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L'orecchio di dionisio n. 10 marzo
emiliocioncolini
Created on March 8, 2022
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Transcript
L'ORECCHIO DI DIONISIO
Giornalino studentesco del Liceo Classico Galileo
MARZO 2022 no. 10 tema: COMUNICAZIONE
Altan
C'è il boom della comunicazione: tutti a comunicare che stanno comunicando
POESIA
Un bicchiere d'amaro sconforto
Gabriele Gargaloni
Come il soffiare del vento
Il tema scelto per questo numero è “comunicazione”, un termine che deriva dal latino “communicare” che significa “condividere”, “mettere in comune”. Con la comunicazione tessiamo la tela sottile dei rapporti umani che legano noi “animali sociali”. Come giornale abbiamo deciso di pubblicare una parte di noi per “metterla in comune” con chi legge. In occasione del suo compleanno (30 marzo) intendiamo rendere omaggio alla professoressa Margherita Ferro, scomparsa lo scorso anno, condividendo una sua parodia della poesia di Gabriele D’Annunzio “I pastori”.
Tiam
Hanno torto la rota alla fortezza
Pietro Viligiardi
PROSA
Animale da palco scenico
Lili Fazzini
Parole sottratte
Sara Antonietti
Epilessia fotosensibile
Questa è una delle parodie nelle quali si dilettava la nostra docente Margherita Ferro. Io e la figlia Anna vogliamo condividerla con i colleghi, gli allievi e i suoi ex alunni che la amano e la ricordano sempre. Tita, mi manchi come l'aria, manchi a noi tutti. "To be a flower is profound responsibility". Maria Ausilia Pisano
Michele Bonanno
La cicatrice: alle porte
Protheum
Incomunicabilità: storia di una strana coppia
10
Aurora Orlando
ESAMI
ACCLIMATARSI
di Margherita Ferro
RUBRICA SPETTACOLO
Settembre, andiamo. Occorre riparare. Ora in terra di scuola i professori sono rientrati per interrogare: e gli studenti, armati di coraggio, dovranno ben saperci fare i conti. Han lavorato e sono belli pronti, dopo aver preso con filosofia quello che a qualcheduno è parso un torto,poi si son detti: “Che sarà, suvvia!” Hanno studiato, brontolando piano. E vanno per la prova d’italiano, in qualche luminosa aula silente, sotto lo sguardo degli antichi quadri. O voce della prof. che primamente enuncia quella traccia peregrina! Ora tra un banco e l’altro lei cammina, mentre gli allievi guardano per aria. C’è un’atmosfera surreale, strana, quasi di una Commedia visionaria. Ma dalla porta giungono romori: sarà qualche bidello dal di fuori?
È stata la mano di dio Nike
11
RUBRICA D'ARTE
Gino De Dominicis Marianna Polagruto
12
RUBRICA MUSICALE
Contenta tu Alberto Sanna
13
14
NUOVE USCITE
LE INTERVISTE DEL GALI
15
Comunicazione a scuola Cecilia Iannaco
CATARSI IL CONSIGLIO DEL PROF
17
- copertina di Emma Crocetti
GALILECTIO e I QUATTRO (E)VENTI
18
LUDUS IN FABULA
19
Un bicchiere d'amaro sconforto
di Gabriele Gargaloni
Un bicchiere d'amaro sconforto innalzo a voi, e brindo, irrequieto, alla vostra allegra esistenza di facezie, di maschere e d'inganni, bevuta d'un sorso nell'ebrezza degl'idoli. Morte al poeta e lunga vita all'ipocrita.
Come il soffiare del vento
di Tiam
Come il soffiare del vento, che corre per le vallate. La voce giunge flebile. Suona come ovattata, tenue, senza direzione. Dov'è che finisce, Tutto il rumore della mia voce?
Hanno torto la rota alla fortezza
di Pietro Viligiardi
Hanno torto la rota alla Fortezza alla fin fine: per caso un tu lo sai? Di salire un l'ho provata l'ebbrezza, ma unn'è che sia gran danno, capirai. A i' cComune unn'hanno azzeccata mezza a vole' tira' su 'n piedi i' fFlorensai; e siamo circondati da bellezza, ma pare un ne siano accorti mai. Ditemi un po': o quanto si dee bere pe'ddire che gl'è bello qui'fferrame? E c'è un monte di cose da vedere! In più, teniamo per benino a mente che unn'esiste sortanto i'tturistame, perché l'identità l'è sofferente.
