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Aspettando natale 2023
francesca.bora
Created on November 22, 2023
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Aspettando Natale...
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Giorno 20 - Il nano Tremotino
C’era una volta un povero mugnaio che, per mettersi in mostra e rendersi importante, era solito raccontare un mucchio di frottole. Un giorno aveva messo in fuga i draghi della foresta senza nemmeno combattere; un altro aveva pescato a mani nude un pescecane; un altro ancora, pensate, raccontò che sua figlia, una bellissima ragazza che, a differenza del padre, ogni giorno lavorava duramente, riusciva a filare la paglia trasformandola in oro. Come potete ben immaginare non ci volle molto perché questa voce facesse il giro del regno e ben presto arrivò fino alle orecchie del re che, sorpreso e incredulo, mandò a chiamare la fanciulla affinché fosse messa alla prova. Il re la condusse in una stalla piena di paglia e le ordinò di filarla, trasformandola in oro, entro il mattino successivo. Alla ragazza sembrava davvero impossibile, ma non aveva scelta, se non ce l’avesse fatta il re le avrebbe tagliato la testa. Disperata, iniziò a piangere, ma la sua attenzione fu rapita da un rumore. La porta scricchiolò e aprendosi lentamente rivelò un ometto piccolo piccolo. Le chiese il motivo delle sue lacrime e poi si offrì di filare la lana al suo posto, ma in cambio voleva qualcosa. La ragazza le offrì la sua collana. Detto fatto, il nano si mise a filare la paglia. Quando fu giorno scomparve. Il re era molto soddisfatto, ma ne voleva ancora. Così condusse la ragazza in un’altra stalla dove c’era ancora più paglia. I patti erano sempre gli stessi: doveva filare la paglia e tramutarla in oro, altrimenti le avrebbe tagliato la testa. Ancora una volta la giovane iniziò a piangere e, ancora una volta, la portà si aprì. Di nuovo il nano le offrì il suo aiuto e, questa volta, in cambio dell’anello. Il Nano filò tutta la notte, ogni pagliuzza che toccava si trasformava in oro, poi sparì. Il mattino dopo il re, accecato dalla avidità, condusse la ragazza in un’altra stalla con ancora più paglia delle precedenti. Ora, non solo le disse che se fosse riuscita a filare tutta la paglia trasformandola in oro avrebbe avuto salva la vita, ma le avrebbe anche offerto di rimanere a vivere a palazzo con lui come una regina. Il nano comparve anche quella notte, ma la ragazza non aveva niente da offrire in cambio. Allora fu lui a proporle un accordo: lui avrebbe filato la paglia e lei gli avrebbe consegnato il suo primo figlio. La ragazza era convinta che in un modo o nell’altro, poi, sarebbe riuscita a trovare una soluzione e lì per lì acconsentì. Passarono gli anni e la ragazza diventò mamma di un bel bambino. Il nano non si era affatto dimenticato dell’accordo e arrivò a reclamare la sua parte. La ragazza lo pregò di lasciar perdere e gli garantì che gli avrebbe consegnato qualsiasi altra cosa, ma non il bambino. Allora il nano le fece una proposta: se in tre giorni la ragazza fosse riuscita a scoprire il suo vero nome avrebbe potuto tenere il bambino con sé, altrimenti lui lo avrebbe portato via. La ragazza si mise subito a cercare tra libri e pergamene: Gasparo detto Peppalunga? Ubertone da Burbundela? Alberto Moro da Fonrama? Belisario? Franceschetto il Rosso? Quando venne il nano cominciò a sciorinarglieli tutti, ma nessuno era quello giusto. Aveva anche incaricato un messo di girare per il regno e quando questi fu di ritorno le disse che mentre si trovava in vetta a una montagna l’aveva visto, sì, lui, proprio il nano, saltellare vicino a una casetta di paglia, intorno a un grande fuoco continuando a ripetere: “Nessuno lo sa! Nessuno lo sa! Io son Tremolino! Io son Tremotino!” Ma non aveva mica capito bene: diceva Tremolino o Tremotino? Arrivò l’ultimo giorno e la ragazza aveva un’ultima possibilità: quando il nano le chiese il nome gli disse con coraggio: “ti chiami Tremotino!” Il nano cominciò a tirarsi i capelli per la rabbia, pestare in terra con i piedi e bofonchiare parole incomprensibili. Ma poco contava ormai, la ragazza aveva superato la prova e non c’era più bisogno di nessun accordo!
Giorno 22 - Il califfo e la cicogna
C’era una volta un giovane califfo di nome Casid. Un giorno venne a corte un vecchio signore che gli fece dono di una scatola. Non spiegò cosa fosse e a cosa servisse, ma gliela offrì gentilmente. All’interno c’erano una polverina nera e una pergamena. Casid si rivolse al saggio Selim che riuscì a tradurre la pergamena: aspirantibus polverinis… chi questa polvere aspirerà e dirà parolonam magicorum “mutabor”, diventerà qualunque animale a lui parrà! Comprensionis magnam… e capirà il linguaggio di tutte le creature. Redevenendum humanis… e uomo tornerà in ginocchionis ad orientem… se si inchinerà rivolto a Oriente e dirà “mutabor”! Salutationis variis… tanti saluti, ecco fatto! Aspettate un attimo perché, non so voi, ma io non ci ho capito niente! In pratica, annusando la polvere e dicendo la parola magica mutabor ci si può trasformare in qualsiasi animale? E per di più si può capire il linguaggio degli animali? Ma aspettate ancora un po’, c’è un "ma": se mentre ci si trova in forma di animale, si scoppia in una bella risata, ci si scorda la parola mutabor e non si riesce più a ritrasformarsi in uomini. Eh, sì, bisognerà stare attenti, speriamo che Casid l’abbia capito bene. Il mattino dopo Casid, accompagnato dal suo visir, decise di fare una prova. Si allontanò dalla città facendo attenzione che nessuno lo riconoscesse e camminò fino allo stagno. Lì, c’era qualche cicogna. Casid e il visir annusarono la polverina e si trasformarono in due bellissime cicogne. Con aria indifferente si avvicinarono alle altre cicogne. La cicogna Battibecco si stava lamentando perché la cicogna Gambalunga è sempre in ritardo, ma è fatta così, preferisce camminare nelle giornate di sole anziché volare. Nel sentire questi discorsi, Casid e il visir scoppiarono a ridere e solo dopo un bel po’ si risero conto: e ora? Che parola dovevano pronunciare per ritrasformarsi in uomini? Si chinarono a Oriente e si sforzarono di ricordare: meta… muta…mata… niente da fare. Ebbene, i due si rassegnarono e tornarono in città volando. Tutti li stavano cercando, ma nessuno poteva riconoscerli. Impotente, Casid dovette assistere al lutto per la sua presunta morte e, dopo appena quattro giorni, alla nomina del nuovo califfo, Mizra. Ora, dovete sapere che Mizra era il figlio di un potente nemico di Casid, il mago Kasnur. Sicuramente la polverina era stata un tranello del mago! Decisero di volare fino a Medina in cerca di aiuto e consiglio, ma il viaggio era lungo così, arrivata la sera, decisero di pernottare in un vecchio castello in rovina. Da una porta socchiusa arrivavano sospiri e lamenti. Il califfo che, sotto le penne da cicogna, aveva un cuore intrepido, spinse l’uscio col becco, e cosa vide? Una civetta. Grosse lacrime le scendevano dagli occhi e lungo il becco adunco. Era una principessa, di noma Lusa, trasformata per sortilegio in una civetta, anche lei vittima del malvagio mago Kasnur, perché si era rifiutata di sposare suo figlio Mizra. Tutti e tre decisero di aiutarsi. L’occasione fu una riunione dove Kasnur era solito ritrovarsi con altri maghi. La civetta e le cicogne spiavano il banchetto rimanendo in attesa. Proprio in quel momento Kasnur stava raccontando fiero e pieno di sé, la sua ultima bravata ai danni di Casid e disse anche la parola magica, "mutabor". In fretta e furia Casid e il visir si precipitarono all’esterno, si rivolsero a oriente e dissero forte e chiaro: mutabor! L’incantesimo funzionò e anche la principessa si trasformò. Era bellissima! Tutti quanti fecero ritorno in città, Mizra e Kasnur furono imprigionati, la principessa, il visir e il califfo raccontarono la loro storia e vissero per sempre felici e contenti.
Giorno 17 - Lo sceicco cieco
C’era una volta Kisrà, era un mercante al mercato Bagdad. In questo mercato potevi trovare di tutto: dalle caramelle alla menta all’ultimo modello di tappeto volante, cammelli con una, due o tre gobbe e mezzo, scimmie parlanti, elefanti equilibristi. Ogni mercante cercave il miglior affare e di strapparlo al miglior prezzo. Un giorno, Kisrà, comprò una partita intera di legno di sandalo, un legno pregiato dal profumo sottile e molto delicato, e si mise in viaggio. Stava per entrare nella capitale dei Paesi delle Montagne, quando incontrò una vecchia. La vecchia lo mise in guardia dagli abitanti di quel paese, erano tutti furbi e scaltri oltre ogni dire. Kisrà rimase stupito e disse a sé stesso che avrebbe dovuto fare molta attenzione. Entrato in città il primo abitante gli si fece incontro, notò la sua merce e iniziò a ridere: sandalo? Da quelle parti del legno di sandalo non sapevano che farsene, ne avevano talmente in abbondanza da poterci accendere il fuoco. Kisrà era preoccupato, aveva investito una fortuna e ora? L’abitante si dimostrò generoso e gli offrì di comprare lui tutto il suo legno: per ogni misura di legno, in cambio, una misura di quello che avrebbe voluto lui. Kisrà accettò e promise che l‘indomani gli avrebbe detto cosa voleva in cambio. Il primo tranello era stato teso. Dopo aver ceduto il legno di sandalo, Kisrà, andò in giro per la città. Ad un tratto gli venne incontro un uomo con un occhio solo urlando contro di lui: ecco l’uomo che mi ha tolto l’occhio! La gente gli andò incontro inferocita, finché Kisrà fu accerchiato. L’uomo senza occhio gli chiese il prezzo dell’occhio mancante, altrimenti Kisrà avrebbe dovuto pagare con uno dei suoi due occhi. E il secondo tranello era stato teso. Kisrà era davvero disperato e per di più si accorse che uno dei suoi calzari si era rotto. Andò da un calzolaio e lo pregò di aggiustarlo. Il calzolaio lanciò un’occhiata furba al forestiero e dentro di sé si ripromise di farsi pagare profumatamente. Anche il terzo tranello era stato teso. Kisrà continuò la sua passeggiata e si unì a un gruppetto che giocava sulla strada a uno strano gioco manovrando dei bastoncini di legno. Dopo un’ora Kisrà aveva perso tutti i bastoncini di legno e accumulato un bel debito. Aveva tempo ventiquattro ore per saldarlo: poteva scegliere se bere tutta l’acqua del mare o cedere tutti i suoi averi. Si sedette su un masso e si mise a riflettere, quando apparì la vecchia del giorno prima. La vecchia gli consigliò di raggiungere la porta nord della città quella stessa notte, lì tutti si recavano per avere un consiglio dallo sceicco cieco, un vecchio molto saggio. Quella notte Kisrà si recò dallo sceicco cieco, ma ben presto vide arrivare il primo abitante che aveva incontrato, quello al quale aveva venduto tutto il suo legno. Così si nascose e ascoltò. Poi venne l’uomo senza un occhio, dopo il calzolaio e, infine i giocatori. Ogni volta Kisrà ascoltò cosa avrebbe potuto rispondere attraverso i saggi consigli dello sceicco. L’indomani, quando incontrò il compratore del legno di sandalo gli disse che voleva essere pagato in pulci: per metà pulci maschi e per metà pulci femmine. Proprio quello che aveva detto lo sceicco cieco. E il compratore dovette restituire il legno di sandalo. Come era possibile infatti riempire quaranta misure con pulci in egual numero maschi e femmine? Kisrà andò quindi dall’uomo senza un occhio e gli disse: cavati l’occhio e io te ne darò uno dei miei; se il peso sarà uguale potrai tenere il mio. L’uomo rifiutò e si allontanò di corsa. Aveva tutto da perdere nel cambio: nel peggiore dei casi Kisrà sarebbe rimasto con un solo occhio, ma lui sarebbe rimasto senza nessun occhio. Poi fu il turno del calzolaio, al quale aveva promesso che avrebbe avuto da lui di che essere soddisfatto. E allora gli disse: i nemici del sultano sono stati sconfitti, il sultano gode di buona salute, le sue ricchezze aumentano e il suo regno è prospero, non sei soddisfatto di tutto questo? E il calzolaio, masticando amaro per la sconfitta, dovette dichiararsi contento. Infine arrivarono i giocatori. Kisrà disse che avrebbe bevuto tutta l’acqua del mare, a patto che i giocatori gliela potessero porgere. E anche i giocatori se ne andarono sconfitti. Ormai Kisrà si era fatto la fama di essere un uomo molto scaltro e furbo e, così, riuscì a vendere a un buon prezzo il suo legname. Prima di andar via salutò e ringraziò la vecchia per i suoi consigli, poi via sul suo cammello, promettendo a sé stesso che in quella città non ci avrebbe rimesso mai più piede!
