nicastro

Cartina fisica

Si trova nella zona nord della Piana di Sant'Eufemia e vi passano i torrenti Canne e Piazza, dette fiumare. I torrenti intorno all'area sono occupati da piantagioni di uliveti e dall'area industriale lametina. Il centro storico, San Teodoro adagiato su un poggio in cima al quale si conservano i ruderi del castello Normanno-Svevo è caratteristico per le strette viuzze. Nicastro è classificata nella Classificazione Sismica Italiana con il livello 1: sismicità alta. Infatti a partire dal 27 ottobre 1638, la città fu rasa al suolo e un quinto della popolazione rimase uccisa.

Le origini

La nascita di Nicastro risale al dominio bizantino, intorno all’IX secolo. L'archeologo francese François Lenormant afferma: "già esisteva nell'VIII secolo". Nel 1057, i Normanni conquistarono Nicastro sotto la guida di Roberto il Guiscardo, che stava marciando verso Reggio Calabria per conquistarla. Dopo la sconfitta del Guiscardo a Reggio, la guerra tra lui e suo fratello minore Ruggero e la successiva carestia, Nicastro fu teatro di una delle rivolte dei calabresi contro i conquistatori normanni nel 1059: i nicastresi assediarono il castello uccidendo i soldati normanni lasciati di guardia. Le rivolte furono successivamente sedate e dopo il Concordato di Melfi, nel 1059, proseguì la latinizzazione del rito religioso in tutta la Calabria. Nicastro fu latinizzata nel 1094 grazie all'elezione di un vescovo normanno.

Il Castello

Sempre al dominio normanno risale la fondazione della Cattedrale di Nicastro nel 1100 da parte della nipote del Guiscardo: la contessa Eremburga. Dopo l'unificazione degli svevi e dei normanni, con il matrimonio tra Enrico VI di Svevia e Costanza d'Altavilla, Nicastro, come tutta l'Italia meridionale, passa a Federico II di Svevia. L'imperatore apprezzava molto la zona di caccia nel Bosco di Carrà, oggi parte della città di Lamezia Terme, e fu lui a ristrutturare il castello di Nicastro, conosciuto oggi come il Castello Normanno-Svevo, che nel 1239 divenne una delle sedi del Tesoro di Stato. Nello stesso castello, Federico II fece rinchiudere suo figlio Enrico dopo che questi aveva congiurato contro il padre per ben due volte. Enrico morì nella fortezza dopo due anni di prigionia.

La sua fondazione avvenne contemporaneamente a quella dell'Abbazia benedettina di S. Maria di Sant'Eufemia. Roberto il Guiscardo fece dei due edifici il simbolo del suo potere politico ed economico e si servi di essi per attuare il controllo e la latinizzazione del territorio. Il castello continuò ad avere un ruolo egemone anche sotto gli Svevi: Federico II lo sottrasse alla giurisdizione dei monaci benedettini, assieme all'abitato più antico circostante, e lo trasformò in un castrum exemptum, ossia in una fortificazione posta sotto il controllo diretto della Corona dove si custodivano le entrate demaniali del Regno. Ma lo attrezzò anche come propria residenza per tutte le volte che soggiornò nel territorio, dove possedeva un grande fondo nell'area del Carrà in cui aveva fatto impiantare colture pregiate e in cui si pensa praticasse la caccia col falcone. Nelle stanze del castello tra il 1240 e il 1242, tenne rinchiuso il figlio ribelle Enrico (VII). Con la dominazione angioina, dal 1231 al 1268 la fortezza ritornò a far parte dei possedimenti dell'Abbazia di Sant'Eufemia. Nel 1419 insieme alla Contea di Nicastro fu concessa a feudatari locali, prima ai Caracciolo (1420-1607) e poi ai D'Aquino (1607-1799). Danneggiato dal terremoto del 1638, fu usato come prigione fino al 1783, quando una nuova scossa tellurica ne segnò il definitivo abbandono.

Con la dominazione angioina, dal 1231 al 1268 la fortezza ritornò a far parte dei possedimenti dell'Abbazia di Sant'Eufemia. Nel 1419 insieme alla Contea di Nicastro fu concessa a feudatari locali, prima ai Caracciolo (1420-1607) e poi ai D'Aquino (1607-1799). Danneggiato dal terremoto del 1638, fu usato come prigione fino al 1783, quando una nuova scossa tellurica ne segnò il definitivo abbandono. Alla prima fase normanna sono riconducibili il donjon (torre) quadrato localizzato nella parte più alta della rupe, la vicina cortina muraria e una cisterna. Le modifiche più evidenti e sostanziali avvennero soprattutto nel periodo svevo, quando il castello si arricchì di una nuova cinta muraria, di un donjon esagonale e di alcune torri circolari. Inoltre, tra due torri subcircolari della facciata fu collocata l'entrata a saracinesca che conduceva all'interno del castello e, in una sul lato sud-est, fu costruito un passaggio segreto che permetteva la fuga in caso di necessità. All'interno fu realizzata una sontuosa ala residenziale su due piani come dimostrano i pilastri centrali. Durante il periodo angioino, Carlo I esegui lavori di ristrutturazione resi evidenti nell'impiego di una diversa tecnica muraria che alla pietra sostituisce il mattone. All'epoca aragonese e viceregnale si riconduce la costruzione di solidi bastioni, di feritoie e bertesche che denotano un nuovo sistema di difesa basato sulle armi da fuoco. I numerosi reperti, per lo più materiale ceramico, ritrovati nel castello nel corso delle diverse campagne di scavo sono conservati all'interno del Museo Archeologico Lametino.

Chiesa della Veterana

La fondazione della chiesa della Veterana è legata ad un'antica leggenda, secondo la quale la Madonna delle Grazie apparve in sogno ad una figlia di Federico II e le chiese di far costruire una chiesetta sul colle di fronte al castello. La chiesa sorge, infatti, su uno sperone roccioso che domina dall'alto l'intero centro storico della città. Il nucleo di case cresciuto a lato di essa ha dato vita nel tempo al rione di Casalinuovo. È intitolata alla Madonna delle Grazie, in quanto originariamente sede dell'omonima Confraternita, ma viene denominata Veterana perché è anche la chiesa più antica del sottostante quartiere di S. Teodoro. Anche essa fu parzialmente distrutta dal terremoto del 1638. Ricostruita con materiale scadente, ha subito il crollo di alcune parti strutturali,

Nel 1961 fu dichiarata pericolante e chiusa al culto sino al 1963, quando furono intrapresi nuovi lavori di consolidamento e restauro. Proprio in quell'occasione fu smantellato l'altare settecentesco, sul quale era collocata una pala lignea che raffigurava la Madonna con Bambino fra S. Stefano e S. Luca, ora al Museo Diocesano. La chiesa è caratterizzata da una semplice facciata con timpano triangolare e portale d'ingresso sormontato da finestrella rettangolare. Sul lato destro sorge il romitorio, nel quale sino al 1545 dimorarono i Padri Cappuccini. L'interno, composto da un'unica aula, è stato completamente manomesso nel corso dei secoli; dell'antica decorazione è rimasto solo un frammento di affresco sotto un'arcata della parete sinistra. La chiesa custodiva un dipinto ad olio della Madonna di Costantinopoli fra i Ss. Domenica ed Eligio, opera di Francesco Colelli, ora al Museo Diocesano, che riproduceva un affresco medievale nella nicchia destra della navata non più visibile. Custodiva anche una piccola tela con La Madonna delle Grazie con la principessa normanna. Oggi nella chiesa è possibile vedere un quadro realizzato nel 1968 dal nicastrese Giorgio Pinna che riproduce la Deposizione della Croce del Colelli, un tempo in loco e poi trafugata nel 1960. La Madonna delle Grazie viene anche chiamata dai lametini Madonna "di' Cucchiarelli", dalla forma (piccoli cucchiai) assunta per consunzione dei sigilli papali apposti alla Bolla pontificia contenente le indulgenze concesse da Paolo III nel 1542 a chi visitasse la chiesa in cinque festività religiose, ed esposta alla venerazione dei fedeli nella Domenica di Pasqua. L'antica tradizione si conserva nella visita alla chiesa nel giorno di Pasqua.

Cattedrale dei S. Pietro e Paolo

L'attuale cattedrale fu eretta ex novo dal vescovo Tommaso Perrone tra il 1640 e il 1642, essendo andata totalmente distrutta nel terremoto del 1638 quella fatta costruire nel 1100 dalla principessa normanna Eremburga, nipote di Roberto il Guiscardo, forse sulle rovine dell'antica chiesa bizantina di Nicastro. A causa degli interventi per lo più resi necessari dai danni strutturali provocati da ricorrenti eventi naturali, la cattedrale poco mantiene della originaria fisionomia seicentesca. Tra il 1825 ed il 1854, infatti, il vescovo Berlingieri rifece totalmente parte della cattedrale, mentre tra il 1888 ed il 1902 il vescovo Valensise rinnovò la facciata. Nei primi decenni del XX secolo il vescovo Giambro fece riedificare la monumentale cupola e modificò la facciata facendo eliminare il rosone e la scenografica scalinata a ventaglio. Fu lui a conferire alla cattedrale lo stile neo-classico che la contraddistingue ancora oggi.