1. Florence eye. E ricarca soprattutto i'nnome di' lLondon eye di Londra e quello di artri catorci
illustrazione di Irene Bruscoli
Animale da palco scenico
di Lili Fazzini
Pietro stentava ad addormentarsi. Da parecchi mesi ormai gli capitava di trovarsi smarrito nella spossante ricerca del sonno, ma l’insonnia non lo mordeva più con la voracità di un tempo. Ciò che settimane addietro avvertiva come insopportabilmente frustrante, ormai, era diventato abitudine. Più di una volta si era ridotto a concentrarsi disperatamente sulla disinteressata forza che incatena ogni essere al centro del pianeta. Percepiva ogni irrequieto centimetro del proprio corpo premere senza tregua contro il materasso, esiliava ogni tensione con l’intento di lasciare che il letto al di sotto di lui lo assimilasse, remissivo. Impegnava tutto sé stesso nel vano tentativo di estraniare la mente dagli ingombranti pensieri che l’appesantivano: l’ingente sforzo del focalizzarsi sul vuoto e la trasparente e limpida leggerezza del nulla più assoluto avrebbero costituito la chiave per il mondo dei sogni. Tutto questo prima di cominciare a contare le pecore. Attorno a lui l’aria occupava immobile la stanza, densa ed impenetrabile agli indisciplinati sussurri della notte. Di tanto in tanto il pigro fruscio delle ruote di un’auto sull’asfalto solleticava il silenzio e le orecchie di Pietro ne carpivano avide ogni frammento di suono. Sotto l’estenuato sguardo dei suoi occhi stanchi, la notte e il buio, complici nei giochi delle ombre, protagonisti indiscussi di quelle ore apparentemente quiete, sembravano deridere la sua involontaria resistenza al sonno. Nella vecchia e umida mansarda adibita a camera da letto, unico e solitario ritaglio di casa interamente suo, aleggiava un appiccicoso aroma di citronella che dava l’impressione di strisciare minaccioso lungo le pareti della stanza. Dopo mesi di lotta contro le zanzare, Pietro aveva finito per non curarsi più di quell’odore acre ed invadente che aveva comodamente traslocato nelle sue narici, ma quella notte avvertiva qualcosa di diverso. Lo spazio che lo circondava, già di per sé sufficientemente angusto, sembrava più stretto, come se le quattro mura che lo delimitavano stessero divorando in gran segreto le lastre di legno del pavimento. Era come se, con velata malizia, il tempo avesse cominciato a scorrere più lento e il suo olfatto si fosse prepotentemente acuito. Pietro cominciava a respirare con inquietante affanno, mentre una crescente nausea prendeva bramosamente possesso di ogni sua facoltà. L’aria che lo opprimeva si faceva ogni secondo più compatta, quello stucchevole tanfo sibilava in modo sempre più assordante, la citronella si arrampicava senza pietà lungo il suo setto nasale. Tutto intorno il mondo si restringeva roteando, la realtà si richiudeva in sé stessa. Ora l’insetticida gli bruciava velenosa in gola e la visione della mansarda si faceva offuscata, lattiginosa. Pietro voleva urlare a squarciagola ma ogni illuso tentativo di movimento si risolveva in convulsi spasmi degli arti frementi. Ogni singolo muscolo del suo corpo pareva congelato in una tensione dall’immobilità agghiacciante ed una vampata di soffocante calore aveva cominciato a diffondersi sotto alle lenzuola che lo fasciavano dal petto alla punta dei piedi, tanto impercettibili quanto insopportabilmente pesanti. Adesso miriadi di gocce pungenti cominciavano a rivestirgli la pelle già madida di sudore, incuranti dei violenti lampi di panico che solcavano il suo sguardo attonito. Come quando da lontano l’isterico rintocco delle campane ci accarezza l’udito per poi abbracciarlo sempre più stretto man mano che i nostri passi si fanno prossimi alla chiesa, così Pietro si accorse che un vibrante ronzio si sollevava con crescente insistenza dalle gocce che gli germinavano addosso, urticanti come pungiglioni di insetti. Parassiti liquidi di origine sconosciuta, viscide macchie in stato di inspiegabile metamorfosi. A Pietro fu sufficiente una manciata di secondi per prendere coscienza di essere interamente rivestito di zanzare, mosche, coleotteri. Le creature brulicavano pulsanti su ciascuna esasperata porzione del suo corpo, il ribrezzo che ne derivava oltrepassava di gran lunga i limiti dell’immaginabile, un’innocente notte insonne si era tramutata nel peggior incubo di chiunque al mondo. Questione di pochi attimi e migliaia di rigide e taglienti zampe si conficcavano impietose nella sua pelle, scavavano in profondità come alimentate dalla sfida a chi avesse toccato per prima le ossa. Il ronzio si era fatto ormai rintronante e la forza di gravità alla quale aveva tanto cercato di ancorarsi poco prima nella disperata caccia al riposo veniva tutt’a un tratto meno. A poco a poco la morsa che lo tratteneva incatenato al letto allentò la presa, vinta da quella misteriosamente risoluta degli insetti. Pietro si stava lentamente librando in aria e ora occupava il centro della mansarda, a sostenerlo un pugno di ali tanto fragili quanto tenaci. Il suo sguardo annebbiato riusciva a tastare poco o niente del mondo circostante, ma Pietro riconobbe nitidamente il percorso intrapreso dai rapitori, che dopo aver sorvolato per intero la mansarda lo sfilarono con inquietante precisione dalla finestra, per immergersi nelle tenebre della città dormiente. Subito la fresca brezza di quella notte estiva gli baciò spensierata le guance, mentre svariati metri più in basso strade e piazze emettevano pigri versi di sonno, ignare del passaggio dell’inusuale comitiva sovrastante. Pietro inalava ampie boccate di freddo, ormai rassegnatosi al surreale destino che lo attendeva divertito dietro l’angolo, ascoltando i sogni che da ore si rincorrevano sui cuscini altrui.
Dove lo stavano portando? Dei rari suoni che riusciva a udire, ovattati a causa del torpore che aveva preso in ostaggio i suoi sensi, non uno che suggerisse l’identità della temuta meta. Il volo seguitò a fluire monotono ancora per un po’, il morbido oscillare degli insetti invitava le palpebre di Pietro a socchiudersi di più a ogni battito d’ali, o almeno finché una fioca luce non cominciò a farsi spazio verso le pupille sopite, ridestandole; una luce vivida ed intermittente, che con miracolosi artigli graffiava da lontano il velo che gli occultava la vista. Di fianco a questa, un brusio indistinto incedeva al medesimo passo e Pietro ebbe il sentore di essere impazientemente atteso. All’improvviso un allegro motivo da circo scoppiò squillante da altoparlanti spaventosamente vicini, scortato da un applauso diffuso e prolungato. Pietro rabbrividì: una sterminata folla di insetti di ogni genere foderava i monumentali spalti di quello che sembrava uno sgargiante palco scenico televisivo. Il pubblico scalpitava esagitato sulle sedie e sbraitava fiotti di parole biascicate in una lingua incomprensibile, additandolo con fare irrisorio. Quell’ammasso di scricchiolanti zampe in febbrile movimento lo disgustava, percepiva fisicamente quella moltitudine di occhi vacui soppesare la sua figura, il tanto agognato intrattenimento della serata. Ora Pietro era sorretto unicamente dalle spalle, a mezz’aria sul centro del palco: le acute urla si moltiplicavano e riecheggiavano penetranti nella sua mente stremata, accecanti fasci di luce gli inferivano inesauribili colpi da sinistra e da destra. Avrebbe dato qualsiasi cosa pur di scoprire un interruttore che zittisse una volta per tutte quell’orda di rauche voci che gli sputavano addosso improperi sconosciuti. Ben presto non ci fu niente che potesse fare per impedire a grosse e copiose lacrime di rigargli visibilmente il volto, mentre una grottesca risata si diffondeva fragorosa attraverso gli spalti. <<Perché ridete di me?>> gridò con tutto il fiato di cui disponeva. Non uscì che un debole gemito, seguito da sommessi singhiozzi. Gli applausi avevano appena cominciato a riprodurre un ritmo sempre più rapido ed incalzante quando gli insetti che lo costringevano a quella tortura infernale mollarono repentinamente la presa e Pietro precipitò tragicamente nel vuoto. Ancora una volta il suo corpo veniva risucchiato brutalmente verso terra, suoni e luci si mescolavano vertiginosamente assieme, si avvolgevano per la prima e ultima volta nella spirale della fine. Pietro non ebbe il tempo di pensare a niente né di ricordare nessuno, si limitò a serrare gli occhi in attesa dell’imminente impatto. Quando li riaprì nella mansarda alloggiava un caldo asfissiante, le lenzuola gli si erano interamente incollate addosso, la finestra sbatteva ad intervalli cadenzati, spinta dal vento.