Giorno 13 - La pastorella e lo spazzacamino
C’era una volta, un vecchio mobile, un imponente armadio intarsiato in legno di mogano, molto severo: ai lati troneggiavano le sculture di alcune teste di cervo con delle belle corna lunghe, al centro, a reggere tutto il peso, c’era un satiro, una creatura fantastica mezza uomo e mezza capra, con una lunga e folta chioma dalla quale spuntavano le corna, il torso nudo ricoperto di peli, le zampe e la coda. Il satiro era innamorato della pastorella, una piccola scultura in porcellana molto graziosa. Il satiro si sentiva il più forte e importante di tutto l’armadio e pensava di poter possedere tutto ciò che desiderava. Eh sì, avete ragione questo non c’entra proprio niente con l’amore. Infatti, la pastorella, era molto spaventata e in cuor suo profondamente innamorata dello spazzacamino, un’altra piccola scultura in porcellana che viveva sulla stessa mensola. Disperati e incerti sul daffare, i due si rivolsero al mandarino cinese, una statuetta molto vecchia di quelle che scuotono su e già la testa al minimo movimento, che consigliò loro di rassegnarsi: il satiro era troppo grande e potente, possedeva l’intero armadio, tutta l’argenteria e le ricchezze custodite nei cassetti. Ma la pastorella non ci pensava proprio a vivere una vita chiusa in un cassetto. Vedendosi in trappola, lo spazzacamino e la pastorella organizzarono la fuga per quella stessa notte: facendo attenzione a non svegliare nessuno, scesero dall’armadio con la scala dello spazzacamino, ma il satiro se ne accorse e diede l’ordine ai cervi di seguirli e riacciuffarli. Per fortuna però i due erano già arrivati alla cassapanca sotto la finestra e lì si confusero nella folla di carte e vasi di fiori. Nel frattempo anche il mandarino cinese si era svegliato per il gran baccano e si era messo sulle loro tracce. Dovevano trovare un nascondiglio più sicuro e farlo alla svelta. Pensa che ti ripensa, allo spazzacamino venne un’idea. Prese per mano la pastorella e la condusse allo sportello della stufa. Lo aprirono ed entrarono. Salirono su per il camino e dopo un po’ iniziarono a vedere un ritaglio di cielo stellato fare capolino all’interno della cappa. Seguendo le stelle come una guida, lo spazzacamino e la pastorella arrivarono fino al bordo del comignolo. Il cielo infinito, lo spazio di mille possibilità, la paura di non farcela. Era troppo. La pastorella, che nella sua vita aveva visto solo la mensola della sua specchiera, iniziò a piangere. Insieme decisero di tornare indietro e affrontare la situazione. Il cammino del ritorno fu quasi più difficile di quello dell’andata. Quando si affacciarono alla porticina della stufa era tutto tranquillo, ma poi si accorsero con orrore che il mandarino cinese giaceva in terra con la testa staccata dal corpo. Il satiro era molto triste e non diceva una parola, insieme, lui e il mandarino cinese, ne avevano passate tante e ora aveva perso il suo unico amico. Lo spazzacamino e la pastorella portarono i pezzi del mandarino cinese sulla mensola e lo rincollarono. Era di nuovo in piedi, ma non poteva più scuotere la testa. E questa, in realtà, fu una gran fortuna perché quando il satiro lo vide gli chiese subito di sposare la pastorella, ma lui non poteva annuire. Così, lo spazzacamino e la pastorella rimasero insieme e si sposarono, vivendo felici sulla piccola mensola accanto alla specchiera.
Giorno 12 - Vardiello
C’era una volta una donna di noma Grannonia, gran lavoratrice e molto assennata. Grannonia aveva un figlio di nome Vardiello, un po’ scansafatiche e molto ingenuo. Quel giorno Grannonia aveva delle commissioni da sbrigare in città così disse al figlio di occuparsi della chioccia: era un compito importante perché la chioccia stava covando le uova e quindi non avrebbe dovuto, per nessuna ragione, allontanarsi dal nido, altrimenti non sarebbero nati i pulcini. Appena uscita la mamma, la chioccia fece per alzarsi dal nido, Vardiello la rincorse con il bastone, ma la chioccia ci inciampò sopra, batté in terra e morì sul colpo. Vardiello era molto dispiaciuto, ma che ci vuoi fare con una gallina morta stecchita? Un bel pollo arrosto, giusto! E così Vardiello accese il fuoco nel camino e iniziò a cucinarla, così la mamma al ritorno avrebbe trovato una buona cenetta. Ben presto per la casa si sparse nella casa un buon profumino. Vardiello scese in cantina per riempire un bicchiere con il vino, ma quando risalì vide il gatto che scappava con la gallina mezza cotta tra i denti. Iniziò a rincorrerlo per tutta la casa, dimenticando di chiudere la spina della botte. Alla fine riuscì a strappare la povera gallina a quel ladruncolo di gatto, ma nel parapiglia aveva spaccato quattro piatti, rovesciato in terra il budino alla crema e aveva rotto il quadro della zia Enrichetta. Infine scese di nuovo in cantina. All’iniziò pensò di asciugare il pavimento cospargendolo con della segatura, ma poi gli venne in mente che con della farina sarebbe stato più bianco e pulito. Mescolati che furono il vino e la farina non vi dico che pasticcio che venne fuori! Tornata a casa, Grannonia, non poteva credere ai suoi occhi e alle sue orecchie. Il giorno dopo decise di dargli nuovamente fiducia: gli consegnò un pezzo di stoffa e gli disse di andare a venderla al mercato raccomandandosi di non chiacchierare, non contrattare a lungo e non fare affari con persone che parlano troppo. Arrivato al mercato, Vardiello si avvicinò a un banco chiedendo chi fosse interessato alla sua stoffa. Il merciaio gli chiese di qualità fosse e lui se ne andò di corsa pensando che parlasse troppo. Dopo poco lo fermò una pescivendola che gli chiese il prezzo della stoffa, ma niente da fare, anche lei secondo Vardiello aveva parlato troppo e quindi non poteva vendergliela. Inutile dire che di questo passo Vardiello arrivò a sera senza aver venduto la stoffa. Si avvicinò a un muricciolo e si mise a sedere per riposare. Dopo poco alzò gli occhi e si accorse di un signore che lo guardava insistentemente, fermo e in silenzio. Vardiello decise che era proprio quello l’acquirente perfetto per la sua stoffa. Gliela lasciò ai piedi e si incamminò soddisfatto verso casa, convinto l’indomani di tornare per ritirare i soldi. Ma la verità è che quel signore lo fissava insistentemente muto e fermo perché era una statua che stava lì da trecento anni. Chi si dimostrò poco soddisfatta dell’affare era Grannonia. Ma come si fa a vendere una stoffa a una statua? L’indomani Vardiello ritrovò la statua al solito posto, ma la tela era sparita. Cercò di qua e cercò di là, con il solo risultato di farla cadere in terra. La statua, cadendo si era rotta, rivelando una cavità nella quale era nascosto, da chissà quanto tempo, un tesoro: un vaso pieno di monete d’oro. Grannonia nascose il vaso, ma era preoccupata di quello che avrebbe potuto raccontare in giro. Improvvisamente ebbe un’idea. Gli disse, allora, di sedersi sulla porta per vedere se passava il venditore di ricotta. L’attenzione di Vardiello però fu ben presto catturata da un fatto strano: piovevano uva passa e fichi secchi! Povero Vardiello non si era accorto che era proprio la sua mamma che, dalla finestra del primo piano, faceva cadere su di lui uva passa e fichi secchi. Passò il tempo e un giorno Vardiello vide due passanti che litigavano per stabilire di chi fosse una moneta d’oro trovata in strada dal momento che entrambi ritenevano di averla vista per primi. Vardiello pensò di consolarli offrendo qualche bottone giallo dei suoi, in fondo, lui ne aveva trovato un vaso pieno. I signori insospettiti portarono Vardiello davanti al giudice e lì, il ragazzo raccontò di aver trovato il vaso quel giorno in cui dal cielo caddero fichi secchi e uva passa. Il giudice lasciò andare Vardiello e da quel giorno lui e la sua mamma vissero non solo amandosi l’un l’altro, ma anche con una gran fortuna!
