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Attività su LA DIVINA COMMEDIA

Gerlandina P.

Created on November 29, 2023

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Transcript

DANTE CONDANNA I 7 VIZI CAPITALI

MA COSA SONO I 7 VIZI CAPITALI?

I VIZI, al contrario delle virtù, sono CATTIVE ABITUDINI possono essere PIU' O MENO GRAVI in generale portano a seguire COMPORTAMENTI SCORRETTI vengono detti CAPITALI perchè secondo la morale cristiana che seguiva Dante, portano ad allontanarsi dalla SALVEZZA

I 7 VIZI CAPITALI AL TEMPO DEI SOCIAL

UNA VERSIONE MODERNA DELLE CATTIVE ABITUDINI

Prova a scrivere sul tuo quaderno a quali abitdini negative corrispondono oggi i peccati capitali

LA LEGGE DEL CONTRAPPASSO

IL CONTRAPPASSO da Contra patior= soffrire il contrario

Nella cantica dell’inferno della Divina Commedia, in particolare dal 3° canto in poi, scopriamo le punizioni dei dannati. Queste punizioni vengono chiamate CONTRAPPASSI, ogni contrappasso è valido per tutti coloro che sono condannati a rimanere in eterno in una delle cerchie infernali.

PROVA AD ASSOCIARELA PENA AL PECCATO

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ALCUNI CONTRAPPASSI DELL'INFERNO

Rifletti e scrivi sul tuo quaderno una pena del contrappasso adatta al peccato spiegandone il motivo.

PAG 7 Espressioni moderne dalla divina commedia

Dante è considerato il padre della lingua italiana perchè l'80% dei termini che ha utilizzato nella divina commedia ancora oggi fanno parte della lingua italiana. Molte sono, inoltre, le espressioni che ha inventato e che hanno arricchito il nostro modo di parlare.

PAG 8

Canto III

Canto I

Canto III

Canto V

Canto V

Canto XXVI

Canto XXXIV

Inferno

Purgatorio

Paradiso

Esempio Chi non studia con serietà: sarà condannato a tenere la testa china sui libri incollato alla sedia, senza potersi alzare né distogliere lo sguardo. Perché? Come in vita non stava mai fermo a leggere e ripetere, così, al contrario, sarà costretto a non fare altro.

Nel mezzo del cammin di nostra vita Lo straordinario incipit della Divina Commedia è certamente uno dei versi più citati della letteratura mondiale. Con questa frase, l’apertura del primo canto dell’Inferno, Dante introduce il lettore all’opera, lo rende immediatamente partecipe: l’uso del termine “nostra” infatti vuole sottolineare che Dante intraprende questo viaggio rappresentando l’intera umanità. Oggi la frase nel parlato comune viene utilizzata soprattutto come metafora per sottolineare il percorso della vita: “siamo nel mezzo del cammino della vita”, o per intendere la fascia d’età tra i trenta e i quarant’anni, considerata appunto la fase di mezzo tra gioventù e vecchiaia.

E quindi uscimmo a riveder le stelle Siamo nel Canto XXXIV dell’Inferno, per la precisione si tratta dell’ultimo verso dell’Inferno. Dante e Virgilio si sono lasciati alle spalle i gironi infernali, finalmente i due riescono a contemplare il cielo notturno stellato dell’altro emisfero. Le stelle simboleggiano la speranza, da lì è infatti visibile la cupola celeste: la tenebra infernale è ormai lontana. Da questo momento il percorso dei due viandanti proseguirà verso il Purgatorio. Nel linguaggio comune la frase oggi indica l’inizio di una nuova speranza, la visione di un barlume di luce dopo le tenebre, la fine di un brutto periodo.

Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse Siamo sempre nel Canto V dell’Inferno, nel cerchio dei lussuriosi. La celebre dichiarazione viene fatta per bocca di Francesca da Rimini che racconta a Dante la storia del suo amore per Paolo. Francesca narra la passione adultera per Paolo scoppiata all’improvviso mentre leggevano per diletto dell’amore tra Lancillotto e Ginevra. Il bacio adultero dei due personaggi invita i due lettori a imitarlo. Per questa ragione Francesca afferma che «il libro» (il romanzo cavalleresco) è stato il “Galeotto” (era il siniscalco, il servitore della regina, che faceva da intermediario tra quest’ultima e i cavalieri, Ndr) tra lei e Paolo. Oggi usiamo comunemente la parola “galeotto” per indicare un “intermediario amoroso”.