di Elena Garuti
PAROLE SOTTRATTE
di Sara Antonietti
Dolci gemme azzurre scorrevano veloci tra fiumi d'inchiostro che tingevano pagine ingiallite. Le sue mani carezzavano delicatamente ogni foglio, quasi per assaporarne ogni dettaglio. Non sapevo il suo nome, la osservavo ogni giorno dalla mia postazione con vivace curiosità. Guardavo quegli occhi pieni di malinconia e luce insieme, in un equilibrio divino. Luce e ombra insieme erano i suoi occhi. Anche quel pomeriggio era lì, seduta sul davanzale della finestra. Dostoevskij era diventato il suo migliore amico da quando aveva letto "Le notti bianche". Fëdor, come un buon amico, le prestava parole quando la sua anima sceglieva il silenzio. Lui parlava per lei e dava forma a quegli schizzi di colore che erano i suoi pensieri. Perché, mi ero dimenticato di dirlo, lei non parlava. Erano già un po' di mesi che frequentava così assiduamente la biblioteca, e mai una volta ho udito il suono della sua voce. Lei entrava, salutava con un sorriso, a volte entusiasta, altre stanco. E se ne stava ore e ore a strappare dai libri l'incanto di quelle storie. C'era in lei qualcosa che mi attirava profondamente, avrei voluto incontrare e conoscere i labirinti della sua mente. Era spesso irrequieta, si alzava di scatto e guardava lontano, fuori dalla finestra, verso il cielo. Non ho mai avuto il coraggio di farmi avanti, restavo sempre quel passo indietro, un passo di distanza perché in fondo, adesso lo posso ammettere, avevo paura di essere travolto dal turbine che erano le sue emozioni. Per la vigliaccheria soffro ogni volta che il ricordo di lei sfiora e bussa al mio cuore per venirmi a trovare. Chiedevo in giro di lei, ma nessuno sapeva dirmi niente, né chi fosse, né dove abitasse. Iniziammo solo a scambiarci sguardi rapiti fatti d'istanti, e non eravamo poi così distanti. Ogni tanto le lasciavo qualche biglietto con un titolo o una frase di chissà quale romanzo, comunicavamo in quel modo. Attraverso i suoi gesti ero diventato custode del suo segreto, nascosto negli abissi della sua anima. Le parole le erano state sottratte così violentemente che non ne era rimasta nessuna. Qualche volta piangeva per interi pomeriggi ed io, oh, che stupido sono stato, non le ho mai asciugato le lacrime che impetuose sgorgavano sul suo viso. Insomma quel giorno lei era sempre lì, però il suo volto era strano, diverso, contratto in un'espressione rassegnata e, oserei dire, impaurita. Leggeva il suo libro preferito come se dovesse ricordarne ogni tratto, ogni segno e tatuarselo nell'animo. Solo dopo capii. Si era ormai fatto tardi, la ragazza che non parlava mi si avvicinò, con passi incerti. Mi consegnò il suo tesoro con dentro un biglietto. Non la vidi mai più. Vi chiederete cosa ci fosse scritto in quel biglietto, giusto? Beh, non lo lessi subito, ma aspettai di tornare a casa. Mai in vita mia ho fatto un errore più grande di questo. Una semplice parola, cinque lettere erano scritte in quel pezzettino di carta che venne rovinato da mille gocce. "Addio"
EPILESSIA FOTOSENSIBILE:
le immagini sulla scacchiera dell'informazione
di Michele Bonanno
La comunicazione è un affare complesso e sfaccettato; se dovessimo definirla diremmo che sarebbe la tecnica di evocare in chi ascolta (o guarda) un’idea o un concetto quanto più simile e vicino a quello di chi parla. È un processo in cui intervengono tantissimi fattori: linguaggio, tono vocale, espressività corporea... le cui varianti possono cambiare, eccome, il concetto trasmesso. Esistono dozzine di “tipi” di comunicazione, da quella più formale a quella emotiva, da quella “umile” di chi si impegna per farsi capire da tutti, a quella “di nicchia”, usata da persone che si riferiscono ad altre con cui condividono lo stesso linguaggio tecnico e specifico, in un dato ambito delle materie. La comunicazione “scritta” (termine vago, ma che evidenzia la differenza da quella “verbale”, in cui corpo, tono e espressività hanno un’importanza molto maggiore) è spesso e volentieri accompagnata da immagini (disegni, fotografie o video che siano) le quali arricchiscono (e a volte cambiano) il senso della comunicazione. In qualche edizione di alcuni libri di narrativa, spezzoni del racconto sono spesso accompagnati da immagini e disegni, che hanno una funzione allegorico-artistica, riproducendo immagini più o meno attinenti al testo. È invece sempre più comune che avvenga il contrario, cioè che sia l’immagine ad avere bisogno delle parole per essere spiegata, approfondita. Social network e telegiornali sono le realtà in cui questo concetto è più chiaro. Nel nostro tempo un evento di qualsiasi tipo viene prima di tutto registrato, filmato, lasciato in balia alla democrazia tirannica del video, la quale, se da una parte favorisce la varietà e l’immediatezza dei “punti vista”, non è soggetta a quasi alcun tipo di “intermediario del senso”, che lo chiarisca, approfondisca, contestualizzi. Anzi. Spesso e volentieri, i demagoghi della comunicazione, fanno una potentissima leva sul lato emotivo che le immagini hanno, sfruttando la democrazia (diretta, direttissima) del video a loro favore, risvegliando, nell’acritica di chi guarda, l’emozione che più fa comodo. Il tanto vaneggiato “parlare alla pancia”. La questione è opinabile, varia e variegata, ma, come tutte le cose, la chiave sta nell’uso che si compie di questa tecnica della comunicazione, che ovviamente si evolve e adatta agli strumenti. Il video e la foto sono semplici da usare (a un livello base), e l’immediatezza dei mezzi di divulgazione rende incredibilmente incontrollabile la diffusione di comunicazioni. Questa rapidità della fruizione sconta d’altro lato il traviamento delle informazioni, spesso falsate, imprecise o manchevoli se lasciate alla sola testimonianza dell’immagine, priva di indagine. Se a tale questione aggiungiamo l’universale concetto “dell’interesse”, il tutto cala verso un mondo meschino quanto e ampio e, nel nome del capitale, comprensibile. Non ci sembrerà strano che Jeff Bezos sia il proprietario del secondo quotidiano più importante degli USA (Washington Post), che gli Agnelli abbiano La Repubblica e La Stampa a libro paga e che Silvio Berlusconi abbia letteralmente partorito tre (3) canali televisivi. Tutto è lecito nella guerra perpetua degli affari, di questo ormai siamo tutti consapevoli, e la comunicazione è l’arma in più che di cui c’è bisogno per gestire il gregge; le immagini le granate che possono sì esplodere in mano ai più inesperti, ma anche creare enormi crateri di para-informazione, perfetti per domare e indirizzare a proprio piacimento e bisogno chi si voglia.