Giorno 19 - Pelle d'asino
C’era una volta un re, molto saggio, leale e coraggioso. Al suo fianco aveva una regina molto saggia, leale e coraggiosa. Insomma, questo re, aveva davvero tutto quello che un re può desiderare. Un giorno però la regina iniziò a non sentirsi molto bene. I giorni passavano e le sue condizioni peggioravano. Finché morì. Il re era disperato. Per molti giorni e per molte notti restò chiuso nella sua stanza senza vedere nessuno. Non voleva mangiare e si dimenticava di bere. Non faceva altro che sospirare. Anche sua figlia era molto dispiaciuta e addolorata, non solo per aver perso la madre, ma perché ogni giorno vedeva suo padre straziarsi di dolore. Un giorno si decise a entrare nella stanza con il vassoio della cena, ma sarebbe stato meglio non l’avesse mai fatto! Il re quando la vide impazzì completamente: aveva gli occhi di sua madre, gli stessi capelli, identico il sorriso, insomma, il re era convinto di trovarsi di nuovo davanti a sua moglie. La povera fanciulla non sapeva cosa fare, non voleva essere la sposa di suo padre, così chiese aiuto alla sua madrina, che era una fata buona e saggia. Le consigliò di prendere tempo esprimendo al re desideri che non avrebbe potuto esaudire. Fu così che la ragazza chiese un abito color del tempo. Ma dopo due giorni i tessitori si presentarono a corte con un vestito bellissimo. Allora chiese un abito simile a una notte di luna. Dopo pochi giorni il vestito era pronto. Infine chiese un abito color del sole, Ma anche in questo caso la sua richiesta fu esaudita. La madrina allora le consigliò di chiedere al re la pelle dell’asino fatato. Il re, di certo, non avrebbe mai acconsentito a disfarsi di una simile fonte di ricchezza. L’asino, infatti, ogni volta che muoveva le orecchie, lasciava cadere una cascata di monete d’oro. Ma la mattina dopo la fanciulla si vide portare da un valletto la famosa pelle d’asino. Non le restava che fuggire il più lontano possibile. Per non farsi riconoscere si sporcò il viso con la fuliggine e si coprì le spalle e il capo con la pelle d’asino. Mise poi i vestiti e le sue cose più care in un baule; la fata le consegnò una bacchetta, le sarebbe bastato agitarla per far comparire il baule ogni volta che ne avesse avuto bisogno. Cammino e camminò, varcò i confini del regno e trovò lavoro in una fattoria. Pelle d’asino, così la chiamavano tutti sbeffeggiandola e umiliandola, dava da mangiare e puliva i pavimenti senza mai lamentarsi. Soltanto la domenica, durante le sue ore di riposo, si rifugiava nella sua camera, agitava la bacchetta, apriva il baule e indossava uno dei suoi vestiti. Una domenica passò da quelle parti un giovane principe e alzando gli occhi al cielo intravide pelle d’asino alla finestra. Incuriosito dai modi aggraziati della ragazza, il giovane principe andò dal fattore a chiedere chi fosse. Quello gli rispose che non c’era nessuna ragazza bella e aggraziata, ma solo pelle d’asino, brutta e sporca. Il giovane principe non si dava pace. Continuò a pensare a quella visione giorno e notte, notte e giorno. Non mangiava nemmeno più, finché si ammalò. Preoccupati, i suoi genitori, si chiesero cosa potessero fare per farlo stare meglio, finché questi disse: vorrei una focaccia preparata da Pelle d’asino! La ragazza fu contenta di questo compito e si mise subito a impastare indossando uno dei suoi vestiti e un suo prezioso anello, ma, questo, finì nell’impasto. Il principe si accorse subito di quanto valesse e disse che avrebbe sposato la ragazza dalle dita lunghe e affusolate che lo avesse calzato perfettamente. Tra tutte le ragazze del regno solo Pelle d’asino ci riuscì, proprio quella più sporca e vestita più miseramente. Il giovane principe la riconobbe e le dichiarò il suo amore. Dopo qualche tempo si celebrarono le nozze e gli sposi invitarono anche il vecchio re che, nel frattempo, aveva recuperato la ragione ed era ben felice che la figlia avesse incontrato l’amore, quello vero.
Giorno 3 - II libriccino magico
C’era una volta, un ragazzo di nome Simone, era molto sveglio e intelligente e aveva una vera e propria passione per i libri. Leggeva un libro dopo l’altro e alla fine, si accorse di aver letto tutti i libri che era riuscito a trovare. Così decise di farsi assumere in una legatoria, avrebbe lavorato e guadagnato qualche soldo, ma, soprattutto, avrebbe avuto a disposizione tanti, tantissimi libri da leggere. Il primo giorno di lavoro alla bottega del mastro legatore Simone spolverò e riordinò montagne di libri. Aveva avuto il permesso di leggere tutto quello che volesse, tranne un piccolo libro dalla copertina rossa appoggiato sulla mensola in alto. Per tutto il giorno Simone ebbe un gran daffare e non ci pensò proprio a quel libriccino, ma a fine giornata, complice un po’ di noia, un po’ di stanchezza e un bel po’ di curiosità, Simone prese il libriccino e lo aprì. Beh, non lo immaginerete mai, ma il libriccino conteneva le formule magiche che servivano per trasformarsi in qualunque cosa, animale o persona si desiderasse. La coscienza di Simone provò a sussurrargli di essere prudente, di rimettere a posto il libro, di pensare che il suo maestro dovesse essere un mago e magari avrebbe potuto punirlo severamente per aver disubbidito. Ma la curiosità non vedeva l’ora di fare qualche trasformazione e così Simone si trasformò in rondine. Volò fino a casa di suo papà, deciso a sfruttare la magia del libriccino per farlo ricco. Così, si trasformò in bue e si lasciò condurre da suo padre al mercato per essere venduto in cambio di un sacco di denaro. Oh non temete, Simone si sarebbe potuto trasformare di nuovo, l’importante era mantenere il nastrino rosso che da bue aveva legato a una zampa. Ecco, ora immaginate la faccia del povero contadino che aveva speso un mucchio di quattrini per il bue, che aveva dovuto tirarselo dietro fino a casa e che poi aveva visto sparire. Il giorno dopo, la truffa ehm, la magia, si rinnovò. Simone era al mercato nelle sembianze di un bellissimo cavallo, ma di fronte a lui c’era il maestro, cioè, il mago e l’aveva riconosciuto. Pagò due mucchi di soldi, ma si portò via il cavallo, e con tutto il nastrino. Ed era davvero un guaio perché Simone, cioè il cavallo, finché aveva il nastrino attaccato alla zampa, non poteva cambiare forma. Simone era pentito, non pensava di combinarla così grossa, così la coscienza questa volta fece la voce grossa e decise di aiutarlo attirando l’attenzione di un bambino che passeggiava fuori dalla stalla dove Simone, anzi, il cavallo, era stato legato. Quando bambino tagliò il nastrino vide il cavallo trasformarsi in rondine e volare via. Ma il mago non aveva nessuna intenzione di lasciarlo scappare via impunito, così si tramutò in uno sparviero e si slanciò all’inseguimento. Sorvolando un giardino dove stava seduta una bella ragazza Simone si trasformò di nuovo, questa volta in un anello e cadde dal cielo direttamente nel grembo e tra le mani della ragazza. Il mago fu altrettanto veloce e si trasformò in un giovane principe che reclamava l’anello perduto. Simone allora si trasformò in un chicco di grano e il mago, a sua volta, si trasformò in un gallo per mangiarselo. Simone fu più furbo e si trasformò in una volpe. Il mago, anzi, il gallo, questa volta non ebbe scampo. Riprese le sue sembianze, Simone si presentò alla ragazza e scoprì che anche lei amava molto leggere, così le promise di prestarle uno dei suoi libri, ma di certo non il libriccino magico!
Giorno 21 - Barbablù
C’era una volta Barbablù, un uomo grande, grosso e molto ricco. Un giorno si presentò al castello accanto al suo e annunciò che avrebbe dato una gran festa alla quale erano invitate tutte le fanciulle del regno. Barbablù aveva infatti deciso di prendere moglie, per la settima volta. Fece sfoggio in grande stile di tutta la sua ricchezza allestendo banchetti sontuosi, tornei e battute di caccia, balli fino a tarda notte. Anche Primula e Anna parteciparono e rimasero colpite da tanto sfarzo. Anna chiese però a Barbablù che fine avessero fatto le sue precedenti mogli, ma questi non rispose e rimase molto seccato. Anche Primula si accorse di qualcosa che non la convinceva, ma scelse lo stesso di sposare Barbablù, cedendo alle lusinghe dell’uomo, affascinata dalle sue ricchezze e dal suo comportamento gentile. Alla fine, si disse, quella barba blu, non era poi così tanto blu. Così, Primula e Barbablù si sposarono. Un giorno Barbablù annunciò alla moglie che si sarebbe assentato dal castello per un lungo viaggio. Le consegnò le chiavi di tutte le porte e di tutti i forzieri. Avrebbe potuto usarle tutte, meno quella chiave piccina che apriva una porticina nelle segrete. Appena Barbablù fu partito, Primula iniziò a girare per tutto il castello, curiosa di sapere a quale porticina si riferisse quella chiave. Alla fine la trovò, nella cantina più fonda. Quando aprì la porta scoprì che nella stanza vi erano i corpi delle mogli che Barbablù aveva sposato in precedenza e poi ucciso. Si prese una paura che non vi dico, tanto che le cadde di mano la chiave, proprio in una chiazza di sangue che era rimasta sul pavimento. Primula iniziò subito a strofinare con una pezza di stoffa, ma la macchia era sempre lì. Provò e riprovò, per tutta la notte, ma la macchia era più rossa di prima e non c’era più tempo. Barbablù era ritornato. Le chiese indietro il mazzo di chiavi e, nonostante i tentativi di dissuaderlo, Barbablù strappò le chiavi dalla cintura di Primula. Si accorse subito della macchia di sangue e montò su tutte le furie. A nulla valsero i tentativi di giustificarsi di Primula, Barbablù la condannò a morte. Non c’era molto tempo e Primula, anziché piangere e pregare per la propria vita, corse dalla sorella Anna, ospite in quei giorni al castello. Le chiese di salire sulla torre più alta per andare a controllare l’arrivo dei loro fratelli che avevano promesso di farle visita proprio quel giorno. All’improvviso comparve una nuvola di polvere all’orizzonte e due cavalieri in lontananza, ai segnali di Anna, i fratelli spronarono i cavalli. In men che non si dica i giovani arrivarono al castello, si gettarono contro il portone, che cedette di schianto. Quando videro la lama della spada di Barbablù sospesa sulla testa di Anna si scagliarono contro quell’uomo e lo uccisero con le loro spade. Morto Barbablù, Primula ereditò tutte le ricchezze del marito e, a poco a poco, ritrovò anche la felicità e conobbe il vero amore.
Giorno 18 - Re Mentone
C’era una volta un re che aveva una figlia bellissima, ma anche superba e sprezzante. Il re suo padre era molto preoccupato, sua figlia aveva davvero un caratteraccio, di questo passo sarebbe rimasta da sola per tutta la vita, senza un’amica, né un compagno. Pensò allora di dare una bella festa e invitare tutti i principi e le principesse del reame. Ma fu un disastro. Per tutta la sera la principessa prese in giro gli invitati criticando il loro aspetto, finché giunse un giovane re molto distinto ed elegante. La principessa, quando lo vide, lo prese in giro per il suo mento sporgente e lo derise chiamandolo “Re Mentone”. Basta, il re era stanco di tanta insolenza. Il giorno dopo ecco giungere alla reggia un suonatore ambulante senza un dente, sporco e vestito di stracci. Raccontò di abitare in una capanna dal tetto crollante e il tavolo zoppicante. Povero e malato, stanco e affamato. Praticamente perfetto. Il re pensò che avesse davvero bisogno di un po’ di compagnia e di conforto e invitò la principessa ad andare a vivere a casa sua. Senza servitori e domestici, che aveva sempre trattato senza riguardo, la principessa imparò a fare le pulizie e a cucinare. Ma il suonatore era talmente povero che per tirare avanti decise di insegnarle un mestiere. Le fece vedere come intrecciare i giunchi per ricavare dei cestini, ma uscì fuori una cosa tutta sbilenca. Allora le spiegò come filare la lana, ma anche questa volta fu un disastro. Non mangiarono per due giorni e con i soldi che risparmiarono il suonatore comprò dei vasi che avrebbero poi venduto al mercato. Ma la principessa aveva paura che qualcuno in piazza la riconoscesse, così, ancora troppo piena di sé, sistemò tutto il vasellame all’angolo di una stradina. All’improvvisò si sentì un fragoroso rumore di zoccoli: un soldato a cavallo era appena andato a finire al galoppo in mezzo ai vasi, facendoli volare in aria in mille pezzi. Quella sera il suonatore disse alla principessa che le aveva trovato un lavoro come domestica. Ogni giorno sbrigava le faccende più umili e i lavori più duri, poi, alla sera, riempiva i due pentolini che aveva nelle tasche del grembiule con gli avanzi da portare a casa per cena. Ma la principessa, non era più la stessa: parlava solo dolcemente, non era più prepotente e non le piaceva più ridere degli altri. Una sera, durante i preparativi per la cena di fidanzamento del re, si affacciò alla porta e si rese conto, per la prima volta, di quanto fosse bello il mondo della corte, con i vestiti eleganti, le dame e i cavalieri. Poi lo riconobbe. Il re, era Re Mentone! Non fece in tempo a scappare che anche lui la riconobbe. Incurante degli sguardi stupiti e delle risate dei cortigiani, Re Mentone la invitò a ballare. Nel vortice delle danze il grembiule si slacciò e i pentolini con gli avanzi di cibo si rovesciarono in terra. La principessa credette di morire per la vergogna e, fra le risate generali, corse verso la porta, ma una mano forte e delicata la trattenne. Re Mentone le offrì di vivere a palazzo con lui. La principessa pensò immediatamente al suonatore, ma Re Mentone le confidò di essere lui il suonatore, di essersi travestito per dimostrarle il suo amore sincero, ma, soprattutto, perché aveva intravisto del buono in lei, bastava solo l’occasione per farlo uscire fuori.