La facciata principale è suddivisa in tre settori: quello centrale ha terminazione a timpano ed è decorato dallo stemma di Mons. Giambro.Quelli laterali, invece, terminano con un alto basamento su cui sono posti due grandi busti che raffigurano pontefici Marcello II e Innocenzo IX, che erano stati entrambi vescovi della diocesi di Nicastro. Entro due grandi nicchie sono, invece, i busti dei Santi Pietro e Paolo, titolari della struttura. Nel retro dell'edificio sono visibili l'enorme cupola con lanterna ottagonale e la seicentesca torre campanaria con una meridiana su un lato e un disco in pietra con numeri romani sull'altro.

L'interno, nonostante i vari rimaneggiamenti, ha in parte mantenuto l'antico impianto sei-settecentesco: pianta a croce latina con profondo transetto e navate laterali intervallate da pilastri che sorreggono archi a tutto sesto su cui poggiano le coperture a botte. In fondo alla navata di sinistra è collocata la Cappella del SS. Sacramento con altare in marmi policromi, opera tardosettecentesca di artigiani napoletani. Nella navata di destra, invece, è la Cappella del SS. Crocifisso con altare barocco in marmo verde di Calabria con le statue del Cristo in croce fra la Madonna Addolorata e Maria Maddalena.

Secondo la tradizione, il Crocifisso sarebbe stato recuperato dalle rovine della cattedrale normanna. A sinistra dell'ingresso, in una profonda nicchia, è alloggiato il grande fonte battesimale in marmo, con la vasca caratterizzata da gonfie baccellature e il coperchio ornato da fregi di ascendenza classicista, proveniente dalla cattedrale normanna. Sul catino della nicchia è un dipinto murale della Trinità di Francesco Colelli di Nicastro. Poco è rimasto dell'originario arredo interno e gli oggetti più importanti sono stati trasferiti nel Museo Diocesano. Sono conservati nel duomo i busti dei Ss. Pietro e Paolo in argento e rame sbalzato di manifattura napoletana, un pulpito e i confessionali lignei, i sedili presbiteriali e, infine, la cantoria di gusto barocco con organo a cassone intagliato e dorato. Si tratta di opere realizzate tra il XVIII-XIX secolo su commissione dei vari vescovi che hanno retto la diocesi.

Chiesa di S. Maria Maggiore

Dal 1240 il convento e la chiesa, in epoca normanna retti dai monaci basiliani, furono affidati da Federico II di Svevia ai frati di San Francesco d'Assisi. Nel 1462 i frati furono allontanati e i due edifici furono governati prima dai padri Osservanti e, a partire dal 1594, dai Riformati. Tutt'intorno s'era formato il quartiere di S. Francesco. Danneggiati dal terremoto del 1638, furono prontamente ricostruiti su impulso dei principi d'Aquino che proprio in quegli anni avevano iniziato a erigere nelle vicinanze il loro nuovo palazzo (l'attuale Palazzo De Medici). Il convento ha subito vicende alterne nel corso degli anni: confiscato e trasformato in quartiere generale delle truppe durante l'occupazione francese, fu poi adibito a dimora di alcune famiglie private e a caserma della gendarmeria. Il governo italiano nel 1862 ordinò la soppressione del monastero e nel 1867 lo concesse in uso al Comune che decise di affidarlo nuovamente ai Padri Riformati. Dal 1876 al 2015 è stato sede della locale Casa Circondariale. Dell'originaria configurazione architettonica sono rimasti solo il chiostro e le seicentesche decorazioni dell'ex refettorio. Quanto alla chiesa, nel 1877 fu destinata ad accogliere il parroco di S. Maria Maggiore di Terravecchia, resa inagibile dalle continue alluvioni del torrente Piazza, col la chiesa di San Francesco assunse come parrocchia la nuova denominazione.

Preceduta da un'ampia scalinata, la chiesa presenta una facciata tardobarocca sulla quale campeggiano un cinquecentesco portale in pietra sormontato da finestrone rettangolare e le eleganti decorazioni in stucco, un realizzate nella seconda metà del Settecento da maestranze locali vicine allo stuccatore Pietro Joele di Fiumefreddo Bruzio. L'interno, anch'esso di squisito gusto barocco, è formato da un'ampia navata centrale coperta da volte a botte con abside finale sormontata da cupola a tutto sesto. Sul lato destro, tre arcate introducono alla navata del crocifisso, così chiamata per il crocifisso in legno che sovrasta il raffinato altare in marmi policromi. Un ricco apparato decorativo in stucco investe sia il presbiterio che la volta della navata centrale, sulle quali sono poste entro riquadri due tele raffiguranti rispettivamente l'Immacolata e l'Estasi di San Francesco. I due dipinti, realizzati nell'Ottocento da Domenico Salvatore Palmieri, hanno celato i pre esistenti affreschi di Francesco Colelli. Dell'originario ciclo è visibile oggi solo il riquadro con la Visione di S. Antonio posto sulla volta in prossimità dell'ingresso. Dello stesso autore sono anche la Trinità dolente di ispirazione pretiana del presbiterio (ora conservata al Museo Diocesano e sostituita da uns riproduzione) e la Sacra conversazione raffigurata nella cona del primo altare della parete sinistra, così come i due affreschi presenti sui pilastri dell'ala del Crocifisso che rappresentano S. Chiara di Assisi e S. Margherita da Cortona. Di pregevole manifattura è l'altare maggiore in marmi policromi, su cui campeggia lo stemma dell'Ordine francescano sormontato da una croce. Meritano di essere menzionati, infine, alcuni simulacri in cartapesta, quali il Sacro Cuore di Gesù, l'Immacolata e l'Assunta; e varie statue in legno di epoca diversa, tra cui S. Anna, S. Rita e la Madonna del Carmine.

L'arrivo dei francesi

Dopo la caduta degli svevi, Nicastro viene conquistata dagli Angioini, sotto Carlo I d'Angiò. In questo periodo la città perse parte del suo splendore e si diffuse il brigantaggio da parte dei francesi. La conseguenza delle incursioni e dei saccheggi fu l'emigrazione di molti calabresi e nicastresi in Sicilia e Puglia. Nel 1444 si insediarono in Calabria gli Albanesi, che furono ben accolti dagli Aragonesi. Gli albanesi si insediarono in molte parti della Calabria e vicino a Nicastro fondarono Zangarona che diverrà parte del comune di Nicastro e dopo il 1968 del comune di Lamezia Terme.

L'arrivo di Tommaso Campanella

Nel 1598 durante il mese di luglio si imbarcò verso la Calabria il filosofo, teologo, poeta e frate domenicale italiano, Tommaso Campanella, si formò per tre anni nel Convento dell'Annunziata di Nicastro. In questa sezione bibliotecaria c’è il sogno di Tommaso Campanella, appuntato a mano tra le pagine di testi paolini.

Chiesa di San Teodoro

La chiesa di S. Teodoro sorge nell'omonimo quartiere nel cuore del centro storico di Nicastro. Non si conosce la data di fondazione, ma è attestata nei documenti a partire dal 1511. Distrutta dal terremoto del 1638, la chiesa fu prontamente ricostruita subito dopo, grazie al solerte aiuto degli abitanti del rione. Il sisma del 1783 le inflisse altri danni, ma anche in quell'occasione si procedette a nuovi lavori di ristrutturazione. L'edificio, infatti, fu ricostruito a spese della Cassa Sacra su progetto del regio ingegnere Claudio Rocchi e fu terminato nel 1792 con la decorazione plastica interna. La chiesa presenta una semplice facciata con timpano triangolare e portale sormontato da edicola rettangolare. L'interno è caratterizzato da una navata centrale coperta da volta a botte e accordata al presbiterio tramite un grande arco a tutto sesto sorretto da colonne ioniche. Al corpo centrale sono state successivamente affiancate due ali laterali, entro cui sono stati posti tre altari in marmo realizzati nel 1840 e dedicati all'Addolorata, a S. Francesco di Paola e al Cuore di Gesù. La volta e il presbiterio furono decorati nel corso del Settecento con rosoni e motivi ornamentali in stucco di ispirazione neoclassica. Alla stessa epoca sono riconducibili anche la statua in legno di S. Teodoro di manifattura napoletana, la tela con l'Addolorata e S. Ildefonso, il monumentale organo e una portellina del tabernacolo con Putti che reggono in volo la Croce e il sacro Pellicano. Di pregevole manifattura è l'altare maggiore di perfetto stile barocco. Sul lato destro dell'edificio si innalza il campanile, costruito con i materiali provenienti dalle rovine del vicino castello normanno-svevo. L'elemento che da allora lo contraddistingue è il grande orologio all'italiana, perfettamente funzionante, se caricato e aggiornato con regolarità.