LA CICATRICE
alle porte
di Protheum
Lucretia si chiuse lentamente l’uscio dietro, mantenendo la sua solita aria seria ed altezzosa, cercando di fare coraggio ai suoi pupilli. In realtà aveva una paura tremenda, ma non tanto per sé, bensì per i suoi ragazzi. La guerriera continuava ad osservarla, tenendosi stretti i due ragazzini, tremanti di terrore, tappando loro la bocca. “Non fare passi falsi, cara la mia amica. Non voglio fare del male a degli innocenti. Non di nuovo”. Lucretia guardò la guerriera dritta negli occhi. <Chi siete? Che cosa volete? Cosa sta succedendo qui?>. La guerriera indietreggiò di alcuni altri passi, nell’ombra dello studio, trascinandosi dietro i ragazzini. <Il mio nome non ti riguarda, milady. Ti basti sapere che ho bisogno di delle cose. Delle scorte di cibo ed un cavallo. E dei soldi. Fate in fretta, e giuro che non sentirete mai più parlare di me. Rimarrò con questi bambini qui finché non torni. Va’, veloce!>. L’anziana intellettuale di corte posò preoccupata i suoi giovanissimi pupilli, che strabuzzavano gli occhi per la paura, mugolando richieste d’aiuto soffocate alla loro tutrice. Prima di mettere mano al pomello della porta, ancora rivolse lo sguardo alla guerriera. <Come volete. Ma giuro, su tutti gli dèi, su tutto quello che ho di più caro, che se osi torcere loro anche un capello…> ma non riuscì a finire la frase, poiché la guerriera la interruppe. <…e io giuro su tutti gli dèi, su Svord, sulla Triade, su Mitra, su chi ti pare che se farai esattamente come ti ho chiesto non succederà assolutamente nulla ai bambini. Adesso basta con queste idiozie, e muoviti>. Lucretia fece un cenno con la testa ai due pupilli, come per promettere loro il suo ritorno e trasmetterli un minimo di sicurezza e tranquillità. Poi sospirò, aprì la porta ed uscì frettolosamente. Allora la guerriera si portò dietro i ragazzini fino alla porticina adiacente allo studio, che conduceva alla loro cameretta. Essa era una piccola stanza illuminata da una finestrella sulla parete, con due comodi lettini e conseguenti comodini e vasi da notte. Finalmente la guerriera mollò la presa, lasciando che i giovani pupilli schizzassero impauriti in un angolo, stringendosi stretti, tremanti ed impauriti, cercando di farsi coraggio. <State calmi bambini. Vedete di non farmi scherzi, altrimenti…> aggiunse poi, mettendo la mano al fodero dietro alla schiena, estraendo con agilità la spada, tracciando alcuni rapidi segni nell’aria. Edren e Khadija si strinsero ancora di più, temendo che quella guerriera potesse far loro del male in qualsiasi momento. <Vi prego non uccideteci!> pianse la bambina, mentre la guerriera ridacchiava sotto i baffi per il suo scherzo. Nonostante fosse terrificato, Edren aveva posato lo sguardo su un elemento piuttosto curioso, ovvero la spada della sua rapitrice. Il manico era abbastanza semplice, con l’elsa ricoperta in spesse fasce di cuoio nero e la guardia in comune acciaio, ornata con delle strane rune incise. All’estremità dell’elsa era incastrato un disco di metallo vecchio e rovinato, su cui si poteva appena scorgere uno degli stessi simboli runici. Ma la cosa più curiosa e stupefacente era senza dubbio la lama: lunga un braccio e mezzo, essa sembrava quasi brillare di luce propria. La superficie era ricoperta di innumerevoli e mutevoli sfumature, oscillanti tra il nero ed il rosso scuro, quasi come se la lama fosse intrisa dello stesso sangue versato. Edren sgranò gli occhioni alla vista di quell’arma prodigiosa. <Ma quello è acciaio di Aquileia! L’arma che può scalfire le scaglie dei draghi!>. La guerriera annuì. <Invero, ragazzo. Questa spada viene da tempi molto antichi, anche perché apparteneva alla m…ehm…volevo dire, l’ho trovata nei miei viaggi. Apparteneva ad un antico guerriero, in una cripta sulle montagne. Avevo perso la mia spada, sapete, e dovevo difendermi dai lupi>. Facendosi coraggio, il piccolo Edren si avvicinò alla guerriera, con sguardo fisso sulla lama. <È rarissimo ormai. Nessun saggio o alchimista conosce più i suoi misteri. Ce ne sono pochissimi che hanno oggetti di questo acciaio, e molti sono andati dispersi. La Maestra ci aveva detto che c’era ancora una spada… a Pysein!>. Sentendo quel nome, la guerriera fu scossa da un tremito d’ira, che presto si tramutò in una forte fitta di dolore. Difatti, parte del suo vestito e della cappa sembravano inzuppati di sangue dalla parte della spalla sinistra. Invero, una delle frecce degli arcieri di Greykeep era andata a segno, scavandole un profondo buco nella spalla. Per fortuna la ferita era di striscio, e la freccia non le si era conficcata nella carne, però la spalla era stata forata. La guerriera quindi indietreggiò, mollando vagamente la presa della spada. Khadija per un momento mise da parte il suo timore, mossa dal suo naturale istinto protettivo, sviluppato durante i suoi appassionanti studi di medicina, e si avvicinò. <Se vuoi…voglio dire…se ne avete bisogno, qua nello studio possiamo curarti…se vuoi…> disse con aria timida ed impacciata. La guerriera la fissò dritta negli occhi, il volto imperlato di sudore e il fiato pesante. <Fai quello che devi, bambina, ma niente scherzi, attenta!> disse poi afferrandole il braccio. “Basta, non sono una bambina, ho dodici anni!” strillò Khadija tra sé e sé, temendo che, se lo avesse detto a voce alta, le sarebbe arrivato un sonoro ceffone in faccia.