Giorno 9 - Sette in un colpo
C’era una volta un ragazzo di nome Berto, faceva il sarto, ma aveva sempre la testa piena di sogni, avventure e grande impresse. Un giorno, mentre era intento a cucire, sentì la voce di una venditrice ambulante proprio sotto la sua finestra. Aveva un paniere pieno di cose buone e Berto comprò un vasetto di marmellata. Tagliò una fetta di pane, la spalmò con il burro e la ricoprì con la marmellata. Era densa e profumata e faceva venire voglia di mangiarla in un sol boccone. Era talmente allettante che tutte le mosche di casa, ma che dico di casa, del vicolo, ma che dico del vicolo, di tutto il paese si precipitarono nella casa di Berto per assaggiarla. Infuriato, Berto, prese uno straccio, lo agitò in aria e poi sferrò un colpo deciso, un gran colpo: uccise sette mosche in una sola volta. Sette, sette in un colpo! Fiero del suo atto di puro eroismo, Berto si cucì una cintura che testimoniasse la sua impresa: sul davanti, a lettere d’oro, spiccava una scritta “sette in un colpo”. Sulle ali dell’entusiasmo decise di partire in cerca di avventura. Portò con sé soltanto un pezzo di cacio e un uccellino che al momento della partenza gli era venuto vicino nel, ahimè, vano tentativo di dissuaderlo. Cammina, cammina incontrò un gigante. Il gigante notò la sua cintura e lo prese in giro canzonatorio. Berto non si lasciò abbattere e anzi, gli intimò di smettere di ridere altrimenti lui, lui, lui, il gigante, sarebbe stato l’ottavo! Il gigante prese una pietra, se la mise nel palmo della mano e la strizzò fino a farne uscire dell’acqua. Berto non era certo impressionato: prese una pietra che aveva in tasca (sì, era proprio il pezzetto di cacio che aveva portato con sé) e fece altrettanto. Il gigante era sbalordito, ma propose un’altra sfida. Prese un’altra pietra e la lanciò in aria, talmente in alto da farla sparire tra le nubi. Berto fece lo stesso, ma il gigante non si accorse che quello che aveva tra le mani era un uccellino, che appena in aria si librò in volo oltre le nuvole. Alla fine della giornata Berto di addormentò sotto il tronco di una grande albero. Al mattino, lo trovarono i sudditi del re e lessero la scritta sulla cintura. Stupiti e curiosi aspettarono che Berto si risvegliasse e poi gli raccontarono che due giganti, Scannasei e Scorticacinque, affliggevano il loro regno, ma Berto, forse, avrebbe potuto liberarli. Berto accettò con entusiasmo e subito si mise in cerca dei due giganti. Li trovò addormentati ai piedi di un albero. Si riempì le tasche di pietre, si arrampicò sull’albero, poi iniziò a tirare le pietre in testa a Scannasei, che subito se la prese con Scorticacinque. Poi iniziò a tirare le pietre in testa a Scorticacinque, che subito se la prese con Scannasei. Sotto lo sguardo tranquillo di Berto i due giganti continuarono a litigare e iniziarono a darsi botte da orbi. Quando restarono a terra sfiniti, Berto li legò e soddisfatto riferì al re dell’impresa. Ma non era finita qui! C’era ancora un’altra impresa da compiere. Il re chiese infatti a Berto di affrontare l’unicorno che terrorizzava le terre a sud del regno. Detto, fatto. Berto partì con una scure e una corda. L’unicorno appena lo vide iniziò a scalpitare, abbassò la testa e iniziò a galoppare nella sua direzione con l’intenzione di infilzarlo in pieno petto con il suo corno. Berto era appoggiato al tronco di un albero e non faceva il minimo movimento, aspetta, aspetta, aspetta fino all’ultimo secondo e sbam! Berto si era spostato e l’unicorno era andato a sbattere contro l’albero con una tale forza che il suo tronco si era infilzato profondamente nel legno. Con l’accetta Berto tagliò il tronco e con la corda legò l’unicorno. Il giorno dopo un banditore annunciava: Sette in un colpo, altrimenti detto Berto, è il nuovo capo della guardia reale! Hip Hip urrà!
Giorno 11 - Cigno, appiccica!
C’era una volta un ragazzo molto buono e molto povero di nome Goffredo. Ogni giorno doveva andare nel bosco a fare la legna e, credetemi, se vi dico che anche il più rigoglioso e fresco dei boschi non ha niente di bello, quando si tratta di faticare. Una mattina, quando Goffredo era più sconsolato del solito, incontrò una vecchietta. Lo consolò e gli domandò perché fosse ancora lì, perché non se ne fosse andato a cercare miglior fortuna e felicità: in fondo, non era difficile, bastava solo avere il coraggio di fare il primo passo e poi continuare a mettere un piede avanti all’altro, senza mai voltarsi indietro. Goffredo trovò il coraggio e, seppur senza mèta, partì. Lungo il sentiero incontrò di nuovo la vecchietta. Lo lodò e lo incitò a proseguire, fino a trovare un albero di pere. Sotto a quell’albero avrebbe trovato un uomo che dormiva e accanto a lui un cigno. Se già vi sembra strano, aspettate di sentire cosa aggiunse dopo la vecchietta. Il cigno infatti era fatato. Se qualcuno lo tocca bisognava dire “Cigno, appiccica!” e il malcapitato sarebbe rimasto appiccicato al cigno. Una cosa buffa, vero? Proprio quello che ci voleva per risollevare il morale della corte del re. Erano anni che la principessa era senza amici e non si faceva una bella risata! Ecco, cosa avrebbe dovuto fare Goffredo, magari il re avrebbe trovato un generoso modo per ringraziarlo! La vecchietta consegnò a Goffredo anche una bacchetta, con quella avrebbe poi potuto liberare le persone che fossero rimaste appicciate. Goffredo riprese il cammino e presto arrivò al pero. Zitto, zitto sciolse il cigno e se ne andò. Poco dopo passò davanti a una casa in costruzione e un muratore volle accarezzare il cigno, che era davvero molto bello. E naturalmente, rimase appiccicato. Poi fu la volta di una ragazza di nome Caterina, dopo ancora di uno spazzacamino con il naso ancora sporco di fuliggine, infine di un pagliaccio che si esercitava per il suo spettacolo. Irritato da tutto quello schiamazzo, un funzionario del re intimò di consegnare tutti alla polizia, ma quando afferrò la giacca del pagliaccio, Goffredo fu più veloce e disse subito “Cigno, appiccica!”. Così anche il funzionario e, poco dopo, sua moglie, nel disperato tentativo di riprendersi il marito, si aggiunsero alle maglie di questa catena di matti! Erano quasi arrivati al palazzo quando incontrarono una magnifica carrozza, dalla quale spuntava il viso triste di una bellissima ragazza. Alla vista del corteo però i suoi occhi si fecero sempre più stupiti e scoppiò in una fragorosa risata. E ogni volta che li guardava, complici anche le loro facce buffe, scoppiava in una nuova risata. Quando furono arrivati alla reggia, anche il re iniziò a ridere a crepapelle tanto che, data la sua età, il medico di corte iniziò a preoccuparsi per la sua salute. Ma il re sembrava non preoccuparsene, anzi, era grato a Goffredo per avergli portato tanta felicità. Come ricompensa gli offrì una bellissima casa circondata da campi e giardini. Prima di andarsene Goffredo si ricordò della bacchetta e con un colpo leggero toccò il muratore, Caterina, lo spazzacamino, il pagliaccio, il funzionario e sua moglie, ma proprio in quel momento la principessa si avvicinò al cigno e Goffredo fu velocissimo a dire: “Cigno, appiccica!”. Entrambi risero molto, infatti nessuno dei due aveva voglia di salutare l’altra, così si ripromisero di vedersi il giorno dopo. E quello ancora dopo.
Giorno 16 - Biancarosa e Rosella
C’era una volta un’anziana donna che viveva in una casetta nel bosco insieme alle sue due figlie, Biancarosa e Rosella. Rosella amava correre e saltare per i prati, andare a caccia di farfalle e cogliere i fiori. Biancarosa preferiva restare in casa e disegnare, leggere e cucire. Una sera d’inverno, in cui fuori nevicava e faceva un gran freddo, mamma e figlie erano in casa a scaldarsi davanti al camino. Mentre stavano per bere una buona tazza di tè caldo, qualcuno bussò alla porta. Era un orso, un orso enorme! L’orso prese la parola cercando di tranquillizzare le ragazze e la signora, inf fondo, cercava solo un posto dove scaldarsi un po’. Lo invitarono a entrare e ad avvicinarsi al fuoco, lo asciugarono e gli spolverarono la pelliccia dalla neve. Passò la notte e poi un’altra, e un’altra ancora. Passò l’inverno al calduccio, tutto l’inverno, perché nella foresta gelata, l’orso non aveva una casa. A primavera l’orso ringraziò per l’ospitalità e l’accoglienza, poi se ne andò perché aveva dei tesori da custodire. Spiegò che durante l’inverno quando la neve indurisce la terra, i nani se ne stanno rintanati nelle loro grotte, ma in primavera si trasformano in terribili ladruncoli e scavano lunghe gallerie per rubare tutto quello che trovano. Quando se ne andò, Rosella notò che un ciuffo della pelliccia era rimasto attaccato alla maniglia della porta e nel punto della groppa da cui si era staccato brillava una luce soffusa. Ma l’orso si era allontanato e non c’era più tempo per chiedere spiegazioni. Passarono le settimane e dell’orso non seppero più nulla. Un giorno, Biancarosa e Rosella erano andate nel bosco per fare legna quando udirono una strana vocetta che si lamentava vicino al tronco di un albero caduto. Era un nano e gli era rimasta impigliata la barba in una fessura del tronco. Tira e tira, ma la barba non veniva fuori. Il nano, irritato e indispettito cominciò a prendersela con le due ragazze, incapaci, a suo dire, di aiutarlo. Biancarosa allora estrasse un paio di forbici e zac, tempo di una sforbiciata il nano era di nuovo libero. Libero, ma ancora più arrabbiato perché la sua lunga e folta barba ora era stata tagliata. Così, anziché ringraziare e salutare, se ne andò borbottando caricandosi sulle spalle un grosso sacco che aveva nascosto nell’erba. Qualche giorno dopo udirono provenire dallo stagno una vocetta ben nota. Le due sorelle si avvicinarono alla riva e videro il nano che aveva preso all’amo un grosso pesce, ma ora non riusciva a tirarlo a riva. Vedendosela brutta, aveva abbandonato la canna, ma la barba era rimasta impigliata nella lenza. Biancarosa tagliò un altro pezzetto di barba e lo liberò. E il nano, sempre brontolando, si rimise sulle spalle il sacco e riprese in fretta il suo cammino. Tempo dopo, mentre erano a spasso nel bosco, Biancarosa e Rosella udirono la solita vocetta. Era proprio il nano e un’aquila se lo stava portando via. Le ragazze si aggrapparono alle gambe del nano e l’aquila alla fine lasciò la preda e volò via. Il nano, come al solito, ricoprì le ragazze di improperi e poi sparì in gran fretta nella sua grotta tra i massi. Poco tempo dopo, ripassando da quelle parti, Biancarosa e Rosella rimasero a bocca aperta: davanti alla grotta del nano vi erano tantissime pietre preziose e il nano vi faceva la guardia. Ad un tratto arrivò l’orso che, nonostante il nano gli consigliasse di mangiarsi le due ragazze che erano sicuramente più succulente di lui, gli ruggì in pieno volto, così forte, che lo fece correre velocemente fino all’altro capo della foresta. L’orso, in realtà, era un giovane principe, e con la fuga del nano poté riprendere le proprie sembianze. In segno di riconoscenza e gratitudine permise alle due ragazze di tenere per sé tutte quelle ricchezze. Così, da quel giorno, Biancarosa, Rosella e la loro mamma, vissero felici, contente e con una gran fortuna!