Chiesa di S. Antonio

La chiesa di S. Maria degli Angeli, meglio conosciuta dai Lametini con il nome di S. Antonio, fu edificata a partire dal 1545 su una chiesa omonima preesistente dai Padri Cappuccini chiamati a Nicastro dal conte Ferdinando Caracciolo che li aveva provvisoriamente ospitati nell'edificio attiguo alla chiesa della Veterana. Anticamente composta da una sola navata, fu danneggiata dal terremoto del 1638, ricostruita e ampliata alla fine dell'800 con la costruzione di una seconda aula, nella quale fu collocata la Cappella dedicata a S. Antonio da Padova, dichiarato protettore della città nel 1746 in virtù della fortissima devozione popolare che ne contraddistingue da secoli il culto. L'edificio fu costruito seguendo le regole dell'ordine che prevedevano semplicità nella struttura e povertà negli arredi. La facciata esterna, oggetto di rifacimenti successivi, ha perduto l'austerità e la semplicità originarie. Il fronte è diviso in tre settori da coppie di lesene di ordine diverso ed è geometricamente scandito dai portali e dalle finestre che li sormontano. Il comparto centrale è antecedente al 1760, mentre le ali laterali sono state aggiunte in seguito

La chiesa custodisce opere di gran pregio artistico, come il monumentale ciborio ligneo posto sull'altare maggiore, creato nel 1742 dai frati cappuccini Ludovico da Pernocari e Padre Francesco da Chiaravalle. Sempre sull'altare maggiore è la tela della Madonna con Bambino fra i Ss. Francesco di Assisi e Innocenzo III eseguita nel 1754 da Fedele da San Biagio, cappuccino siciliano, pittore della cerchia di Sebastiano Conca. Nella parte destra del presbiterio è un affresco che riproduce il Miracolo di S. Antonio commissionato nel 1703 da Lupo D'Ippolito, nobile e sindaco di Nicastro. Pregevoli anche gli altari in legno in stile barocco risalenti al primo '700 e un grande dipinto dell'Immacolata di Andrea Cefaly, collocato sul portale d'ingresso della navata laterale. Nella Cappella di S. Antonio è conservata una tela raffigurante il Santo e storie della sua vita, detta anche Quadro Divino, che si ritiene dipinta nel 1644 dal pittore romano Giacomo Stefanoni.

Sul soffitto dello stesso vano nel 1909 sono stati realizzati quattro dipinti murali dal pittore Allegro Litterio di Reggio Calabria. Nella cappella è custodita anche la seicentesca statua del Santo di manifattura napoletana che viene annualmente portata in processione per le vie del paese. Il convento adiacente e coevo della chiesa fu gravemente danneggiato dal terremoto del 1638 e poi ricostruito. Soppresso una prima volta nel 1809 dal governo francese e poi nel 1862 dallo Stato Unitario, nel 1867 il monastero con l'attigua chiesa fu assegnato al Comune di Nicastro, che consenti ai frati di continuare a dimorarvi. Dell'antica struttura rimangono oggi solo il chiostro e il generale impianto della planimetria. L'interno è stato profondamente rimaneggiato per accogliere l'Ospedale Civile. Il convento era fornito di una cospicua dotazione libraria di circa 1652 volumi, confluita alla fine dell'800 nella Biblioteca Comunale.

Palazzo delle monachelle

Il Palazzo, in origine di proprietà della famiglia Fagà, passato poi in eredità ai Nicotera Severisio, si trova su via Garibaldi "la strada principale [...] molto bella, fiancheggiata da alberi e ornata di graziosi palazzi" come la defini lo scrittore Dominique Vivant Denon, che visitò Nicastro nel 1778 e pubblicò queste annotazioni nel Voyage pittoresque ou Description des Royaumes de Naples et de Sicile dell'abate di Saint Non (1781). Tutta la via conserva palazzi fatti realizzare a partire dal XVI secolo dai notabili del luogo, anche se la maggior parte furono ampiamente rimaneggiati nei secoli successivi per riparare i danni delle ricorrenti alluvioni del torrente Canne. Il Palazzo Nicotera Severisio è un edificio di impianto seicentesco, le cui forme rivelano però le varie influenze culturali e artistiche che hanno interessato la zona nel corso dei secoli. Al piano terra e al primo piano, infatti, si possono riconoscere i caratteri stilistici del periodo tardo-medievale, mentre nel secondo, costruito successivamente, sono evidenti forme classicheggianti. La facciata principale ha un aspetto ordinato e rigoroso; le uniche decorazioni presenti sono delle paraste al primo piano, le cui linee proseguono al secondo caratterizzato anche da una serie di quadrature realizzate probabilmente nella prima metà del Settecento. Varie aperture scandiscono l'intera struttura facendole perdere quella monotonia cromatica conferitagli dalla originaria muratura in pietra granitica grigia.

Due cornicioni marcapiano lievemente aggettanti dividono il fronte in tre livelli e contribuiscono a sottolineare il carattere fortemente simmetrico e orizzontale dell'intera struttura. Al centro spicca un semplice portale a bugne lisce che lo rivelano anteriore alla fase di decorazione della facciata. Il recente restauro ha conservato intatto il composito prospetto. Il palazzo è comunemente detto "palazzo delle Monachelle" perché tra la fine del XIX e la prima metà del XX secolo ha ospitato un orfanotrofio femminile retto dalla Congregazione di suore dell'Ordine delle Figlie della Carità del Preziosissimo Sangue. un varco con grata girevole nel quale le mamme indigenti lasciavano i propri bambini. L'istituto svolse anche la funzione di educandato dove le fanciulle di buona famiglia seguivano corsi per imparare l'arte del ricamo. Al secondo piano per qualche tempo fu alloggiata la Pretura, poi trasferita nel 1903 in Palazzo Mancini, ubicato nell'odierna Piazza Ardito, e nel 1932 in Palazzo Nicotera Severisio di piazza Tommaso Campanella, ora sede della Biblioteca comunale.

Chiesa e Convento di S. Domenico

Già intitolata all'Annunziata, la chiesa nel 1506 fu concessa dal feudatario di Nicastro Marcantonio Caracciolo ai Padri Domenicani con l'impegno che trasformassero in un convento l'adiacente piccolo Ospedale dei Pellegrini. La chiesa, completata nel 1521 e danneggiata dal terremoto del 1638, fu sottoposta a continui interventi di restauro e terminata nel 1781 dai d'Aquino, nuovi signori della città, che la intitolarono a S. Domenico di Guzmán. Dopo la soppressione del convento, la chiesa fu affidata nel 1870 alla Confraternita del SS. Rosario. Nel 1967 fu elevata a parrocchia e concessa ai Padri Minimi. Presenta una facciata tardo barocca con finto porticato realizzata nel 1838 da Mastro Gregorio Segreto. Lo stemma dei d'Aquino sull'arco centrale è sormontato da un affresco con la Madonna del Rosario, attribuito da alcuni a Raffaele Palmieri, da altri al più noto Antonio Palmieri. L'interno è a navata unica con copertura a botte e presbiterio sormontato da cupola; si susseguono lungo i lati tre altari muniti di pale (a sinistra: Madonna del Carmine tra S. Teresa d'Avila e S. Giacinto, la Visione di S. Tommaso e la Madonna del Rosario; a destra: Martirio di S. Pietro da Verona, San Vincenzo Ferrer e Cristo infante tra Pontefici domenicani).

Numerosi sono gli stucchi a roçaille di stampo barocco realizzati a partire dal 1771 da Pietro Joele di Fiumefreddo Bruzio, autore tra l'altro, assieme a Giovanni e Antonino Frangipane, dei lavori di rifacimento dell'intera struttura. Sulla volta entro riquadri sono le raffigurazioni di S. Raimondo da Penafort, dell'Annunciazione, L'incontro tra i Ss. Domenico e Francesco d'Assisi e la Visione di S. Caterina da Siena. Autore dell'intero ciclo pittorico, dedicato alla Difesa della Fede, è il nicastrese Francesco Colelli, al quale vanno anche attribuite la decorazione del coro con la Madonna patrona dell'Ordine dei Domenicani, le immagini di S. Gregorio Magno, S Ambrogio, S. Agostino, S. Girolamo e quelle dei Quattro Evangelisti nei pennacchi della cupola, e dell'Eterno Padre nell'invaso della calotta. Sua è anche la tela con San Domenico e la prova del fuoco sull'altare maggiore in marmi policromi, realizzato nel 1827 da Domenico Segreti di Fiumefreddo Bruzio, ancora in stile barocco; le due grandi pitture murali ai lati, raffiguranti l'Assunzione della Vergine e la Trasfigurazione di Gesù, erano state eseguite nel XIX secolo rispettivamente dai locali Domenico Salvatore Palmieri e Giuseppe Palmieri. La cripta, destinata alla sepoltura dei frati, fu utilizzata anche come sepoltura dei Caracciolo, il cui stemma campeggia sul soffitto. Di particolare interesse è un cinquecentesco affresco sulla parete di fondo: un Cristo Passo, antica iconografia riferita alla Resurrezione e all'Eucaristia, affiancato nei due settori laterali da due soldati, forse aggiunti in epoca più avanzata.

Sul lato sinistro della chiesa sorge il convento dei Domenicani, realizzato anch'esso tra il 1506 e il 1521 grazie alla munificenza dei Caracciolo. Tra il 1586 e il 1588 ospitò il giovanissimo Tommaso Campanella che nella cospicua Biblioteca dei Domenicani approfondì i suoi studi di teologia e filosofia. Vi ritornò nel 1598, quando rimase coinvolto assieme all'amico Priore Dionisio Ponzio in una congiura contro il dominio spagnolo, ferocemente repressa. Il violento terremoto del 1638 inflisse notevoli danni anche al convento che fu ricostruito su impulso dei principi d'Aquino. Soppresso nel 1784 e nel 1808, il convento fu incamerato dallo Stato italiano nel 1862 e poi donato al Comune di Nicastro, che lo destinò a usi pubblici diversi: fu sede del Ginnasio-Convitto, del distretto militare, della Biblioteca Comunale, del Liceo Ginnasio Francesco Fiorentino. Recentemente restaurato, è diventato il polo principale delle attività culturali cittadine e ospita al primo piano il Museo archeologico. In una sala sono stati parzialmente recuperati due affreschi di Giorgio Pinna, datati 1912 e 1934.