E quindi, mentre la guerriera si teneva Edren stretto a sé, temendo che degli armigeri potessero irrompere da un momento ad un altro, Khadija si destreggiava tra alambicchi e piante curative, seguendo alla lettera le pergamene e gli appunti di Lucretia. Riuscì a fabbricare un improvvisato impacco di foglie ed unguento, che poi legò alla spalla ferita con delle bende. <Adesso, con questa ferita non dovresti muoverti per almeno un giorno. Forse la Maestra potrà fare una pozione per il dolore, ma dovrai riposare per un po’>. Allora la guerriera si schiarì la voce, accarezzando lievemente la ragazzina sulla testa. <Ti ringrazio, bambina. Fortuna che non era il braccio della spada, altrimenti non riuscirei a difendermi dai lupi, eh eh! Però non posso aspettare, devo andarmene al più presto, se voglio salvarmi la pelle. A proposito, io mi chiamo Demes>. La ragazzina le rivolse un sorriso timido. <Io mi chiamo Khadija…> disse, mentre il ragazzino cercava goffamente di liberarsi dalla presa. <E lui è Edren. È mio fratello>.Passò una giornata prima che Lucretia tornasse. <Il tuo cavallo è già pronto e sellato nelle stalle. Ora vattene, e lascia stare i miei pupilli>. Demes la guardò negli occhi. <Certo, mia signora. Vi ringrazio, e che gli dèi vi proteggano!> rispose con aria sarcastica. Poi si girò verso i bambini. <Ciao, Khadija. Ciao, Edren. Buona fortuna per tutto, cari bambini, diverrete dei grandi saggi> disse con un leggero inchino. Ma la sera era calata, e un’ombra scura era caduta su Caerleon. Tramontato il sole, sulle colline all’orizzonte, apparvero migliaia di lance, stendardi e blasoni, recanti l’emblema del drago nero su campo rosso. Il simbolo dell’Impero. Il simbolo del Cavaliere del Drago. Le teste dei nobili dell’Elkenreath erano grottescamente impilate su alcune picche, sbeffeggiate anche nella morte dai soldati nemici. Essi gridavano urla di battaglia, suonavano corni di guerra, sbattevano le spade e le asce sugli scudi a spregio dei nemici, terrorizzando gli uomini sui bastioni del castello. Dentro la rocca le porte si chiudevano, accogliendo gli ultimi contadini fuggiaschi, mentre la guarnigione del castello si schierava per combattere. Lucretia, portandosi dietro i due pupilli, correva verso la cinta orientale, verso un tunnel segreto. “Hanno vinto. Le negoziazioni di Oldstone hanno fallito, e adesso l’esercito del Sud è alle nostre porte. Il Cavaliere del Drago è qui!”
di Jacopo Chiostrini
INCOMUNICABILITÀ: storia di una strana coppia
di Aurora Orlando
Interlocutore 1: Io non posso credere che tu pensi davvero che in quel cesto ci sia della frutta. Interlocutore 2: Ma come fai a non accorgertene? Ci sono una mela, una pera, un kiwi e una banana, anzi due banane. Interlocutore 1: Lo vedi, è come quando discutiamo di qualunque cosa, tu vedi un cesto di frutta ed io una scatola di cioccolatini. È possibile che nessuno dei due riesce a comunicare? Interlocutore 2: Sai, solo un folle potrebbe vedere una scatola di cioccolatini al posto di un cesto di frutta, potrei definire la situazione quasi grottesca. Interlocutore 1: E come fai a sapere quale sia la verità assoluta? Perché solo ciò che vedi deve essere vero? Interlocutore 2: Basta osservare per essere consapevoli dell’evidenza, per quale motivo dovremmo negarla? Interlocutore 1: Perché io ti ho detto che quella è senza dubbi una scatola di cioccolatini, è la tua percezione ad essere alterata. Interlocutore 2: Ma come fai? Preferisci continuare a dire una bugia piuttosto che accettare la realtà, io non ti capisco più, non ce la faccio più. Interlocutore 1: Esatto, mi piace pensare che quella sia una scatola di cioccolatini, al diavolo la verità anche se evidente. Interlocutore 2: Va bene, è il caso che ci lasciamo. Interlocutore 1: Solo perché credo fermamente che sia molto più bello immaginare una scatola di cioccolatini piuttosto che un cesto di frutta? (Interlocutore 1 si avvicina al kiwi per mangiarlo) Interlocutore 2: E adesso cosa staresti facendo? Interlocutore 1: Quanto è buono questo cioccolato.