Giorno 5 - Pollicina
C’era una volta una donna che amava molto i fiori. Ogni giorno se ne prendeva cura innaffiando, potando, assicurandosi che avessero buona terra e abbastanza luce. La donna però era sola e non aveva nessuno a farle compagnia, da amare alla pari dei suoi fiori. Un giorno, mentre era impegnata a togliere le foglie secche, raccolse un semino. Non ne aveva mi visto uno simile e decise di piantarlo. Dal seme venne fuori prima una fogliolina, poi due, poi un gambo e infine cominciò a formarsi il bocciolo. Era un tulipano. Quando si schiuse, tra i suoi petali comparve una bambina piccola, piccola. Piccola, come un pollice. Per questo, la chiamò Pollicina. La donna era felicissima e ogni giorno parlavano e cantavano insieme. Un giorno, saltellando sotto la sua finestra, un rospo ascoltò il canto così dolce e melodioso di Pollicina e si convinse di doverla avere tutta per sé. La portò con sé sotto il suo giunco quella stessa notte mentre ancora dormiva e, per evitare che potesse svegliarsi e scappare spaventata, la adagiò su una bella foglia di ninfea in mezzo all’acqua. Al risveglio, immaginatevi lo stupore di Pollicina trovandosi in mezzo allo stagno di fronte a due rospi. Il più giovane non perse tempo e le disse che sarebbe diventata sua moglie. Pollicina, disperata, scoppiò in lacrime. I pesci dello stagno decisero di aiutarla, così, rosicchiarono il gambo della foglia e lasciarono che fosse spinta lontano dalla corrente, dai rospi, ma anche (ahimè) dalla sua casa. Una volta a riva, Pollicina dovette iniziare a cavarsela con le sue forze. Camminò e camminò per la foresta finché arrivò a una strana casetta. La casa apparteneva a un vecchio topo che decise di ospitarla e, in cambio, Policina cantava per lui. Un giorno venne a far visita al topo il suo vicino di tana, un buon talpone, elegante e distinto dalla lucida pelliccia nera, un gran lavoratore, ma odiava il sole. La sua tana era un intricato labirinto di gallerie e cunicoli scavati sotto terra. In uno di questi corridoi era adagiata una rondine. Era caduta dal tetto e non si muoveva. Pollicina si inginocchiò e si accorse che la rondine era ancora viva. Subito si diede fare tenendola al caldo, poi le portò da mangiare. L’inverno fu lungo e nel buio della tana del Talpone e la rondine attendeva impaziente la primavera per riprendere il volo. Promise a Pollicina che l’avrebbe portata con sé, ma lei, ancorché si sentisse soffocare al buio senza la luce del sole, non voleva lasciare il Topo e il Talpone che erano stati così gentili con lei. Un giorno d’autunno, Pollicina non resistette e uscì fuori per vedere il sole. All’improvviso, sentì un fruscio d’ali e vide un uccello posarsi accanto a lei. Era la rondine che aveva salvato. Volarono fino ad un paese caldo e pieno di colori, dove crescevano grandi fiori, ognuno abitato da una piccola creatura. Lì Pollicina era davvero sé stessa, ed era felice.
Giorno 15 - I tre cani
C’era una volta un vecchio pastore che giunto in punto di morte aveva da lasciare ai suoi due figli una casetta e tre pecore. La ragazza scelse la casa, il ragazzo, di nome Brando, se ne andò in cerca di fortuna con le tre pecore. Le cose non andavano per il verso giusto, quel giorno, Brando sedeva sconsolato ai piedi di un albero, quando incontrò uno strano signore che teneva al guinzaglio tre cani. Questo bizzarro figuro gli propose uno scambio: i tre cani in cambio delle tre pecore. Brando era titubante, le pecore gli davano latte e formaggio. Il signore però gli disse che i tre cani erano fatati: il primo si chiamava portami da mangiare, il secondo Mangialo, il terzo Spezzaferroeacciaio. Chiamandoli con il loro nome, ogni volta, i cani erano in grado di esaudire quello che il loro nome prometteva. Portami da mangiare avrebbe potuto portare cibo e vivande di qualsiasi tipo. Magialo avrebbe sbranato qualunque cosa e Spezzaferroacciaio, con i suoi denti, era in grado di frantumare qualunque cosa, anche i materiali più duri e resistenti. Brando acconsentì e il cambio fu fatto. Brando decise subito di fare una prova. Chiamò il primo cane, Portami da mangiare, che si allontanò e in un attimo fu di ritorno con un paniere pieno di vivande. Certo, a questo punto, la domanda sorge spontanea, ma perché mai il vecchio signore avrebbe voluto sbarazzarsi dei tre cani? La risposta è altrettanto semplice: perché i tre cani non volevano mai andare tutti e tre nella stessa direzione e il vecchio non aveva più la forza nelle braccia per trattenerli. Il signore se ne andò con le sue pecore, mentre Brando se ne stava ancora lì a cercare di capire come fare con i tre cani quando passò lungo la strada una carrozza parata a lutto. Il cocchiere gli spiegò che da quelle parti viveva un terribile drago e, ogni anno, per placare le sue ire, gli veniva sacrificata una giovane ragazza del paese. Quell’anno, la sorte aveva scelto la figlia del re, che tra i singhiozzi, veniva portata alla montagna del drago. Brando decise di scortarla e di difenderla. Quando furono di fronte al drago, Brando chiamò a squarciagola il cane di nome Mangialo, che si scagliò contro il drago e lo mangiò in un boccone. Dopo cinque minuti del drago non rimanevano che i denti e il naso. La principessa era grata a Brando e voleva ricompensarlo una volta tornati alla reggia, ma Brando, pur fiero, declinò l’offerta e le diede appuntamento a tre anni, nei quali si era ripromesso di viaggiare e conoscere il mondo, fare fortuna e diventare un uomo ricco e famoso. Appena Brando si fu allontanato arrivò il cocchiere e approfittando del fatto che Brando avesse rifiutato ogni forma di onore e ricompensa pensò che avrebbe potuto averli lui, tutti per sé. La principessa, fra le lacrime, fu costretta a giurare di essere stata salvata proprio dal valoroso cocchiere. Il re promise al cocchiere che avrebbe potuto sposare la principessa, ma, visto che era molto giovane, avrebbe potuto farlo soltanto dopo tre anni. Il giorno delle nozze Brando fece il suo ingresso in città. Non era diventato un ricco signore, non era a bordo di un’elegante carrozza, vestito di stoffe pregiate, e non aveva fatto fortuna come sperava. Certo, era difficile con tre cani che tiravano ognuno da pauna parte e poi anche perché, essendo i suoi pensieri sempre rivolti alla principessa, si era dimenticato di andare a cercarla questa benedetta fortuna. Quando seppe che la principessa stava per sposare l’uomo che l’aveva salvata dal drago, saltò su tutte le furie e disse a tutti che quel cocchiere era un bugiardo. Per tutta risposta venne arrestato e messo in prigione. Mentre se ne stava sconsolato, seduto in un angolo con una catena di ferro ai piedi, sentì raspare alla finestrella. Spezzaferroeacciaio si fece avanti e iniziò a rosicchiare la catena. Poi Brando saltò in groppa a Magialo per fuggire via, mentre Portami da mangiare si era procurato un cesto di cose buone direttamente dal banchetto reale. Lì la principessa lo aveva riconosciuto. Chiese al re di farlo seguire dalle guardie per rintracciare il suo padrone e quando Brando arrivò a palazzo gli occhi della principessa splendevano di gioia. Il cocchiere finì in prigione, Brando diventò principe e chiese che anche sua sorella potesse vivere con loro. A quel punto, i tre cani non avevano più nulla da donare a Brando e alla sua famiglia, così si trasformarono in uccelli, spiegarono le ali e volarono via.
