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Giuditta e Oloferne

Caravaggio porta una novità a questo tema che veniva rappresentato già da molti anni: lo sfondo buio. La scena è illuminata solo da un fascio di luce proveniente da sinistra che crea un‘atmosfera di teatralità, accentuata anche dal drappo rosso somigliante a un sipario.

Giuditta e Oloferne, 1599, olio su tela, dipinto da Caravaggio, oggi conservato nelle Gallerie Nazionali di Arte Antica a Roma ( nel palazzo Bernini).

Il condottiero si contorce dal dolore sul giaciglio contraendo così i muscoli che sono evidenziati dal fascio di luce. La sua espressione è di puro terrore e infatti grida (come Medusa in punto di morte, sempre raffigurata da Caravaggio); capiamo che gli rimangono soltanto pochi istanti dal suo sguardo vitreo. Mentre fiotti di sangue fuoriescono dal suo collo sporcando le lenzuola.

La giovane viene raffigurata intenta nel delitto, per questo ha un’espressione corrucciata dallo sforzo e dal disgusto; anche i muscoli delle braccia sono contratti per la fatica. Inoltre Caravaggio per rappresentare la vedova ebrea si era ispirato a una donna realmente esistita: Fillide Melandroni, una prostituta romana.

La serva è in attesa che l’atto si compia per riporre la testa di Oloferne nel sacco e portarla via come trofeo. Lei ha uno sguardo smarrito ed è rappresentata molto vecchia probabilmente per mettere in risalto la giovinezza di Giuditta che incarna i valori morali.

Giuditta è un’eroina biblica del Vecchio Testament: è una giovane vedova ebrea che per salvare il suo popolo dall’assedio dell’esercito assiro finge di allearsi con quest’ultimo e dopo essere stata accolta nell’accampamento nemico uccide lei stessa il generale assiro Oloferne.