ACCLIMATARSI:
GLOBAL STRIKE FOR FUTURE
di Mina Fugini e Elena Garuti
È uno sciopero perlopiù studentesco, che volge a far pressione sui Governi per ottenere una transizione ecologica, giusta e immediata, in grado di fronteggiare la crisi climatica. La peculiarità storica sta nel fatto che si tratti di una data di protesta nonviolenta comune a tutto il Mondo,e che si svolga sotto un'unica bandiera apartitica, portatrice di una richiesta per futuro su un pianeta quantomeno vivibile. L'onda dei Fridays For Future è nata ad agosto 2018 davanti al parlamento svedese, dove la quindicenne Greta Thunberg ogni venerdì ha scioperato, inizialmente da sola, poi seguita da migliaia di ragazzi e ragazze; finché il 15 marzo 2019 1700 città hanno partecipato all'evento, (241 solamente in Italia), e il 27 settembre dello stesso anno solo in Italia 1 milione di persone, stando alle stime, sono scese in piazza. Gli scioperi di FFF rappresentano per milioni di persone forse l'unico mezzo , insieme al voto, per gridare la propria rabbia nei confronti del sistema capitalistico in cui viviamo, dal quale è necessario allontanarsi repentinamente se speriamo ancora in un cambio di rotta efficace. L’ onda di manifestazioni degli ultimi 3 anni è stata però anche occasione per una buona fetta di popolazione per sensibilizzarsi su un tema tanto importante e incombente quanto volontariamente trascurato dai politici e da tutti coloro che avrebbero la facoltà di prendere decisioni coraggiose e concretamente importanti ma che per interessi di natura principalmente economica non le considerano una priorità . Fridays ha raggiunto tanti obiettivi; tra questi, a livello nazionale, ricordiamo la causa “ GIUDIZIO UNIVERSALE", attraverso cui a dicembre lo Stato italiano è stato citato in tribunale per inadempienza climatica: tramite questo appello si vuole richiamare all’ attenzione la necessità di rispettare i famigerati accordi di Parigi del 2015, impresa per la quale è fondamentale triplicare gli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 entro il 2030. Inoltre nel 2022 è stato modificato il 9º articolo della Costituzione Italiana, che adesso recita: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione. Tutela l’ambiente, la biodiversità e gli ecosistemi, anche nell’interesse delle future generazioni. La legge dello Stato disciplina i modi e le forme di tutela degli animali”.
di Nike
È STATA MANO DIO
la
di
È stata la mano di Dio è l'ultimo gioiellino di Paolo Sorrentino; uscito nelle sale il 24 novembre 2021 per poi approdare su netflix il 15 dicembre, ha ricevuto apprezzamenti internazionali tanto da arrivare nella cinquina dei candidati all'oscar per il miglior film straniero. Il film narra le vicende di Fabietto, alter ego del regista, adolescente introverso e dalla forte sensibilità che vive la Napoli degli anni 80, quella di Maradona e dei contrabbandieri di sigarette. Un racconto a tratti tra il fedele e il romanzato dell'evento che più ha segnato la vita di Sorrentino, in cui sbirciamo come dei voyeristi e forse ci riconosciamo anche, come accade coi migliori romanzi di formazione. Ciò che colpisce del film infatti è l’esigenza che l’autore ha di raccontarsi, proprio come il protagonista che però fatica ad esprimersi; topica è infatti la scena in cui Fabietto incontra il regista Capuano, suo idolo e punto di riferimento che durante una discussione su cosa significhi fare cinema gli urla “E tu o tien caccos a ricer?” (“e tu ce lo hai qualcosa da dire?”) A significare che l’arte può nascere solo da un sincero bisogno di comunicare e comunicarsi al mondo. Ancora più significativo anche se apparentemente secondario è il personaggio della sorella, Daniela, perennemente chiusa in bagno e nascosta come le emozioni del fratello, la quale più o meno a metà pellicola gli rivela un segreto familiare perché "Te lo avremmo detto quando saresti stato più grande. Ora, ora sei grande." È solo alla fine del film che esce dal bagno mentre sono in corso i festeggiamenti per la vittoria dello scudetto da parte del Napoli, ed una lacrima le solca il viso. Fabietto non solo adesso è diventato grande, ma sa esternare le sue emozioni, sa piangere, sa crearsi una realtà che non sia scadente. Questo film è anche una lettera d'amore di Sorrentino al cinema, al sè giovane che ha deciso di intraprendere questa strada per salvarsi. Ed anche alla Napoli più bella che vedrete al cinema, con una ripresa iniziale che emoziona e fa bene all'anima, un po' come le note dolciamare di "Napul è" che chiudono il film sul volto del superbo Filippo Scotti che qui nel suo primo lungometraggio dà prova di un talento e di una sensibilità unici.