Giorno 7 - L'uccello d'oro
C’era una volta un re che aveva un giardino straordinario. Vi cresceva, infatti, niente di meno che un albero dalle mele d’oro. Il re era molto orgoglioso delle sue mele e ogni sera, prima di andare a letto, le contava. Una sera si accorse che ne mancava una, manco a dirlo, chiamò le guardie e tutti si misero alla ricerca del ladro. Cerca, cerca, ma nessuno riuscì a trovare il ladro, né la mela. La sera successiva, il re decise di mettere a guardia dell’albero il figlio maggiore, ma il giovane si addormentò e al risveglio si accorse che era sparita un’altra mela. La sera dopo, il re decise di mettere a guardia dell’albero il suo secondogenito, ma le cose non andarono diversamente. Il giovane si addormentò e al risveglio si accorse che era sparita un’altra mela. L’ultima sera, il re decise di mettere a guardia dell’albero suo figlio minore, di nome Bertrando. Quella notte, proprio a mezzanotte, Bertrando udì un frullio d’ali e scorse tra i rami dell’albero un uccello d’oro. Era lui che ogni sera coglieva una mela e poi si allontanava. Bertrando scoccò una freccia, ma l’uccello continuò a volare e a terra rimase solo una piuma d’oro. Il mattino dopo il re era entusiasta, altro che mele, adesso aveva un uccello e doveva averlo tutto per sé. E così decise di mandare alla ricerca dell’uccello d’oro suo figlio maggiore. Lungo il cammino il giovane incontrò una volpe che gli diede un indizio: nel villaggio più vicino avrebbe incontrato due locande, e avrebbe dovuto scegliere quella misera, senza acqua né riscaldamento. Il principe non credeva alle sue orecchie e naturalmente scelse la locanda più bella. Nel frattempo il re aveva fatto partire anche il suo secondogenito. Anche lui scelse la locanda più bella. Lì vi trovò suo fratello maggiore a spassarsela con canti e danze. Passarono i giorni e il re, non vedendo tornare i suoi figli, decise di far partire Bertrando. Dopo l’incontro con la volpe si recò alla locanda brutta, dove passò una notte d’inferno sul materasso duro come il legno. Al mattino dopo, però, la volpe era lì, pronta con un altro indizio: di lì a poco sarebbe arrivato a un castello e proprio lì avrebbe trovato l’uccello d’oro in una gabbia di legno. Si raccomandò anche di non mettere l’uccello d’oro nella gabbia d’oro, altrimenti sarebbero stati guai. All’arrivo al castello, però, Bertrando si era già dimenticato e pensando di fare la cosa giusta mise l’uccello d’oro nella gabbia d’oro. Le guardie del castello lo catturarono e il re lo condannò a morte, avrebbe avuto salva la vita solo se fosse riuscito a portargli il cavallo d’oro. Sconfortato Bertrando si mise alla ricerca del cavallo d’oro e, per fortuna, ancora una volta incontrò la volpe, che gli disse di non mettergli in groppa la sella d’oro. Ma la fretta giocò di nuovo scherzo a Bertrando che subito dopo aver messo la sella d’oro al cavallo d’oro si ritrovò circondato dalle guardie. Anche questa si salvò, ma il re si fece promettere in cambio la principessa dal cuore d’oro. Per fortuna, ancora una volta, Bertrando incontrò la volpe che si raccomandò di prendere per mano la principessa, ma di non farle salutare i suoi genitori. Avete già capito come è andata finire? Sì, anche questa volta Bertrando si mise nei guai e questa volta, per avere salva la vita, avrebbe dovuto spianare una montagna in soli otto giorni. Per fortuna, anche questa volta, però, comparve la volpe che lo aiutò scavando e spianando la montagna. La volpe si raccomandò di non consegnare la principessa d’oro senza aver prima preso il cavallo d’oro. Bertrando le diede ascolto e con la principessa d’oro e il cavallo d’oro andò a recuperare l’uccello d’oro. Prima di rientrare nel regno di suo padre, Bertrando passò per il paese dove aveva soggiornato alla locanda brutta e lì scoprì che i suoi fratelli si erano riempiti di debiti a forse di festeggiare senza lavorare e così stavano per essere giustiziati. Bertrando pagò i loro debiti, ma questi, una volta liberi, si impadronirono di tutte le sue ricchezze e tornarono a casa. La volpe decise ancora una volta di aiutarlo e così, nascosto sotto le vesti di un mendicante, Bertrando tornò a casa. La principessa lo abbracciò e racconto a tutti la verità. A questo punto anche la volpe poteva avere il suo lieto fine e si trasformò in un bel principe che non era altro che il fratello della principessa dal cuore d’oro.
Giorno 4 - La piccola guardiana d'oche
C’era una volta una regina anziana e malata che si era premurata di affidare sua figlia, e buona parte delle sue ricchezze, alla famiglia di un regno lontano, in modo che potesse avere qualcuno che si prendesse cura di lei, che potesse viaggiare e studiare. Per non lasciare che Noblessa, questo era il nome della giovane principessa, affrontasse un viaggio così lungo tutto da sola, pensò di farla accompagnare da una damigella. Il giorno della partenza, Noblessa salì in groppa a Falada, la sua cavalla, che la accolse con un saluto di benvenuto. Sì, Falada sapeva parlare. Anche sua madre la salutò, ma prima si punse un dito con uno spillo e fece cadere tre gocce di sangue su un fazzoletto. Noblessa era piuttosto stupita, ma sua madre si raccomandò di conservarlo, quel fazzoletto, perché avrebbe potuto esserle utile. Le due ragazze viaggiavano già qualche ora e Noblessa si fermò vicino a un fiume perché aveva sete. Chiese alla damigella di portarle un po’ d’acqua, ma lei si rifiutò, derise Noblessa e la incitò a sbrigarsi perché non aveva tempo da perdere. Noblessa si sporse per bere e il fazzoletto le cadde in terra. Ora, dovete sapere che quel fazzoletto era magico e aveva il potere di rendere Noblessa più forte e potente. La damigella lo sapeva e così, appena ebbe l’occasione, se ne impossessò. Ora era lei a comandare e così la costrinse a scambiare i vestiti e i cavalli. All’arrivo a corte, la damigella, trasformatasi in Noblessa, diede disposizioni che la sua damigella, cioè la vera Noblessa, fosse adibita a qualche lavoro domestico. Il re fu meravigliato nel vedere una principessa tanto maleducata e arrogante accompagnata da una damigella così bella e gentile, ma accettò e Noblessa finì a fare la guardiana d’oche insieme al servo Corradino. Prima che la cavalla Falada potesse parlare e raccontare la verità, la damigella diede ordine di farle tagliare la testa. La principessa passava ogni mattina sotto l’arco dove la testa della cavalla era stata appesa: ogni mattina, quando passava con le sue oche la salutava, e la cavalla si dispiaceva nel vedere che la sua principessa avesse così triste destino. Ogni giorno, infatti, Corradino le faceva mille dispetti. Alla fine Noblessa non ne poté più e chiamò a sé tutte le sue forze, arrivò il vento, prima leggero, poi a soffiare vicino e portò via il cappello a Corradino che iniziò a correre qui e là per riacchiapparlo. La sera, quando furono di ritorno al palazzo, Corradino, morto di paura, corse dal re per dire che non voleva più andare nei campi con le oche con Noblessa. Il re, insospettito e curioso, il giorno dopo si nascose vicino alla porta, proprio sotto la testa di Falada e ascoltò il dialogo con la ragazza. Poi proseguì e vide anche che Corradino faceva mille dispetti alla sua compagna e poi era costretto a rincorrere il cappello che il vento gli portava via. Allora decise di scoprire il mistero e fece chiamare la piccola guardiana d’oche. Noblessa aveva timore a raccontare ad anima viva il proprio segreto, così il re uscì dalla stanza e lasciò che fossero i muri a raccogliere le parole di Noblessa. Nascosto dietro una tenda, però, ascoltò tutto e subito si fece incontro a Noblessa a braccia aperte, per spalancarle le porte e i cuori, della sua famiglia.
Giorno 1 - Il leone e il falegname
In una felice isola in mezzo al mare vivevano, in libertà, moltissime specie di animali. L’uomo non era mai arrivato fin laggiù, e nessuno degli animali che vi abitava lo aveva mai visto, né conosciuto. Una notte una piccola anatra, che viveva in quest’isola, fece un sogno bellissimo. La regina delle anatre le rivelò che ad appena tre giorni e tre notti di nuoto verso est c’era una terra meravigliosa. Il mattino dopo, ancora sconvolta, ma piena di entusiasmo partì. Nuotò per tre giorni e tre notti, con tutte le sue forze, con tutte le sue speranze, e quando raggiunse la spiaggia si addormentò sfinita. Quella notte sognò di nuovo la regina delle anatre che si congratulò con lei per l’impresa, ma con dispiacere le disse che aveva nuotato per tre giorni e tre notti, nella direzione sbagliata. A ovest c’era la terra degli uomini. Esseri terribili che catturavano e facevano loro schiavi gli animali. La piccola anatra si svegliò di soprassalto tutta impaurita e cercò subito un rifugio. Incontrò un cucciolo di leone che le disse di essere il figlio del re, il più coraggioso e più forte di tutti gli animali. Capendo di trovarsi di fronte a un personaggio tanto importante gli chiese aiuto. Il piccolo leone non si tirò indietro e, anzi, le propose di affrontare insieme l’uomo e sconfiggerlo, una volta per tutte. Poco più avanti incontrarono l’asino. Anche lui scappava dall’uomo, era stanco di indossare le briglie, mangiare poco e lavorare tanto. Così, anche l’asino si unì a loro. Fu poi la volta del cavallo e, dopo, del cammello. Camminarono e camminarono, finché s’imbatterono in uno strano essere, gracile e curvo, che tremava sotto il peso delle pesanti tavole di legno che portava sulla testa e della cassetta degli attrezzi che portava appesa a un braccio. Vedendo il leone, pensò che con un po’ d’astuzia avrebbe potuto catturarlo. Disse di essere un falegname e che le assi che portava servivano a costruire una casa, un rifugio sicuro per la pantera, per proteggerla dagli uomini. Il leoncino, risentito, voleva avere per primo una casa per proteggersi dall’uomo, era o non era il principe della foresta? Ma il falegname gli rispose che no, era già in accordi con la pantera e così, il leoncino si arrabbiò e balzò su, colpendolo con una zampata. Impaurito e sempre più tremante, il falegname iniziò, allora, a costruire una casa per il leoncino che nel frattempo si pavoneggiava tutto fiero della sua forza. Ora, come avrete capito, questo falegname era molto furbo. Per prima cosa non aveva detto di essere un uomo, poi aveva finto di avere paura e aveva convinto il leoncino a farsi fare una casa. Quindi, avete capito? Non gli stava costruendo una casa, ma una cassa, molto, molto solida, per catturarlo! Quando il piccolo leone entrò nella cassa, il falegname, con una mossa rapida, prese il coperchio e ce lo chiuse dentro. Purtroppo, a nulla era valsa la forza e la prepotenza del leone. Vi state chiedendo cosa ne fu degli altri animali? Allora: l’asino pensò che piuttosto che finire nella cassa, sarebbe stato meglio tornare a tirar carretti, il cavallo tornò dal suo fantino e il cammello tornò nel deserto a cercare lavoro presso qualche carovana di passaggio. Ah, manca la piccola anatra! L’anatra prese una gran rincorsa e scappò via, fino alla sua isola in mezzo al mare, dove non ci sono gli uomini e dove gli animali vivono felici e contenti, liberi, in pace e serenità.
Giorno 24 - Abdallah di terra e Abdallah di mare
C’era una volta un re che aveva una figlia bellissima, ma anche superba e sprezzante. Il re suo padre era molto preoccupato, sua figlia aveva davvero un caratteraccio, di questo passo sarebbe rimasta da sola per tutta la vita, senza un’amica, né un compagno. Pensò allora di dare una bella festa e invitare tutti i principi e le principesse del reame. Ma fu un disastro. Per tutta la sera la principessa prese in giro gli invitati criticando il loro aspetto, finché giunse un giovane re molto distinto ed elegante. La principessa, quando lo vide, lo prese in giro per il suo mento sporgente e lo derise chiamandolo “Re Mentone”. Basta, il re era stanco di tanta insolenza. Il giorno dopo ecco giungere alla reggia un suonatore ambulante senza un dente, sporco e vestito di stracci. Raccontò di abitare in una capanna dal tetto crollante e il tavolo zoppicante. Povero e malato, stanco e affamato. Praticamente perfetto. Il re pensò che avesse davvero bisogno di un po’ di compagnia e di conforto e invitò la principessa ad andare a vivere a casa sua. Senza servitori e domestici, che aveva sempre trattato senza riguardo, la principessa imparò a fare le pulizie e a cucinare. Ma il suonatore era talmente povero che per tirare avanti decise di insegnarle un mestiere. Le fece vedere come intrecciare i giunchi per ricavare dei cestini, ma uscì fuori una cosa tutta sbilenca. Allora le spiegò come filare la lana, ma anche questa volta fu un disastro. Non mangiarono per due giorni e con i soldi che risparmiarono il suonatore comprò dei vasi che avrebbero poi venduto al mercato. Ma la principessa aveva paura che qualcuno in piazza la riconoscesse, così, ancora troppo piena di sé, sistemò tutto il vasellame all’angolo di una stradina. All’improvvisò si sentì un fragoroso rumore di zoccoli: un soldato a cavallo era appena andato a finire al galoppo in mezzo ai vasi, facendoli volare in aria in mille pezzi. Quella sera il suonatore disse alla principessa che le aveva trovato un lavoro come domestica. Ogni giorno sbrigava le faccende più umili e i lavori più duri, poi, alla sera, riempiva i due pentolini che aveva nelle tasche del grembiule con gli avanzi da portare a casa per cena. Ma la principessa, non era più la stessa: parlava solo dolcemente, non era più prepotente e non le piaceva più ridere degli altri. Una sera, durante i preparativi per la cena di fidanzamento del re, si affacciò alla porta e si rese conto, per la prima volta, di quanto fosse bello il mondo della corte, con i vestiti eleganti, le dame e i cavalieri. Poi lo riconobbe. Il re, era Re Mentone! Non fece in tempo a scappare che anche lui la riconobbe. Incurante degli sguardi stupiti e delle risate dei cortigiani, Re Mentone la invitò a ballare. Nel vortice delle danze il grembiule si slacciò e i pentolini con gli avanzi di cibo si rovesciarono in terra. La principessa credette di morire per la vergogna e, fra le risate generali, corse verso la porta, ma una mano forte e delicata la trattenne. Re Mentone le offrì di vivere a palazzo con lui. La principessa pensò immediatamente al suonatore, ma Re Mentone le confidò di essere lui il suonatore, di essersi travestito per dimostrarle il suo amore sincero, ma, soprattutto, perché aveva intravisto del buono in lei, bastava solo l’occasione per farlo uscire fuori.