Amor ch’al cor gentil ratto sapprende Siamo nel Canto V dell’Inferno e Dante, guidato da Virgilio, ha appena incontrato la coppia di amanti Paolo e Francesca condannati nel cerchio dei Lussuriosi a vagare trasportati da un vento perenne. Con questo verso Dante vuole sottolineare la potenza dell’amore. “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende”, e cioè “l’amore, che divampa in un attimo nel cuore gentile”, è una forza potentissima, che supera la volontà dell’individuo e vince tutte le resistenze. Ancora oggi la frase viene citata nel linguaggio comune per descrivere l’amore come una forza inevitabile che tutto travolge e alla quale non è possibile opporsi.

Amor, ch’a nullo amato amar perdona Verso citatissimo e spesso riadattato in molte poesie e canzoni contemporanee. L’estratto è parte della celebre terzina del Canto V dell’Inferno che vede protagonista la coppia di amanti più tragica della letteratura, Paolo e Francesca. Il significato del noto verso è che chi è amato è inevitabilmente condannato ad amare a sua volta. “Amore non perdona”, nel senso che non risparmia a nessuno che sia amato, e che quindi abbia ricevuto amore, di amare di rimando. Una frase che racchiude la potenza inesorabile dell’amore e che continua a far struggere gli animi romantici.

Fatti non foste a viver come bruti La celebre terzina pronunciata da Ulisse nel Canto XXVI dell’Inferno: Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti ma per seguir virtute e canoscenza" è la sintesi del profondo pensiero di Dante, il quale considerava la ricerca e il conseguimento delle virtù e della conoscenza, cioè del sapere trascendente, la vera ragione dell’esistenza umana. Oggi il verso viene spesso ripetuto come ammonimento per ricordare l’importanza dello studio e della cultura nella vita umana. La terzina è stata citata anche numerosi romanzi novecenteschi, tra cui ricordiamo Se questo è un uomo di Primo Levi in cui l’autore si serviva del verso dantesco per dichiarare battaglia alla disumanità.

Per me si va ne la città dolente Siamo nel Canto III dell’Inferno. Dante e Virgilio si trovano nell’Antinferno dove scorre il macabro fiume Acheronte. Le parole impresse sulla porta ammoniscono i due viandanti ricordando loro che stanno per varcare un luogo di pena e di dolore dal quale non si fa ritorno. Oggi l’espressione è utilizzata come metafora per indicare l’inizio di un periodo di pene o il dovere di recarsi a un appuntamento sgradito.

Lasciate ogne speranza voi ch’intrate Gli ultimi versi scolpiti sulla porta d’ingresso dell’Inferno recitano queste parole che suonano come una condanna. Siamo nel Canto III dell’Inferno e Dante e Virgilio si apprestano a varcare la soglia della porta infernale. L’iscrizione li ammonisce ricordando loro che le pene infernali sono eterne, le anime che si accingono a entrare in quel luogo si preparano a vivere punizioni e tormenti senza fine. Oggi la frase viene usata soprattutto con ironia per indicare una situazione “senza speranza” oppure la fine di ogni speranza e consolazione.

Vuolsì così colà dove si puote ciò che si vuole Canto III dell’Inferno. La frase viene ripetuta da Virgilio per ben due volte nel dialogo con il traghettatore infernale Caronte. Caronte aveva invitato Dante a tornare indietro e a non inoltrarsi nell’esplorazione del regno dei morti, ma Virgilio lo rimprovera con queste parole ammonendolo a non chiedere altro. La perifrasi "colà dove si puote ciò che si vuole" indica il Paradiso, dove si trovano coloro che hanno comandato il viaggio di Dante. Il significato è traducibile nell’espressione: "Questa è la volontà di colui che ha il potere, non chiedere altro". Nel linguaggio comune oggi viene utilizzata per invitare, in maniera elegante, una persona a non insistere e a non fare troppe domande su una determinata questione.

Non ragioniam di lor ma guarda e passa (Attenzione la citazione corretta non è “Non ti curar di loro, ma guarda e passa”) Si tratta della diciassettesima terzina del Canto III dell’Inferno. La frase è pronunciata da Virgilio per consolare Dante. I due si trovano nel cerchio degli Ignavi, coloro che nella vita non hanno mai preso decisioni o affrontato responsabilità. Lo spirito di Dante disprezza fortemente persone di tal fatta, e il suo disprezzo passa attraverso le parole di Virgilio che lo invita a non lasciarsi prendere dal rancore ma ad andare oltre. Oggi la frase è spesso citata con la variante errata “Non ti curar di loro” che è entrata nel lessico comune, tuttavia non corrisponde all’originale. L’espressione viene utilizzata per invitare a non perdere tempo con persone meschine o non degne della nostra considerazione.