- illustrazione di Emma Crocetti
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GINO DE DOMINICIS
L'ENIGMA DEL SOLITARIO IRREPERIBILE
di Marianna Polagruto
Il silenzio echeggiante e provocatorio di un uomo colmo d’esistenza rende immortale la filosofia artistica di Gino De Dominicis, d’indole criptica e imbevuta di sapere. Nato ad Ancona nel 1947, fu un animo irrequieto ed infinito che mai amò i canoni ed i sentieri lineari del fare: di stampo più arcaico d’un antico egizio, si smarrì nel labirinto circolare della ciclicità del momento e nell’immortalità del corpo. Immerso nell’ideale pratica d’arresto dell’irreversibilità del tempo, la sua arte prende vita e mai l’abbandona nella dimensione dell’hic et nunc, in uno spazio di tempo attraversato ripetutamente solo dall’enigma. Ogni linguaggio ha origine da una istanza. L’immortalità fisica è l’istanza delle arti maggiori e ha il proprio paradigma nel capolavoro: così parlò della sua lingua. De Dominicis volle rendere infinita la tensione del corpo verso la vita, spesso attraverso la rappresentazione della morte stessa: in risposta alle mutazioni del tempo e al divenire dei fenomeni, egli sfida questa retorica dell’alchimia attraverso l’arma dell’assurdo, della suspense e del gioco di prestigio tra forme d’equilibrio dissonanti. Accoglie l’occhio finito dello spettatore con una tavola apparecchiata d’ogni forma d’arte: dalla fotografia alla sequenza-video ripetuta senza sosta, giungendo alle installazioni accompagnate da performance, fino a tornare alla scultura e alla pittura. Pur essendo schivo verso ogni forma di omologazione del suo obiettivo, fu attento alle tendenze generate dall’Arte Concettuale e dalla Minimal Art e, a partire dagli anni Ottanta, dal postmodernismo: tra gli anni Sessanta e Settanta si dedicò ad opere sperimentali, per poi concentrarsi prevalentemente sulla pittura e sul disegno, ricongiungendosi con una manualità da tempo dormiente. Lungo il corso degli anni Ottanta e Novanta fu genitore di numerose opere pittoriche, dove le immagini si cullano sospese in uno spazio senza sostanza, costellato da gocce di forme essenziali svuotate del proprio peso corporeo e rigorosamente bidimensionali. La primitiva essenzialità formale illumina singolarmente la pennellata di De Dominicis che, attraverso immagini primordiali, intende portare in scena l’essenza delle cose che costituiscono la realtà sensibile. Come nel Timeo di Platone il demiurgo (simbolo dell’intelligenza cosmica) ha plasmato gli elementi dell’universo a somiglianza delle idee, calando l’unità nella molteplicità e creando ordine ove regnava disordine, allo stesso modo De Dominicis, artista-demiurgo, si tuffa nel profondo della realtà mediante l’indagine sulla varietà delle forme archetipiche, plasmando la materia dei corpi in funzione di una perfetta idealità. Singolare e apparentemente fine a se stesso è lo studio della ricorrenza di azioni destinate a fallire in partenza: in Tentativo di far formare dei quadrati invece che dei cerchi intorno a un sasso che cade nell’acqua, De Dominicis getta in modo sistematico un ciottolo in un fiume, scatenando una semplice eco di anelli vibranti. Ogni volta che il cerchio si dilata sino a riempire lo schermo, nuovamente una pietra viene risucchiata dallo specchio fluido alla ricerca inconsistente ed ostinata della formazione di quadrati, prendendosi gioco del codice fisico universale. L’azione non si estingue metafisicamente mai: così come il circolo luccicante dell’acqua si espande nello schermo, analogamente la sfida dell’artista non cesserà mai di esistere e, di conseguenza, non avrà né vincitori né vinti. L’esperimento gemello per principio s’intitola Tentativo di volo, il quale prevede una cristallizzazione eterna fuori dalla dinamica temporale della sua realizzazione fattiva: l’artista, come un moderno Icaro, aspira al volo umanamente impossibile lungo la traiettoria della concezione materiale irrisolvibile. L’insofferenza di De Dominicis ebbe inoltre sfogo nella sua perenne irraggiungibilità: le sue opere non sono mai state catalogate e raramente sono state fotografate, tanto che lui stesso non autorizzò mai la pubblicazione; permane ostica la comunicazione del suo universo al mondo, lasciando un equilibrato silenzio contemplativo. Il fascino dell’attimo fulmineo ossessionò Gino, ghiacciato in un passato perenne ma infinitamente presente.
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di Giulia Taviani
CONTENTA TU
di Alberto Sanna
nonchalance, Castello racconta la sua vita e la sua Siracusa con leggerezza, tema centrale dell’album, sia concettualmente che strumentalmente. La sua penna disimpegnata racconta la propria adolescenza e infanzia tramite immagini quotidiane e surreali contrapposte,dipinte con un’ironia di fondo disarmante. “Contenta Tu” spazia tra i banchi di una scuola elementare e i posti in fondo del bus fino ai “torpi” in compagnia degli amici e ad appassionati amori sonnolenti. Queste storie, come un dipinto dai colori sfavillanti, sono incorniciate dal mare della bella Ortigia, luogo in cui la vita del cantautore si svolge felicemente. Così ci incamminiamo per i vicoli di Siracusa, muovendoci a tempo con ballate dall’odore un po’ funk e nostalgico, saltando sulla spiaggia a ritmi dance fino a guardare le stelle e pensare ad amori passati, accompagnati e abbracciati dall’io lirico di Castello, distaccato, ma a noi così vicino. Ogni singola melodia è originale, talvolta si rincorrono l’un l’altra di canzone in canzone, sostenute da linee di basso eccezionali e ritmiche funk che rendono difficile non ballare all’ascolto di questo disco. Tra accordi di synth, citazioni ai Beatles e a Stevie Wonder, la chitarra ritmica suonata da Castello svolge un lavoro minuzioso, mentre la sua voce leggera canta con melodie che rimandano alla canzone tradizionale siciliana (non per nulla sono presenti ben due tracce in dialetto). Questo album è un lavoro impeccabile, con dinamiche che si alternano perfettamente e ritmiche incastrate meticolosamente anche nei pezzi più lenti e ballabili, per non parlare dell’armonia jazz, sogno proibito di ogni musicista, padroneggiata con maestria da Castello.