Giorno 2 - I sette corvi
C’era una volta, una donna che viveva con i suoi sette figli maschi, che erano la sua disperazione, e una figlia femmina, di nome Bertina, che era la sua consolazione. Un giorno, un pensiero le passò per la testa: che i suoi figli si levassero di torno almeno per un poco! Non se ne rese subito conto, ma la povera donna aveva pronunciato quelle parole ad alta voce e, in quello stesso momento, chissà per quale incantamento, i ragazzi si erano tramutati in corvi ed erano volati via gracchiando. Non era davvero quello che intendeva, almeno, non letteralmente, ma ormai era troppo tardi. Infatti, i sette corvi erano sette puntini neri sempre più lontani nel cielo. Nei giorni successivi il silenzio aveva invaso la casa: nessuno che corresse, né gridasse. I pavimenti erano lucenti, i divani in perfetto ordine. Ma la mamma e la bambina diventavano ogni giorno sempre più tristi. Finché, un giorno, la piccola Bertina decise di andare a cercarli. La mamma l’abbracciò e le fece indossare il suo anellino per avere fortuna. Bertina partì. Attraversò paesi e valicò montagne. Era molto stanca quando arrivò ai piedi di una roccia. In cima, c’era una strana casetta, sembrava costruita con sassolini impastati di fango e il tetto fatto con i ramoscelli. L’avete pensato anche voi? Sì, anche secondo me quella casa aveva qualcosa a che fare con i sette fratelli. E anche secondo Bertina, che si incamminò lungo un ripido sentiero fatto di lastroni di roccia. Era difficilissimo riuscire ad arrampicarsi per quella salita, ma Bertina doveva riuscirci a tutti i costi. Ad un tratto incontrò un’oca che vedendola così affaticate le offrì le sue ali e le sue zampe palmate. Non volle niente in cambio, anzi, sì, solo un sorriso, era un’oca davvero gentile. A quel punto, un po’ camminando e un po’ volando, Bertina, arrivò finalmente alla casetta. Quando entrò trovò una stanza con sette tavolini, sette seggioline e sette pentolini sul fuoco. Nessun dubbio, era proprio la casetta dei suoi sette fratelli. Affamata com’era prese qualcosa da mangiare da ogni pentolino, poi provò ognuno dei sette lettini per riposarsi un po’. Alla fine, si addormentò. Quando i corvi rientrarono si accorsero che qualcosa non andava, dopo cena, si prepararono per andare a letto, ma trovarono una bambina distesa nei loro letti. Era Bertina! La riconobbero per il suo anellino! Al risveglio, Bertina riabbracciò i fratelli, cioè i corvi, spiegando che la mamma era disperata e non vedeva l’ora che tornassero a casa. Anche loro erano molto tristi e dispiaciuti di aver causato tanto dolore a lei e alla mamma. Il volo verso casa fu divertente e gioioso. Quando furono di nuovo tra le braccia della mamma, i sette corvi chiesero scusa, sinceramente pentiti. A quel punto si trasformarono di nuovo in ragazzi. Ma non è finita, perché come corvi, i sette fratelli, avevano passato il tempo volando in lungo e in largo e avevano raccolto una piccola fortuna in monete d’oro e gioielli preziosi abbandonati nei villaggi e nei castelli diroccati. Così, da quel giorno, tutta la famiglia visse in pace e piena d’amore.
Giorno 14 - Il principe Ahmed e la fata Pari-Banù
C’era una volta un vecchio sultano che aveva tre figli: Hussan, Alì e Ahmed. In più era cresciuta a corte una fanciulla di nome Nurunnihar, nipote del sultano, rimasta orfana da piccola. Tutti e tre i principi si erano innamorati di lei e desideravano sposarla. Il sultano propose che tutti quanti si mettessero in viaggio e quello che avesse riportato il dono più spettacolare, avrebbe potuto corteggiare Nurunnihar. Il principe Ahmed raggiunse la capitale di Bisnagaz e mentre girovagava per il mercato, fu attratto dalla voce di un mercante che cantava le lodi di un suo tappeto che, a quanto pareva, era niente di meno che un tappetto volante. Alì aveva portato con sé un cannocchiale d’oro che permetteva di vedere, in qualsiasi momento, una persona cara, non importava quanto fosse lontana. Hussan aveva una mela prodigiosa, bastava darle un morso per guarire da ogni malattia. Il sultano non sapeva proprio chi scegliere. Così, propose un’altra prova. Consegnò ai suoi figli arco e frecce: chi avesse scagliato la freccia più lontano, avrebbe vinto. Per primo tirò Hussan, poi Alì e tutti video che la freccia era volata molto più lontano di quella del fratello. Infine, Ahmed, che la tirò talmente lontano che nessuno la vide cadere. Il sultano decise di proclamare vincitore il principe Alì, ma Ahmed non voleva rassegnarsi alla sconfitta e si mise a cercare la freccia. Cammina, cammina, la trovò di fronte a una parete rocciosa, con la punta rivolta ad indicare uno stretto passaggio fra le rocce. Attraverso l’apertura, Ahmed, scese nelle cavità della montagna fin quando fu inondato da un fascio di luce, era nella reggia della fata Pari-Banù. Fra i due nacque ben presto un amore vero e sincero, ma Ahmed sentì il bisogno di dare sue notizie alla sua famiglia. La fata lo lasciò andare ben volentieri, ma con la promessa che non avrebbe rivelato la sua esistenza e quella del suo palazzo. Ahmed riabbracciò suo padre, gli raccontò di essere felice, ma non rivelò nulla della fata, né della reggia. Il visir, però, si insospettì e convinse il sultano a far seguire il figlio dalla vecchia maga. Arrivata davanti alla parete di roccia, la maga finse di star male e iniziò a chiedere aiuto urlando e sgolandosi. Ahmed l’accolse nella reggia, ma la fata capì subito l’inganno. La maga tornò dal sultano e gli riferì l’accaduto. Quando Ahmed tornò a far visita al padre questi gli chiese un palazzo in regalo e la fata lo accontentò. Poi gli chiese l’elisir di lunga vita e la fata questa volta chiese allo stesso principe Ahmed di procurarglielo. Con successo superò ogni prova. Ma il sultano continuava con le sue richieste impossibili e capricciose: il suo ultimo desiderio era un uomo piccolo piccolo con la forza cento uomini. Ahmed, mortificato, tornò dalla fata che decise di rivolgersi a suo fratello Saibar. Saibar era un nano prodigioso, dagli occhi che lanciavano lampi e le braccia capaci di sollevare l’intero palazzo. Arrivato di fronte al sultano questi fu spaventato dal suo furore e si convinse ad addivenire a più moti consigli. Da quel giorno non ebbe più il coraggio di chiedere nulla alla fata Pari-Banù e Ahmed poté vivere in pace con lei nel loro magnifico palazzo nelle cavità della montagna.
Giorno 10 - La casa nella foresta
C’era una volta un taglialegna che abitava in una casa al limitare della foresta. Aveva tre figlie molto belle Maribionda, la maggiore, Maribella, la seconda e Maridolce, la più giovane. Quando il taglialegna doveva lavorare tutto il giorno nella foresta, una delle figlie gli portava la colazione. Quel giorno toccava a Maribionda e, per evitare che si perdesse, il padre aveva sparso lungo il cammino dei granelli di miglio. Non aveva pensato però che la foresta è piena di uccellini e che gli uccellini vanno ghiotti per il miglio. Così, quando Maribionda si addentrò nella foresta, cerca di qua e cerca di là, non trovò nemmeno un granello di miglio. Camminò tutto il giorno, senza riuscire a trovare il padre. Per fortuna, a sera, vide una casetta con una finestra illuminata. Entrando si trovò in una grande cucina e vide seduto al tavolo un uomo vecchissimo, la sua lunga barba bianca scendeva fino a terra. Aveva un’espressione triste e si teneva il viso tra le mani. Accanto a lui c’erano tre animali: una gallinella, un galletto e una mucca pezzata. Maribionda chiese il permesso di essere ospitata per la notte e il vecchietto acconsentì. Era stanca ed affamata, così si preparò una minestra, ne offrì un po’ al vecchietto, ma si dimenticò completamento degli animali che la osservavano con l’acquolina in bocca. Dopo aver mangiato a sazietà, Maribionda chiese un letto per dormire e si addormentò. Nel frattempo, il taglialegna era rimasto senza mangiare per tutto il giorno. Decise allora di seminare lungo il cammino nel bosco delle lenticchie e questa volta fu Maribella a incamminarsi per portargli la colazione. Ma ancora una volta gli uccellini del bosco mangiarono tutte le lenticchie. Camminò e camminò per tutto il giorno finché arrivo alla casa del vecchietto. Era affamata e stanca quanto la sorella Maribionda e anche lei mangiò a sazietà e poi se ne andò a letto sotto lo sguardo dispiaciuto della mucca, della gallinella e del galletto che, ancora una volta, erano rimasti a bocca asciutta. Anche il taglialegna era rimasto ancora una volta a bocca asciutta per tutto il giorno. Decise di seminare lungo il cammino nel bosco dei piselli e questa volta fu Maridolce a incamminarsi per portargli la colazione. Ma ancora una volta gli uccellini del bosco mangiarono tutti i piselli. Maridolce perse la strada e arrivò alla porta della solita casetta. Maridolce preparò la minestra per lei e per il vecchietto, ma pensò anche a portare un bel secchio d’acqua e una buona bracciata di buon fieno profumato per la mucca e del grano per il galletto e la gallinella. Dopo aver mangiato Maridolce andò a riposare. Durante la notte sentì degli strani rumori: scricchiolii e tonfi, come se la casa andasse in pezzi. Quando al mattino Maridolce si svegliò ebbe un’incredibile sorpresa! Intorno a sé non c’era più la misera stanzetta nella quale si era addormentata, ma una camera arredata sontuosamente e ad aspettarla c’erano due ancelle, un maggiordomo e un principe. Erano gli animali e il vecchietto che li avevano accolti la sera prima, vittime di un incantesimo che solo la bontà di una fanciulla che avesse avuto cura e amore per tutti, anche per gli animali, avrebbe potuto spezzare. Vi state chiedendo che fine abbiano fatto Maribionda e Maribella? Beh, nulla di grave, ma per un bel po’ finirono a lavorare nella fattoria di un contadino che abitava nei paraggi, per diventare più gentili e imparare a rispettare ogni forma di vita, compresi gli animali.