Museo Archeologico Lametino

Il Museo archeologico lametino è ubicato al primo piano del Complesso Monumentale di San Domenico nell'antico convento dei Padri Domenicani. Il Museo, che accoglie numerosi reperti rinvenuti in diversi siti della piana lametina, è organizzato in tre sezioni. Il percorso di visita inizia con la sezione preistorica rappresentata soprattutto dai materiali (choppers e industria litica) recuperati nella stazione paleolitica di Casella di Maida, individuata da Dario Leone. Una serie di strumenti in ossidiana (pietra lavica proveniente dalle isole Eolie) e vari frammenti di contenitori di argilla appartengono, invece, al Neolitico. Chiude la sezione una proposta di archeologia sperimentale che ripropone ipotesi di tecnologie, strumenti e realizzazione dei vasi per il Neolitico. La prima sala della sezione classica, ad eccezione di alcuni corredi di sepolture rinvenuti nella località Germaneto, nei pressi dell'attuale Cittadella Regionale, introduce a Terina, la colonia greca fondata tra la fine del VI e gli inizi del V secolo a.C. dai Crotoniati. Qui sono esposti i tre tesoretti monetali che sintetizzano la storia dei rapporti politici ed economici che hanno interessato la piana lametina.

In particolare il primo è un gruzzolo di monete incuse recuperate in località Polveracchio di Acquafredda, importante perché è il più antico tesoretto ritrovato in Magna Grecia e perché indica che alla fine del VI sec. a.C. la piana era sotto l'influenza di Sibari e che questa aveva rapporti commerciali con comunità indigene, come testimonia la presenza di un panetto d'argento compreso nel gruzzolo. Il secondo, ritrovato in località Serrone, apre una nuova prospettiva politica per il territorio della piana agli inizi del V sec. a.C. Ora è Crotone ad avere l'egemonia sulla piana dove ha fondatalo città di Terina, ampiamente rappresentata nelle monete del terzo gruzzolo recuperato a Sant'Eufemia Vetere in località Bosco Amatello. In questa sala sono presentati anche due importanti documenti epigrafici in bronzo riferibili alla città di Terina: uno databile ai primi decenni del V sec. o.C conferma la filiazione di Terina da parte di Crotone, menzionando una carica magistratuale presente nella città madre, l'altro di IV sec. a.C., un testamento, offre uno spaccato della società terinea. Proviene da una delle necropoli della città di Terina, localizzabile nel territorio di Gizzeria, una splendida hydria (contenitore per l'acqua) a figure rosse con scene di toeletta nuziale, databile tra il 380 e il 370 a.C.

Nella seconda sala sono esposti oggetti provenienti dal territorio (chora) e dalle aree intorno a Sant'Eufemia Vetere. Si tratta in particolare di oggetti di uso comune attestanti le diverse attività maschili e femminili che si realizzavano all'interno della casa (oikos). Tra i materiali di età greca spiccano due sepolture, una in pietra e l'altra in laterizi, riferibili ad una necropoli individuata in località San Sidero nell'area di Sant'Eufemia Vetere. Degno di nota è anche un chiodo in bronzo con iscrizione recuperato a Capo Suvero. La sezione, che non manca di riferire del tesoro di Sant'Eufemia ritrovato nel 1865 e oggi esposto al British Museum, si conclude con alcuni reperti di età romana provenienti da diversi siti del territorio.

La sezione medievale presenta tre importanti monumenti del Lametino: la Chiesetta dei Ss. Quaranta di Caronte, l'Abbazia benedettina di Sant'Eufemia e il castello normanno-svevo di Nicastro. Dalla prima, di cui sono attestate due fasi costruttive, provengono una bottiglia in vetro di VI-VII secolo, una croce reliquario di IX secolo, oggetti ritrovati in una sepoltura alto- medievale e alcune monete di età angioina. Provengono dall'Abbazia benedettina alcuni elementi architettonici in marmo e pietra, frammenti di intonaco dipinto (XIV-XVII secolo) e parti di pavimentazione che appartengono al bellissimo mosaico rinvenuto nell'area presbiteriale. La lunga storia del castello di Nicastro, che va dalla fase normanna a quella viceregnale, infine, può cogliersi attraverso gli oggetti e gli elementi architettonici che attestano i momenti di maggiore splendore del monumento.

Nicastro nei regni

La città, come tutta la Calabria, passò in mano agli austriaci durante la Guerra di successione spagnola, iniziata con la morte di Carlo II di Spagna e finita con i trattati di Utrecht che diedero ufficialmente la Calabria agli Asburgo. Dopo la guerra di successione polacca, il Regno delle Due Sicilie, di cui faceva parte anche la Calabria, passò in mano ai Borboni e così anche Nicastro.

Francesco Colelli

E' stato un insigne pittore nicastrese del XVII secolo e purtroppo di lui si hanno notizie vaghe. È stato autore di numerose opere di grande interesse e valore artistico e di affreschi conservati in alcune Parrocchie di Nicastro. Notevole una Deposizione della Croce nella Chiesa della Veterana, inventariata dall'Intendenza ai Monumenti ed alle Belle Arti di Cosenza, trafugata da ignoti ladri durante la notte del 27 febbraio 1960. Al Colelli viene anche attribuita una pala d'altare che rappresenta la Cena del Signore, datata 1762 e posta all'interno della Cattedrale.

Chiesa di S. Caterina d'Alessandria

Si ignora la data di fondazione della chiesa di Santa Caterina di Alessandria, probabilmente costruita sul pregresso Oratorio di Santa Caterina delle Grotte. L'edificio fu sede della Confraternita dell'Immacolata e fu ampliato alla fine del XVI secolo con l'aggiunta di due cappelle laterali. Notevolmente danneggiata dal terremoto del 1638, la chiesa fu sottoposta a rifacimento e restauro sino alla metà del '700, quando, sotto la direzione di Antonino Frangipane, furono costruite la volta e la cupola interna. Nel 1809 durante il domino francese fu utilizzata come caserma per le truppe. I Borbone la restituirono in seguito alla Confraternita dell'Immacolata che la restaurò e la riapri al culto. La facciata, di gusto neoclassico, fu ristrutturata nei primi dell'Ottocento contemporaneamente all'edificazione del campanile destro che fu innalzato per equilibrare quello sinistro già esistente

L'interno è composto da un'unica navata con presbiterio a terminazione rettilinea, in prossimità del quale si aprono due cappelle absidate. Il tutto è abbellito da un ricco apparato decorativo in stucco realizzato a partire probabilmente dal 1766 da Pietro Joele di Fiumefreddo Bruzio, attivo anche nella chiesa di San Domenico a Nicastro. Completano la decorazione dell'aula una serie di dipinti di Francesco Colelli risalenti alla seconda metà del XVIII secolo che raffigurano sulla volta, a partire dalla contro-facciata in direzione dell'altare, La presentazione di Gesu al tempio, L'Immacolata e La presentazione di Maria a tempio. Nei pennacchi della cupola, invece, sono poste l immagini di S. Marco e S. Matteo. Di pregevole manifattura locale sono le statue lignee di S dis Caterina d'Alessandria del XIX secolo e le due dell'Immacolata, rispettivamente del XVII e del XIX secolo.

Chiesa dei S. Nicolò e Lucia

La chiesa di S. Lucia è ubicata alla fine di via Garibaldi, nell'omonimo quartiere del centro storico di Nicastro. Non si conosce la data di fondazione dell'edificio. I più antichi registri parrocchiali risalgono alla fine del '600, ma della documentazione anteriore al terremoto del 1638 pressoché nulla si è conservato nell'intera città. Si ritiene che fosse tra le più antiche di Nicastro, elevata a parrocchia durante il XIV secolo assieme alla chiesa di S. Teodoro e a quella di S. Maria Maggiore. Verso il 1590 beneficiò di un intervento di ricostruzione ad opera del vescovo Bontadosio. Danneggiata dal terremoto del 1783, la sua ricostruzione fu curata dall'ingegnere Claudio Rocchi, attivo nello stesso periodo nella vicina chiesa di San Teodoro. Da un documento del 1784 risulta originariamente intitolata a due santi, S. Nicolò de Caccuri e S. Lucia, ma si venerava anche S. Maria del Soccorso. Nel 1838 il vescovo Nicola Berlingeri ne promosse l'ampliamento. La chiesa presenta una facciata semplice e lineare scandita verticalmente da una serie di lesene. L'unico elemento di spicco è il portale incorniciato da due colonne che poggiano su piedistallo, e sormontato da un tondo con al centro una croce in ferro. Sul lato sinistro si erge in alto un piccolo campanile. L'interno è ad un'unica navata accordata al presbiterio da un arco trionfale privo di elementi decorativi. Degno di nota è l'altare in marmo policromi sul quale è collocata una edicola sorretta da colonne con capitello corinzio che racchiude una settecentesca statua lignea di S. Lucia. Negli anni '60 del 1900, la chiesa di S. Lucia è stata interessata da interventi di restauro e ammodernamento, durante i quali è stata in parte spogliata del suo originario arredo liturgico. Facevano parte dell'antico corredo religioso una preziosa pisside del 1725 e un ottocentesco calice in argento di manifattura napoletana, ora custoditi al Museo Diocesano.