Giorno 8 - La principessa incantata
C’era una volta un artigiano che aveva due figli, Gianni ed Elmerico. Il primo scansafatiche e arrogante, era l’orgoglio del padre, che in lui vedeva un giovane forte e intelligente. Il secondo, gentile ed onesto, era la disperazione del padre, che in lui vedeva un ragazzo inetto e inaffidabile. Gli affari non andavano per niente bene e un giorno, mentre l’anziano signore era seduto all’osteria giù di morale, sentì altri due avventori parlare di un castello, di un drago e di un tesoro. La storia era questa: uno stregone aveva rapito la figlia del re e la teneva rinchiusa in un castello; a guardia aveva messo dei draghi e una vecchia che sottoponeva a tre prove, difficilissime, chi voleva cimentarsi nell’impresa di liberare la principessa. Chi non le superava veniva mangiato dai draghi. Chi, invece, le avesse superate, avrebbe ottenuto dal re tesori preziosi di inestimabile valore come ricompensa. Avete immaginato quale fu il pensiero del vecchio commerciante? Certo! Che questa era un’impresa degna di quel fanfarone, ehm, valoroso, di suo figlio Elmerico. E corse subito a comprargli una lucente e costosissima armatura e un cavallo bianchissimo. Elmerico, neanche a dirlo, si lanciò nell’impresa. Sulla strada incontrò un formicaio e ci passò sopra distruggendolo, incurante della disperazione delle formiche che tanto ci avevano lavorato. Fermatosi presso un laghetto per mangiare la focaccia, vide dodici anatroccoli avvicinarsi e iniziò a tirare loro dei sassi per scacciarli timoroso che avrebbero potuto rubargli qualche briciola del suo pasto. Poi, con un colpo di spada distrusse l’alveare che pendeva dal ramo vicino solo perché aveva a noia il loro ronzio. Arrivato al castello, iniziò ad urlare per attirare l’attenzione e a prendere a calci e pugni il pesante portone. La vecchia si affacciò e gli disse che l’indomani lo avrebbe messo alla prova. La mattina seguente la vecchia comparve e rovesciò sull’erba un sacchetto di semi di lino. Il vento iniziava già a spargerli tutti, ma la prova era iniziata: Elmerico aveva un’ora per raccoglierli tutti. Ovviamente Elmerico non ci pensava proprio, così si mise a fare un bel sonnellino. La vecchia scosse la testa e quando tornò propose la seconda prova. Buttò dodici chiavi nelle profonde acque del fossato che circondava il castello. Elmerico avrebbe dovuto recuperarle tutte entro un’ora. Ovviamente lui non ci pensava proprio a tuffarsi nell’acqua fredda e buia, e se si fosse preso un raffreddore? La vecchia allora propose la terza prova. Si trovarono di fronte a tre figure avvolte in un velo bianco. Elmerico avrebbe dovuto indovinare sotto quale di questi si celava la principessa. Aveva un’ora a disposizione, ma sicuro di non poter sbagliare, non si fermò nemmeno un minuto a riflettere e scelse la terza figura. Purtroppo per lui si trattava di un drago che lo inseguì fin sulla torre più alta del castello. Elmerico mancava da casa ormai da un anno e il vecchio padre non si dava pace. Gianni si offrì di andarlo a cercare. Partì senza armi e senza cavallo, a piedi e con un tozzo di pane. Lungo il cammino si accorse di un formicaio distrutto e delle molte formiche che faticosamente lavoravano a ricostruire la loro casa, e le aiutò. Arrivato al laghetto notò gli anatroccoli venirgli incontro e divise con loro il suo pane. Infine vide l’alveare, raccolse un mazzo di fiori odorosi e lo posò proprio ai piedi del tronco dove era attaccato. Una volta al castello, bussò e chiese di essere sottoposto alle tre prove. Iniziò a raccogliere i semi di lino e le formiche vennero in suo aito. Poi si tuffò nelle acque del fossato, ma l’acqua era troppo profonda e così gli anatroccoli lo aiutarono a recuperare le chiavi. Infine, quando si trattò di indovinare sotto quale figura velata si celasse la principessa, Gianni si fidò delle api che ronzavano intorno a quella di mezzo. Ed era proprio così, sotto quel velo c’era la principessa, che ora era libera e grata per essere stata liberata dall’incantesimo. Gianni era il nuovo padrone del castello e lo aspettava una ricca ricompensa, ma la gentilezza che riempie il cuore d’oro non misura di certo in grammi!
Giorno 6 - Cinque in un baccello
C’era una volta un baccello dove abitavano cinque piselli, tutti teneri e freschi. Si chiamavano Pisin Pisello, Pisello Piso, Pisellotto, Pisel Pancione e Pisellino. Stavano bene i piselli, raccolti nel baccello! Quando splendeva il sole la scorza lasciava passare un piacevole tepore; quando pioveva li teneva riparati e al caldo. Durante il giorno vedevano tutto color verde chiaro, mentre di notte il verde scuro del baccello sembrava fatto apposta per conciliare il sonno. Giorno dopo giorno crescevano e il baccello rischiava di scoppiare. A un tratto iniziarono a vedere tutto giallo. Arrivò l’autunno e il contadino staccò il baccello dalla pianta. Evviva la libertà! Finalmente i cinque fratelli avrebbero potuto rotolare in giro per il mondo! Una volta a casa, il contadino si fece aiutare dal figlio per aprire i baccelli. Il ragazzo li prese e notando come fessero duri decise di usarli come munizioni del suo cannone giocattolo. Pam, primo colpo, e Pisin Pisello volò alla conquista del mondo. Poi fu la volta di Pisello Piso. Pisel Pancione e Pisellotto, prima di essere sparati, volevano fare un giretto e così ruzzolarono giù dalla tavola. Quando il ragazzo se ne accorse, li prese e pim, pum, li sparò tutti e due fuori dalla finestra. Rimaneva solo Pisellino. Alla fine anche lui, con un bellissimo volo, venne lanciato fuori, proprio in direzione della finestra di una soffitta. Arrivato sul vecchio davanzale di legno, si infilò fra due assi, e lì trovò un lieve strato di terriccio e di muschio. Il muschio lo coprì e gli cantò una ninna nanna che lo cullò per tutto l’inverno. In quella soffitta abitava una povera donna che aveva una bambina debole, pallida e sempre stanca. Lavora ogni giorno, tutto il giorno per guadagnare qualche soldo e comprarle le medicine. La bambina era sempre a letto, quieta e rassegnata e ogni giorno diventava sempre più pallida, più spenta. Giunse la primavera e con essa il sole, che andò a svegliare il pisello sul davanzale. Il pisello cominciò a darsi da fare: presto le radici furono sistemate, poi si dedicò a spingere la piantina attraverso il terriccio. Avreste dovuto vendere come cresceva quella piantina! Non per niente a spingerla c’era Pisellino che, modestia a parte, sapeva il fatto suo. Un giorno se ne avvide anche la bambina che, mano a mano che la pianticella cresceva, riprendeva colore e i suoi occhi risplendevano di una luce nuova. Da quel giorno quella piantina divenne il centro delle attenzioni della mamma che innaffiava, lo riparava dal vento e lo aiutava a sorreggersi con un bastoncino. La bambina guardava e sorrideva, e guariva. Un giorno la mamma, tornando a casa, la vide in piedi accanto alla finestra che accarezzava le foglie della piantina. Era finalmente guarita!
Giorno 23 - Fata Piumetta
C’era una volta una donna che aveva due figlie, una egoista e presuntuosa di nome Tilde, l’altra gentile e sempre disponibile a dare una mano, di nome Fiorenza. Le sue attenzioni erano sempre verso la prima figlia, mentre trascurava l’altra, che era in realtà la sua figlioccia. E voi direte, il principe sposò la figlia più umile alla quale toccavano tutte le fatiche di casa, ma no, perché il principe in questa storia non c’entra nulla. La povera Fiorenza, dopo aver sfacchinato per tutta la settimana, si concedeva un po’ di meritato riposo in riva al fiume. Una domenica aveva portato con sé il fuso per filare la lana, ma era così stanca che le cadde in acqua. Era disperata, chissà quali punizioni la matrigna le avrebbe assegnato! E infatti, quando si presentò a casa senza fuso, la matrigna le ordinò di tornare al fiume e ripescarlo, nonostante le acque fossero profonde e gelate . E voi direte, allora arrivò il principe che si tuffò in acqua e glielo riportò a galla, ma no, perché, come abbiamo già detto, il principe in questa storia non c’entra nulla. Fiorenza arrivò al fiume, si sporse lungo la riva, si allungò, si allungò, ma si sporse troppo e cadde in acqua. Quando si risvegliò, si trovò in un meraviglioso giardino fiorito. Era il giardino di Fata piumetta, ma Fiorenza questo ancora non lo sapeva. Si incamminò lungo il sentiero e passò accanto al forno, il pane stava bruciando e anche se non aveva presine per tirarlo fuori si rimboccò le maniche e lo tolse subito. Passò poi accanto a un albero carico di mele, lo scosse e le fece cadere così che i rami potessero alleggerirsi. Ben presto arrivò davanti a una casetta. Affacciata alla finestra c’era una vecchina. E voi direte, adesso arriva il principe e la salva perché quella vecchina in realtà è una strega cattiva, ma no, perché il principe in questa storia non c’entra nulla e quella vecchina era davvero fata Piumetta. Fiorenza venne fatta accomodare e per ringraziare aiutò a sistemare la casa. Iniziò dalla camera da letto, prese i cuscini e si avvicinò alla finestra per sprimacciarli: piccole, leggere piumette iniziarono a scendere come fiocchi di neve, lieve, lieve. Tutto filava in perfetto accordo. Fata Piumetta era felice di ospitare Fiorenza e Fiorenza si trovava bene accanto a questa vecchina che raccontava tante storie, ma un giorno sentì il bisogno di tornare a casa per fare sapere che stava bene. Prima di andar via, la fata le riconsegnò il fuso e poi sentì come un fremito e si ritrovò tutta ricoperta d’oro. Figuratevi la rabbia della matrigna e della sorellastra quando videro Fiorenza tanto elegante! Subito pensarono che avesse rubato il vestito a qualche dama, ma lei raccontò tutta la storia per filo e per segno. Allora, Tilde decise di andare anche lei al fiume. Si sporse, cadde nell’acqua e, anche lei, quando si risvegliò, era nel giardino di Fata Piumetta. Passò davanti al forno, ma non ci pensò proprio a scottarsi le dita per tirar fuori il pane. Poi passò davanti al melo, ma si rifiutò di scuoterlo per paura che qualche mela potesse caderle in testa. Infine, in casa di Fata Piumetta combinò un disastro dopo l’altro rifiutandosi di compiere qualsiasi lavoro e sbadigliando ogni volta che la vecchina iniziava a parlare. Così un giorno la fata le chiese se non preferisse tornarsene a casa. Naturalmente, Tilde accettò di buon grado. Prima di andar via, Tilde nemmeno salutò e anche lei sentì un fremito, ma anziché ritrovarsi coperta d’oro, si ritrovò coperta di pece nera e appiccicosa. E voi direte, allora arrivò il principe che sposò Fiorenza, ma no, il principe non c’entra niente in questa storia, e Fiorenza, grazie al dono di Fata Piumetta poté vivere una vita felice e spensierata.