Il 1700 un secolo disastroso

Il '700 è un secolo scandito da catastrofi naturali. Il 10 dicembre del 1782 si verificò una alluvione del Torrente Piazza che spazzò via interi quartieri. Il disastro successivo si verificò dopo pochi mesi, nel 1783 con due serie di scosse: una tra il 5 e il 7 febbraio e una seconda il 28 marzo. Queste colpirono la Calabria Ulteriore e la Sicilia; Nicastro fu uno dei centri abitati con il minor numero di vittime ma ebbe molti danni agli edifici. Questi ulteriori terremoti nel periodo dell'Illuminismo fecero della Calabria, prima ignorata, una destinazione di molti geologi e sismologi che vennero a studiarne i fenomeni.

Nicastro distrutta dal terremoto del 1783

Chiesa di S. Agazio

La chiesa di S. Agazio al Timpone sorge nell'omonimo quartiere del centro storico di Nicastro, delimitato dai torrenti Canne e Niola, alla quale si accede da via Garibaldi attraverso un arco chiamato "vaglio". L'edificio fu costruito agli inizi del XVIII secolo su commissione e per devozione di D. Antonio Vicino, il quale, dopo la morte, ne lasciò la proprietà a Mons. Angeletti. Fino al 1838 fu filiale della Cattedrale, per poi passare alla parrocchia di S. Nicola e S. Lucia. Più volte rimaneggiata nel corso dei secoli, presenta una semplice facciata scandita da quattro lesene di ordine ionico con al centro, sul portone d'ingresso, una bucatura trilobata a forma di rosone. In posizione opposta al fronte principale sorge il campanile, la cui vista è possibile soltanto lateralmente e dalle colline del versante settentrionale della città. L'interno è ad un'unica navata con presbiterio coperto da una volta a crociera ribassata, al centro del quale entro una cornice quadrilobata è posto un dipinto che raffigura l'Assunzione della Vergine. Sono di pregevole manifattura l'altare in stucchi tardo- settecenteschi e una pala ottocentesca con Madonna e Bambino tra i Ss. Agazio e Antonio. Il recente intervento di restauro, compiuti dalla professoressa De Fazio del Liceo Artistico di Lamezia Terme, ha interessato la copertura, la pavimentazione interna e le facciate esterne, ha lasciato intenzionalmente a vista tutte le fasi di edificazione e trasformazione.

Palazzo Nicotera

Il Palazzo è ubicato nella Piazzetta Tommaso Campanella, in posizione d'angolo rispetto a piazza Mercato Vecchio, luogo deputato sin dall'epoca medievale all'attività commerciale e sede originaria delle mense ponderarie ora custodite nel Museo archeologico. L'edificio fu costruito verso la metà del XVIII secolo da Domenico Nicotera del ramo Nicotera Sasso di Martirano e fu poi ereditato intorno al 1850 dalla famiglia Nicotera Severisio. Utilizzato come Tribunale nel corso del '900, fu lasciato in eredità ai Padri Cappuccini, dai quali negli anni Novanta è stato acquistato dal Comune di Lamezia Terme. Anche questo palazzo costituisce un'importante testimonianza di architettura aulica sette-ottocentesca calabrese e al contempo riflette il gusto delle famiglie più ragguardevoli della città che, a partire dalla seconda metà del Settecento, sull'esempio del rinnovamento edilizio in atto nei grandi centri italiani, si fecero costruire nuove ed eleganti abitazioni destinate a mostrare il prestigio e la raffinatezza del proprio casato. L'edificio si sviluppa su tre livelli e ha una struttura massiccia e compatta, nobilitata da delicati elementi decorativi, opera di maestranze abili e raffinate. La facciata principale è caratterizzata dal monumentale portale in pietra a bugne e rosette stilizzate, sul quale spicca lo stemma della famiglia Nicotera Sasso. In alto è un grande balcone con ringhiera in ferro battuto sorretto da preziosi ornamenti.

Attraverso il portale si accede all'androne d'ingresso coperto da volta affrescata che a sua volta introduce ad un cortile interno che agli inizi del XX secolo confinava con l'Orto dell'ex Convento dei Domenicani. Una bellissima scalinata in marmo, interamente rivestita da stucchi a cassettoni sul soffitto e da grandi lastroni di pietra grigia sulle pareti, conduce al piano nobile, il quale ha in parte mantenuto l'originaria distribuzione degli ambienti interni. Il primo salone presenta il soffitto interamente rivestito da un grande dipinto su carta risalente a fine '800 inizi '900. Sulla scia delle grandi volte affrescate nei più importanti palazzi italiani coevi, l'ignoto autore (di cui il recente restauro non ha rintracciato la firma), ha raffigurato l'Aurora sul cocchio e una complessa allegoria che allude alle principali invenzioni del secolo e inneggia al progresso e all'avvento dei tempi moderni. Le tracce degli affreschi che decoravano altre sale del piano nobile rimandano alla "scuola di Cortale" di Andrea Cefaly, che annoverava diversi allievi nel Lametino.

Casa del libro antico

Allinterno di Palazzo Nicotera si trova ora anche la Casa del Libro Antico, la sezione storica della Biblioteca Comunale. ln essa si conserva il nucleo principale della collezione libraria e documentale ottocentesca, proveniente dai conventi dei Cappuccini e dei Domenicani di Nicastro. In particolare dalla ben fornita biblioteca di questi ultimi provengono i testi con le annotazioni a margine apposte di proprio pugno da Tommaso Campanella, che vi soggiornò sul finire del XVI secolo e coltivo gli studi di logica aristotelica. La struttura custodisce alcune opere manoscritte che abbracciano un arco temporale molto lungo, dal XVI al XIX secolo, frammenti di codici manoscritti greci (probabilmente dell'XI secolo) e latini (XIV-XV secolo) e una serie di importanti testimonianze archivistiche. Inoltre, vi si trovano oltre 2.500 libri stampati dal Cinquecento in poi dai celebri torchi di Manuzio, Giunta, Gioito, Froben e Plantin nei vari centri italiani (Venezia, Roma, Napoli) ed europei (Lione, Anversa, Parigi) ove fiorì l'arte tipografica. Il fondo antico è prevalentemente costituito da opere di teologia, filosofia, patrologia, storia ecclesiastica ed esegesi, insieme a raccolte di omelie, di vite dei santi, di testi sacri e di bolle pontificie.

Carta geografica del mondo di Fra Mauro del 1459

RIPRODUZIONI PRESENTI NELLA BIBLIOTECA

Palazzo d'Ippolito

L'edificio di grande pregio è ubicato in contrada S. Francesco quasi di fronte alla grande gradinata di accesso alla chiesa parrocchiale attuale di S. Maria Maggiore. Esso è il risultato dell'accorpamento di strutture precedenti avvenuto dopo il 1763. Strumenti notarili di quell'anno attestano che Felice d'Ippolito, erede di un patrimonio cospicuo, per rinnovare l'abitazione aveva affidato i lavori di progettazione ad Antonino Frangipane, esponente della nota famiglia di mastri stuccatori e "architetti" di Pizzo, ma l'originalità decorativa messa in campo ha fatto ipotizzare la collaborazione dello stuccatore Pietro Joele di Fiumefreddo, in quanto entrambi erano attivi a Nicastro a quel tempo nelle vicine chiese di S. Domenico e di S. Caterina d'Alessandria. La costruzione del palazzo sancisce il prestigio della famiglia d'Ippolito che sin dagli inizi del Settecento con Lupo d'Ippolito, sindaco dei nobili della città, si era via via consolidato attraverso matrimoni prestigiosi e cariche e ruoli di corte importanti che furono premiati col titolo di Marchese. Il palazzo emerge e si distingue all'interno del contesto urbano in cui è inserito per il suo monumentale impianto volumetrico e per la raffinata ed elegante decorazione in stucco che investe il fronte principale. La facciata scenografica rivolta ad est, che costituisce la principale quinta della strada, divisa in due da un cornicione marcapiano, presenta nel livello inferiore un enorme e sontuoso portale in pietra con al centro lo stemma della famiglia e lesene con capitello corinzio ai lati. Il piano nobile, invece, è ritmicamente scandito da una serie di aperture incorniciate da preziosi stucchi in stile rococò

Vincenzo d'Ippolito

Lungo il perimetro esterno dell'edificio corre un festone marmoreo di coronamento formato da delicate decorazioni fitomorfe che esaltano le foglie a conchiglia poste sui balconcini con ringhiera in ferro battuto a petto d'oca. Dall'androne centrale si accede, sulla sinistra, allo scalone che conduce al piano nobile e al giardino, in cui si entra da un arco ornamentale. Gli ambienti interni, sebbene rinnovati nell'Ottocento, mantengono in parte intatto il loro antico sfarzo, mentre il salone e l'annessa cappella gentilizia conservano gli arredi, la decorazione pittorica originale e la pavimentazione di particolare pregio in maiolica di manifattura Giustiniani a fondo ocra e disegni in nero. Dell'antica decorazione pittorica settecentesca rimane oggi sul soffitto dell'atrio un affresco con lo stemma araldico dei d'Ippolito e due putti in un ovale dell'arcone interno. Ne è quasi certamente autore il pittore nicastrese Francesco Colelli, amico della famiglia. A lui, infatti, nel 1761 i d'Ippolito avevano commissionato il dipinto dell'Ultima Cena per la Cappella del SS. Sacramento nella Cattedrale della città, ora perduto.

Chiesa S. Maria della Spina

La piccola chiesa di S. Maria della Spina, detta anche S. Maria la Bella, è ubicata nella parte più alta del quartiere che da essa prese appunto il nome di Bella, sorto in un fondo della mensa vescovile per dare asilo agli sfollati dell'antico abitato di Terravecchia, spazzato via dall’alluvione del torrente Piazza nel 1782. L'edificio, nonostante sia stato ampiamente rimaneggiato nel corso dei secoli, conserva il suo originario impianto medievale. Secondo una tradizione molto antica esso aveva tratto origine dal ritrovamento fortuito di un affresco della Vergine con Bambino sulla parete interna di un rudere nascosto sotto un fitto roveto: al contadino protagonista della casuale scoperta la Madonna stessa avrebbe espresso il desiderio che attorno alla sua immagine si costruisse un oratorio. Per la grande devozione tuttora viva verso questa Madonna miracolosa, nel 1994 la Chiesa della Spina è stata elevata al rango di Santuario mariano. Il pregevole affresco della Madonna in trono col Bambino, opera di un ignoto artista meridionale del '300, vi si conserva ancora. La pittura che è stata ingrandita lungo i bordi in età barocca, e restaurata di recente, rappresenta un'importante testimonianza della cultura artistica calabrese del XIV secolo. Ritenuta bizantina per qualche tratto iconografico , è in realtà di chiara tradizione occidentale.

La sericoltura

L'economia di Nicastro

Fino al XVIII secolo, a Nicastro e nei suoi dintorni la sericoltura era un'attività molto diffusa e prosperosa, tanto che ogni anno si producevano cinquemila libbre di seta greggia. Secondo la testimonianza dello storico illuminista Giuseppe Maria Galanti, alla fine del XVIII secolo, Nicastro era ancora un attivo centro serico in cui si praticava la coltivazione dei gelsi per l'allevamento dei bachi da seta, tuttavia la produzione era in declino.

Giuseppe Maria Galanti

Artigianato

Grazie agli affioramenti di argilla buona nella piana lametina, nelle zone di Dipodi e di Palazzo è rinominata la presenza di una terra fortemente ferrosa che cotta produce stoviglie infrangibili, già il catasto onciario del 1746 segnalava 10 pignatari e un ceramicaro su Nicastro, associando il paese ai maggiori centri produttivi di ceramiche come Squillace e Seminara. Le botteghe di pignatari e ceramisti si sviluppano, così, su tutto il territorio catanzarese avviandosi alla produzione di vasellame dal carattere quotidiano adatto alla popolazione contadina locale. Contemporaneamente si sviluppa anche un filone ad imitazione delle ceramiche di Faenza, questo però non influisce sulle forme originali tipiche del territorio: come nel caso della bumbula seminarese, meglio nota nel lametino come vozza, un recipiente biansato dal ventre panciuto, piede largo e stretta bocca orlata destinato al contenimento dei liquidi. Si parla, inoltre, non solo di prodotti destinati all’uso domestico, ma anche di oggetti ornamentali dal carattere decorativo: è il caso delle graste a piede alto e i puntali che ancora oggi adornano le facciate dei principali luoghi di culto del centro. Le botteghe restano attive fino agli anni Ottanta del Novecento con le famiglie Giampà, Fusto e Catanzaro che ne terminano il ciclo produttivo familiare. Tra le foto d’epoca che ancora circolano sui social qualcuno ricorda gli ampi mercati che prevedevano la vendita a terra del vasellame, in Piazza Sacchi. (‘U mercatu di vozzi). Di questa secolare storia restano gli echi di poche maestranze locali, che con passione e sacrificio continuano a lavorare in un settore apprezzato solo da veri intenditori, amatori che riescono a distinguere con accuratezza il valore di un pezzo, frutto dell’arte di un vero maestro rispetto alla produzione massiva industriale.

La battaglia di Maida

Nel 1806 la Calabria fu invasa dai francesi e come molti altri comuni, anche Nicastro fu vittima di saccheggi da parte degli invasori. Gli inglesi, alleati dei Borboni, spinsero la popolazione ad insorgere contro le truppe francesi. La sorte di Nicastro, che era un punto strategico e capoluogo del suo distretto, fu decisa

nella battaglia di Maida che vide vittoriosi gli inglesi ma non totalmente poiché i francesi erano ancora presenti in Calabria. Dopo la battaglia i briganti calabresi continuarono a lottare contro i francesi anche all'esterno della piana. La piana di Sant'Eufemia fu devastata sia dal brigantaggio, sia dal tentativo delle truppe francesi di contrastarlo. Intere famiglie furono spazzate via e anche solo un sospetto di simpatia verso il nemico scatenava uccisioni di militari e civili.

Pietro Ardito

Nacque a Nicastro nel 1833, sacerdote e letterato nicastrese. Compì gli studi superiori nel Seminario di Nicastro, dove rimase come insegnante dal 1854 al 1860). Si trasferì poi a Spoleto, città in cui rimase circa vent'anni per insegnare, prima all'Istituto Tecnico e poi al Ginnasio, Italiano e Storia. A Spoleto trovò Francesco Fiorentino, di Sambiase, che dal 1860 insegnava filosofia nel Liceo. Ritornò definitivamente a Nicastro nel 1882 e vi rimase come docente di Lettere e Direttore nel locale Ginnasio. Nel 1883, soprattutto per motivi familiari, rinunciò alla cattedra di Letteratura Italiana presso l'Università di Napoli. Morì a Nicastro nel 1889. Fondamentale per certi aspetti è la sua pubblicazione, Spigolature storiche sulla città di Nicastro, 1889.

La ricrescita

La fine dell'800 fu un momento di grandi opere tra cui la costruzione delle due stazioni ferroviarie di Nicastro e Sant'Eufemia, il rimboschimento nei pressi del Torrente Piazza per contrastare le alluvioni e la costruzione dell'acquedotto.

Guido D'Ippolito

Il Marchese Guido d'Ippolito dei marchesi di Sant'Ippolito nasce a Nicastro il 14 settembre 1894, è stato un pilota automobilistico italiano, considerato uno dei migliori specialisti di corse su strada della sua epoca e, probabilmente, assieme a Goffredo Zehender, il miglior pilota calabrese nel periodo fra le due guerre.Fece parte della prima Scuderia Ferrari creata da Enzo Ferrari con automobili Alfa Romeo. Ottenne un secondo posto assoluto alla 24 Ore di Spa del 1932, la gara nella quale sul cofano delle Alfa Romeo della Scuderia Ferrari comparve per la prima volta il "cavallino rampante", oltre a numerose vittorie ed ottimi piazzamenti in altri prestigiosi trofei dell'epoca, tra cui la Targa Florio (9º nel 1930 e 5º nel 1931), la Mille Miglia e la Coppa Sila. Morì durante il "I Giro delle Provincie Meridionali - I Coppa Principessa di Piemonte", una gara in linea di 787 km. Alla sua morte lasciò la moglie Antonietta ed i figli Enrico e Ninfa. A lui è intitolato lo stadio principale di Lamezia Terme ed una scuderia che opera nel campo dell'automobilismo d'epoca, la Scuderia Piloti Autostoriche Calabresi "Guido D'Ippolito".

Palazzo Niccoli

Palazzo Niccoli assunse la forma attuale alla fine del XIX secolo, quando fu ristrutturato il precedente impianto. Composto da tre livelli più un piccolo corpo rialzato al centro, è tripartito in maniera rigorosa e simmetrica dalle aperture presenti sul fronte principale, il quale, a sua volta si caratterizza per la decorazione pittorica a graffito che riveste il piano nobile. Qui i tre balconi, uno dei quali con balaustra formata da piccole colonnine, sono sormontati da frontoni triangolari e sono incorniciati da quattro figure femminili danzanti, a loro volta inserite in elementi decorativi a grottesche, motivi naturali e fantastici. Particolarmente interessante è la figura disegnata sul lato sinistro del balcone centrale, la quale, poiché ha in mano una cornucopia dalla quale fuoriescono fiori, probabilmente è la personificazione della Fortuna. Completamente spogli di orpelli ornamentali sono i due livelli inferiori. Unico elemento di spicco il grande portale centrale con voluta come chiave di volta.

Chiesa della Natività della Beata Vergine Maria

La chiesa, detta anche di S. Maria delle Grazie, sorge nella piazza centrale del quartiere di Bella, intorno alla quale si dispone l'intero abitato, con tipico impianto ortogonale di fine '700. I lavori furono avviati nel 1835, ma la chiesa ad unica navata fu aperta al culto nel 1852 ed elevata a parrocchia nel 1857. Nel 1867 si pose mano alla costruzione delle navate laterali, del campanile e della sacrestia. L'edificio presenta una facciata suddivisa in tre ordini e movimentata da due nicchie e da una serie di lesene. Corona tutta la superficie un grande timpano con volute laterali che lo accordano al livello inferiore. L'interno, con abside semicircolare, è suddiviso in tre navate separate da arcate a tutto sesto. Lungo la volta Centrale sono collocati, entro cornici polilobate, tre dipinti murali che, a partire dalla controfacciata in direzione dell'abside, rappresentano l'Annunciazione, la Visitazione e l'Apparizione della Vergine.Quest'ultimo dipinto, datato 1892, rievoca ed illustra la tradizione popolare della casuale scoperta dell'immagine della Madonna della Spina, venerata nell'altra e più antica chiesetta del luogo. Sull'abside, invece, è posta una statua lignea della Madonna delle Grazie che ogni anno l'8 Settembre viene portata in processione per le vie del quartiere.

L'emigrazione del '900

Nel XIX secolo, una forte stagione di emigrazione, come risposta a una forte crisi, fece del nicastrese il primo comprensorio della provincia di Catanzaro per numero di immigrati verso il Nord Italia. Un'altra forte ondata di emigrazione si ebbe a Nicastro dopo il secondo dopoguerra, quando fallirono sia i moti contadini, sia le occupazioni delle terre. Il 4 gennaio 1968 Nicastro si unì ai comuni di Sambiase e Sant'Eufemia Lamezia per costituire il comune di Lamezia Terme.

Vincenzo Mazzei

Nasce nel il 24 agosto 1913. Laureato in giurisprudenza e in scienze politiche, fu un giurista (effettuò vari studi anche su Carlo Pisacane). Nel 1946 venne eletto, in rappresentanza del Partito Repubblicano Italiano, come uno dei Deputati dell'Assemblea Costituente (Italia). Nel 1955, lasciato il suo partito di origine, era confluito nel Partito Socialista Italiano. È stato anche docente universitario a Roma È morto all'età di 97 anni nel dicembre del 2010.

https://www.icsaicstoria.it/dizionario/mazzei-vincenzo/

Armando Scarpino

Nato il 12 febbraio 1922 Armando Scarpino fù insegnante di lettere, impegnato in politica con il Partito Comunista Italiano, fu più volte consigliere comunale a Lamezia Terme e membro del Cda dell’ospedale cittadino. Nel 1963 divenne Senatore della Repubblica Italiana, rimanendo in carica fino al 1968. Venne poi eletto nuovamente a Palazzo Madama alle elezioni del 1972. Morì il 20 febbraio 1976, una settimana dopo aver compiuto 54 anni, da parlamentare in carica. Lo sostituì al Senato il collega Luigi Tropeano.

La proteina Nicastrina

La proteina Nicastrina, anche conosciuta come NCSTN, deriva il suo nome dal quartiere Nicastro, riflettendo il fatto che il morbo di Alzheimer fu descritto nel 1963 dopo aver studiato i discendenti di una estesa famiglia originaria di Nicastro che fu affetta largamente dal morbo. Alla Casa del Libro Antico sono infatti conservati cinque fascicoli contenenti certificati di nascita, matrimonio e morte appartenuti alla più antica parrocchia di Lamezia Terme, quella di San Teodoro, che si sono rivelati d'importanza fondamentale negli studi sul morbo di Alzheimer come strumento di ricerca e studio delle famiglie e dei loro discendenti colpiti da questa malattia

Antonio Marasco

Nacque a Nicastro l'11 maggio 1896, le sue idee di dinamismo che la corrente futurista portava in sé e di cui sarà uno degli interpreti più intelligenti e raffinati non corrispondevano con . Nel 1906, al seguito della famiglia, lasciò Nicastro per trasferirsi a Firenze, città tradizionalmente ricc di fermenti culturali, dove ebbe modo di mettere a fuoco la sua indole artistica. A Firenze ebbe modo di conoscere Papini, Soffici e gli intellettuali che ruotavano attorno alla rivista < Lacerba >. Nel 1914 conobbe Marinetti e con lui intraprese un viaggio alla volta di Mosca e Pietroburgo dove entrò in contatto con alcuni dei maggiori poeti e intellettuali russi del tempo: Majakowskij, Esenin, Tatlin, Burliuk e Puni. Ha partecipato ad importanti esposizioni a San Francisco e New York, in Germania e in Svizzera, entrando in contatto con le correnti più vive della cultura europea. Ha partecipato ad importanti rassegne: Quadriennale, Biennale di Venezia, Zurigo e Monaco. Prestigiose personali organizzò all'Art Gallery della Yale University nel 1950 e al Palazzo delle Esposizioni di Roma nel 1959. Continuò a dipingere pur privo della vista e si spense a Firenze l'8 aprile 1975.

Palazzo Sacchi

Palazzo Sacchi, forse appartente originariamente ai d'Ippolito, un tempo comprendeva un intero isolato e prospettava sul sagrato della chiesa di S. Giovanni della Coltura (poi trasformata in albergo, attualmente ristrutturato). Della originaria fase edilizia oggi rimane il portale in pietra che introduce all'androne e allo scalone centrale, decorati a stucco con copertura a botte sulle scale e calotta sul primo pianerottolo, da dove l'accesso agli appartamenti prosegue su due scale. Svetta invece in piazza San Giovanni la loggia a torretta, dal grande impatto visivo, che faceva angolo di collegamento con la chiesa e impreziosiva l'architettura del palazzo sin dal primo impianto settecentesco. La complessa decorazione con stucchi sull'arcata principale sembra illustrare con oggetti e trofei il tema dell'amore trionfale. Diversi motivi decorativi sono rappresentati anche sulle aperture laterali. Quest'ultimo piano è coronato da cornici mistilinee aggettanti in corrispondenza delle lesene, qui sottolineate da grandi mascheroni con funzione di gocciolatoi. La realizzazione degli stucchi si deve probabilmente ad Antonio Frangipane, attivo nelle decorazioni dell'attigua chiesa di San Giovanni. Stucchi di analoga fattura impreziosiscono anche, come elementi superstiti, balconi e finestre del secondo piano dell'altro palazzo che delimitava la piazza, appartenuto anch'esso con tutta probabilità ai d'Ippolito.

Museo Diocesano

Il Museo diocesano, realizzato per impulso del vescovo Vincenzo Rimedio e curato dall'architetto Natale Proto, è stato inaugurato nel 1998 ed è stato ampliato e riallestito nel 2004 e nel 2006. E' ubicato al primo piano del Palazzo del Seminario Vescovile, riaperto nel 1823 da Mons. Gabriele Papa nei locali del seicentesco Convento delle Clarisse, più volte ristrutturato nel corso del tempo. Della struttura originaria mantiene solo il chiostro e il portale settecentesco ad arco di trionfo, di fattura roglianese, coevo dei due più piccoli portali laterali della vicina Cattedrale. Il Museo custodisce le opere che provengono dalle antiche diocesi di Nicastro e Martirano, e si distingue all'interno del panorama dei musei diocesani calabresi per il valore artistico degli oggetti in esso raccolti. L'allestimento è suddiviso in dieci sezioni ed espone una serie di opere e manufatti, relativi per lo più a paramenti sacri e oggetti liturgici in argento, realizzati da maestri meridionali e locali a partire dal XV secolo.

Tra i vari materiali si segnalano per importanza un prezioso cofanetto in legno e avorio dipinto, di fattura arabo-sicula (XII sec.); due braccia reliquiari in legno, rame e ottone di Santo Stefano e San Giovanni, provenienti dall'antica abbazia di Sant'Eufemia, prodotti da una bottega meridionale (XV sec.); uno scrigno in legno e madreperla, pervenuto dalla Cattedrale di Martirano, opera di bottega meridionale (XVII sec.); una collana a vaghi aurei (ex-voto alla Madonna del Rosario), dono della Confraternito del SS. Rosario di Nicastro, e l'Ostensorio di S. Tommaso in argento, opera di Filippo Ajello, cesellatore attivo a Napoli tra il 1758 e il 1831. Degni di nota sono anche le sculture in legno policromo databili al XVI secolo di manifattura meridionale, il gruppo statuario cinquecentesco dell'Annunciazione proveniente dalla Chiesa di S. Domenico, e la statua in marmo della Madonna col Bambino detta Madonna delle Grazie, originariamente collocata nell'antico Convento delle Clarisse di Nicastro e attribuita a Domenico Gagini (Bissone 1420/25 - Palermo 1492). Non mancano, infine, attestazioni della scuola roglianese che a partire dal XVI secolo diede vita ad una produzione locale di alto valore artistico documentata in diversi siti della Calabria. Il museo conserva anche una serie di dipinti di pittori locali, come ad esempio una Trinità dolente e un dipinto ad olio con S. Marco del nicastrese Francesco Colelli, provenienti dalla chiesa parrocchiale di S. Maria Maggiore, alla quale appartenevano anche il S. Matteo di Cesare Costanzo (doc. metà XVIII sec.), un Ritratto di Mons. Nicola Berlingieri datato 1854 e la Pala d'altare Madonna e Bambino di Eduardo Fiore, dono della famiglia Saladini di Bella. Importanti sono, infine, una tela attribuita a Mattia Preti (Taverna 1613 La Valletta 1699) raffigurante S. Francesco d'Assisi; una seicentesca Assunta dipinta alla maniera di Carlo Maratti (Camerino 1625 Roma 1713) e, per l'efficace rappresentazione della città, un olio su tela con San Vincenzo e la città di Nicastro di un ignoto autore.

Gastronomia

La città di Nicastro non presenta una tradizione gastronomica molto ricca, ma molti sono i modi di utilizzo dei cibi, come per esempio le crispelle, tipicamente a forma allungata o rotonde con l'acciughe all'interno o la versione dolce con lo zucchero e miele; la pignolata; i buccunotti; le susumelle; i mastazzola; le cuzzupe; le salsicce con le rape; il baccalà fritto con patate, peperoni e olive, piatti generalmente usati durante i periodi festivi. Oppure si usa fare la domenica le braciole di carne, o il sugo con i pezzi di carne (detto alla napoletana). Le cuzzupe tipicamente fatte nel periodo pasquale, si usava mettere, sopra, le uova con una croce di pasta, ai maschi, secondo una gerarchia al capo famiglia si mettevano più uova. Le uova simboleggiano la fertilità dell’uomo. Altre tradizioni sono quelle delle conserve, come la salsa, i pomodori secchi, le olive schiacciate, la giardiniera, le cipolle sott'aceto. Oppure nel mese di febbraio solitamente si uccide il maiale, lavorando la carne si producano infiniti prodotti per consumare tutto, come il suzo fatto per usare tutti gli scarti della carne. Grazie alla grande piana gli uliveti e i viglieti sono stati da sempre utilizzati per la produzione di olio e vino. In particolare la famiglia Statti per il vino

La tenuta Statti

Con certezza possiamo affermare che un capostipite Statti arrivò in Calabria intorno alla prima metà del secolo XV così come si evince da un albero genealogico miniato posseduto dalla Famiglia Statti. Con la sconfitta di Roberto d’Angiò da parte di Alfonso I d’Aragona, siamo nel 1446, quest’ultimo riunì sotto il suo dominio i regni di Napoli e di Sicilia.

Il Re Alfonso dovette affrontare diverse rivolte, In soccorso del Re arrivò in Calabria il condottiero Demetrio Reres, appartenente alla famiglia di Giorgio Castriota Scanderberg, con numerose truppe e tra questi anche i soldati Demetrio, Tommaso e Teodoro Stath, cognome che poi fu italianizzato in Statti. la Famiglia Statti che nel corso del sec. XVII prende dimora fissa nella città di Nicastro ed avvia una serie di alleanze matrimoniali con le famiglie del ceto nobile della città. Siamo nella seconda metà del 700’ in città la famiglia Statti era composta da Giuseppe, che si ritirò a Gizzeria per aver commesso un omicidio, Domenico, laureato in legge a Napoli nel 1730, Gennaro, sposato con Porzia Fiore, Francesco, frate domenicano, Anna, sposata con Nicola Discosi, Orsola, sposata con Vincenzo Veraldi. E’ l’abile Domenico Statti ad intessere una fitta rete di alleanze di potere divenendo addirittura Agente Generale della principessa d’Aquino, che risiedeva in quel di Napoli. Dalla stessa riceve l’oliveto Lenti, ancora oggi proprietà della famiglia e dove si sviluppa l’odierna tenuta agricola e vigneto.

Palazzo Statti

Palazzo Statti Il palazzo si trova ai piedi del rione di S. Teodoro, nucleo abitativo più antico arroccato intorno al colle del castello, prospetta su largo Damiano Statti e domina dall'alto via Garibaldi e l'intera Nicastro. Costituisce uno dei migliori esempi di architettura tardo-barocca in Calabria e risalta nei disegni dei viaggiatori stranieri di Sette-Ottocento. Costruito intorno alla metà del Settecento su strutture preesistenti, si sviluppa su tre livelli più un piccolo attico. L'edificio, con il ricco apparato decorativo della facciata, spicca nel semplice tessuto edilizio in cui è inserito. La superficie della fronte, infatti, è caratterizzata da una sequenza alternata di campate concave e convesse ritmate da sottili lesene che le conferiscono un prospetto dinamico. Lungo il perimetro esterno corre, invece, una spessa fascia finemente decorata con stucchi che propongono forme stilizzate di ventagli e conchiglie, presenti anche lungo i lati dei piccoli balconcini e sugli angoli lievemente smussati del palazzo. Le soluzioni decorative adottate rimandano a maestranze di origine o almeno di formazione napoletana, attive in Calabria, e a Nicastro, a quel tempo. Al centro risalta un monumentale portale in pietra granitica, probabilmente realizzato da mastri scalpellini di Rogliano, caratterizzato da morbide ed elaborate guarniture laterali. Dal portale si accede all'androne e a una piccola corte centrale con fontana, su cui affacciano gli appartamenti con un prospetto di tre arcate per piano. Gli ambienti nobili si trovano al secondo piano, con sale di ricevimento e salone di rappresentanza. Nella parte posteriore è il giardino, il cui muro di cinta riprende il motivo alternato di campate concave e convesse della facciata principale.

Pacchiane nicastresi

Ma cosa vuol dire il termine "Pacchiana"? Secondo molti autorevoli glottologi e linguisti il termine discenderebbe dal greco e individuerebbe una giovane contadina calabrese formosa e, per l'appunto, con indosso questo caratteristico e quotidiano, all'epoca, abito da donna. Oggi quasi scomparso, era diffuso nel cosentino, nel vibonese e soprattutto nel catanzarese, con alcune differenze da zona a zona, in special modo a Tiriolo, Settingiano e Lamezia Terme. Parlando della piana lametina l'ultima pacchiana sambiasina è stata premiata nel 2019 all'interno di un evento culturale e storico ("Tradizione Tipica Lametina"). E a proposito del costume delle pacchiane lametine, si distinguono nel panorama calabrese per una caratteristica aggiuntiva, immediatamente riconoscibile, ovvero la celebre coda. Oltre che per essere spesso e volentieri a capo scoperto: soltanto per le occasioni importanti mettevano “'u ritùartu”, fazzolettone in lino invece fisso nelle altre pacchiane della regione. Una rarità nella cultura agro-pastorale del 1700 e 1800. Attenzione al termine “'u ritùartu”, che viene usato anche per denominare l'abito delle pacchiane di San Giovanni In Fiore nel cosentino. La coda della pacchiana lametina: cos'è? La coda, “'a cuda”, è un'imponente (raggiunge dimensioni notevoli, si impiegano più di 10 metri di stoffa) e raffinata gonna a pieghe blu o verde, nera in caso di lutto. Sul davanti "normale", sul retro, sul girovita, annodata secondo un preciso rituale e in modo tale da formare, per l'appunto, la sofisticata coda posteriore. La “gunnella” si sovrappone a “'u pannu”, molto più di una semplice crinolina (sottogonna): un vero e proprio indicatore dello stato sociale e civile della donna. Infatti, le donne sposate indossavano il panno rosso; le vedove nero; viola per le nubili. A sua volta, “'u pannu” si posiziona poco al di sopra della “suttana”, una sottoveste in lino bianco e con maniche svasate. Passando alla parte superiore dell'abito femminile delle pacchiane lametine, sicuramente ricercato, un corpetto di color nero e allacciato sul davanti abbraccia il seno, spesso prosperoso. In dialetto “cursè” o “'u bustinu”. Sulle spalle, braccia e collo “'u maccaturu”, fazzoletto colorato, o una “camigetta”

La nicastrese

La capra Nicastrese è stata ammessa al registro anagrafico delle popolazioni ovine e caprine autoctone a limitata diffusione e, riconosciuta razza, con il Decreto del Ministero delle Politiche Agricole e Forestali nº 21206 dell'8.3.2005 art. 1 comma B, successivamente al riconoscimento dell'Associazione Nazionale della Pastorizia, avvenuto nella riunione della Commissione Tecnica Centrale (CTC) del Registro Anagrafico delle razze ovine e caprine autoctone a limitata diffusione, riunita a Roma il 18 giugno 2003. Lo studio per il riconoscimento della razza Nicastrese e della Capra dell'Aspromonte, si deve a Floro De Nardo, come riportato nell'Atlante delle razze autoctone, bovini, equini, ovicaprini, suini allevati in Italia. Una recente ricerca eseguita sulle tre razze caprine calabresi, che ha valutato la struttura di popolazione nel contesto italiano, ha evidenziato che le tre razze, nonostante le chiare differenze fenototipiche, possiedono un pool genetico estremamente simile e affine a quello di altre popolazioni caprine dell'Italia meridionale. L’analisi delle relazioni evoluzionistiche, ha indicato un probabile evento di flusso genetico diretto dal ceppo ancestrale dalle razze Maltese e Sarda Maltese verso la Nicastrese. Per la spiccata attitudine lattifera, grande rusticità, frugalità, resistenza alle malattie e, il marcato adattamento alle diverse situazioni ambientali - qualità molto apprezzate dagli allevatori - si è diffusa negli anni su tutto il territorio della regione Calabria. Insieme alla capra dell'Aspromonte e alla Rustica di Calabria, la razza Nicastrese rappresenta un importante tassello del variegato mosaico etnografico della biodiversità caprina autoctona calabrese. È inserita tra le 28 razze caprine italiane iscritte ai registri anagrafici gestiti dall'Asso.Na.Pa.

Il nuovo Comune

Senatore

Nicastro è una delle circoscrizioni comunali della città di Lamezia Terme. E' stato un comune autonomo sino al 1968, anno dell'unificazione con Sambiase e Sant'Eufemia Lamezia per la nascita del nuovo comune, del quale è il quartiere più popoloso. Nel 1962, Arturo Perugini, da meno di un anno eletto sindaco di Nicastro, per avere una chance più forte affinché andasse in porto la proposta di fondazione di nuovo comune, si dimese da primo cittadino per candidarsi al Senato. Perugini fu eletto il 28 aprile 1963 con una vittoria schiacciante (31 000 voti), supportato da elettorato fedele formato dalla Democarzia Cristiana e dalla Chiesa nicastrese. Il 30 ottobre il neo eltto senatore dello stesso anno presentò il disegno di legge per la creazione della città di Lamezia. Per avere ancora più forza e soprattutto per evitare che il disegno di legge si arenasse fra le tante proposte giacenti nelle commissioni parlamentari, alla Camera si presentò un disegno di legge molto simile a quello di Perugini, su prposta del democratico Salvatore Foderaro. Nel territorio del'ex comune sono presenti la curia vescovile della diocesi di Lamezia, l'ospedale, il tribunale e vari uffici amministrativi.

Arturo Perugini

Fine

Andrea CalidonnaAlida Ventura