“Battete ai bonghetti Battisti, Dookie e cartoni animati con relative sigle. Amalgamate per dieci anni, poi affettate una tromba. Versate su un piano a parte i Beatles. A 12 anni consiglio un’improvvisata sul palco di Roy Paci che vi presta il suo ferro davanti a migliaia di persone, altrimenti vanno benissimo chitarra e falò. Simulate una batteria e azzardate i primi gruppi. Soffriggete Kind Of Blue, Charlie Parker, L’album della pecora, Bob Marley, dancehall in cave di pietra, Ella e Louis, poi frullate tutto. Cuocere ad altissimi volumi all'Arsonica di Siracusa per sei anni. Dopo il liceo siete pronti per recuperare la tromba dimenticata. Iscrivetevi alla prima scuola di jazz che vi consigliano, sarà a Milano, e in quattro anni di jam in cripte occupate e accattonaggio sui navigli setacciate Coltrane, Robert Glasper, Hiatus Kaiyote, D'Angelo, Vulfpeck, Mild High Club e Mac Demarco. Asciugatevi le terga con una laurea triennale in tromba jazz. Attenzione,momento critico, riportate tutto giù a sobbollire a casa perchè è chiaro a tutti che il futuro da trombettista è carbonizzato. Spillate birre e cominciate a scrivere canzoni in italiano, fin quando grazie ad una parmigiana particolarmente riuscita non vi infilate nei tour di Erlend Øye. Quindi girare per il mondo con il gruppo ortigiano che lo accompagna, La Comitiva. Incidete un disco di pezzi pronti composti insieme a Piso e Leo, che amo, sotto l’occhio attento dello chef Marcin Oz. Assaggiate. Hhhmmmmmm. Servite”. Così si raccontò Marco Castello, poliedrico musicista siculo classe ‘93 che si presenta nel panorama discografico con “Contenta Tu”, disco di esordio nel 2021. Abbiamo tra le mani un album unico dal sapore speziato, colmo di influenze funk, city pop, synth pop e cantautoriali. Il disco sprizza energia da tutti i pori e, con
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Il suo umorismo placido e tagliente sguazza nel mare di testi e di parole con tranquillità e beffardaggine. Tra amori adolescenziali e pittoreschi personaggi, la spensieratezza e la semplicità sono le chiavi di questo album che ama la vita esattamente come il suo autore, e ricorda il passato con una nostalgia positiva e attiva, guardando al presente con occhio ironico e sorridente. Da ascoltare di estate in riva al mare, “Contenta Tu” è uno dei dischi più incredibili di questi ultimi anni, ha raggiunto livelli tecnici e musicali estremamente alti e virtuosistici, capaci di dipingere un sorriso in ogni ascoltatore. Marco Castello ti prende per mano, ti offre una sigaretta e ti butta in acqua, ridendo e mostrando un sorriso a trentadue denti. Questa è l’esperienza di ascolto del disco, un’immersione totale nel variopinto mondo dei suoi ricordi e della sua Siracusa. Un ascolto prezioso che vi darà una nuova prospettiva per affrontare la vita con gioia e col sorriso, un po’ beffardo.
"Un giorno sarò il re dei posti in fondo"
MARCO CASTELLO -PORSI
NUOVE USCITE
AGLIO E OLIO
OPEN A WINDOW
FULMINACCI, WILLIE PEYOTE
REX ORANGE COUNTY, TYLER
PARTICELLE
STORIA DI ANTONIO
CARLO CORALLO, MURUBUTU
GIUSE THE LIZIA
IDC
TANGO
FUTURO PELO, MILA STAHLY
CARPETGARDEN
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COMUNICAZIONE A SCUOLA
Alice D'Ettole e Emma Crocetti intervistano Cecilia Iannaco, psichiatra e cofondatrice di Netforp Europa
Dopo la DaD è ancor più palese quanto una scarsa comunicazione possa peggiorare non solo il percorso scolastico di un adolescente ma anche quello di crescita personale. Troppo spesso, e l’uso dei social ne è la prova, nella comunicazione la quantità conta più della qualità. Anche a scuola osserviamo quanto il rapporto di reciprocità essenziale per una buona vita scolastica tra studenti e professori sia ostacolato da veri e propri ‘muri’ che inibiscono una comunicazione vera ed efficace. Come fatichiamo noi studenti a trovare una relazione più autentica con i nostri insegnanti, così sicuramente anche i docenti avvertiranno un disagio maggiore nel comprendere la realtà che viviamo noi giovani. Per questo ci siamo posti delle domande e cercando risposte ci siamo rivolti ad una professionista della salute mentale. La dottoressa Cecilia Iannaco, psicologa e psicoterapeuta, cofondatrice dell’associazione Netforpp Europa, ha gentilmente risposto alle nostre domande.Leggendo il suo articolo pubblicato su Left (n. 50/2021) ci siamo chiesti se gli ostacoli siano stati creati dalla DaD o se quest’ultima li abbia semplicemente rafforzati. Gli ostacoli che impediscono un rapporto valido a scuola non originano dalla DaD: le cause sono profonde e di ordine sociale. La scuola è un perfetto spaccato della società e rispecchia il nostro modo di vivere. Ritengo che si faccia tanta retorica sul fallimento della DaD per non guardare, ancora una volta, ai veri problemi della scuola che nascono da una società esasperatamente individualistica, narcisistica e competitiva in cui il singolo perde il senso dello stare insieme all’altro. Scuola significa, per sua natura, collettività. Oggi invece è a rischio anche il gruppo-classe che dovrebbe avere un’identità ben definita di cooperazione e collaborazione. È il fare che conta a discapito dell’essere. Lo dico in modo paradossale ma ho la sensazione che alunni, genitori e insegnanti si stiano piegando alla dittatura della prestazione e della valutazione. I ragazzi sono in competizione fra loro e si identificano con il voto; il genitore ripone nelle aspettative scolastiche il suo maggior interesse per la vita dei figli; i docenti, anche i migliori, diventano semplici esecutori dei programmi e della valutazione. Finisce che il dialogo, ciò che voi avete splendidamente definito ‘rapporto di reciprocità essenziale’, sparisce dalla relazione e il linguaggio comune diventa la polemica. Tutto questo non può far bene alla psiche. I giovani, invece di trovare opportunità per il loro sviluppo psichico, accusano disturbi d’ansia, depressione e disturbi alimentari. Non si rendono conto che sono vittime del ‘terrore dell’errore’. Come fossimo ad X Factor o Master Chef: chi sbaglia è fuori. Non può essere così. La scuola deve permettere di fare errori, di comprenderli e migliorarsi. Un ragazzo è a scuola per imparare, non per fare bella mostra di sé. Per crescere. In una situazione serena la crescita dovrebbe essere oltretutto reciproca: anche l’insegnante impara dai propri alunni. La DaD ha ben poche responsabilità. Tuttalpiù ha inasprito tensioni già esistenti. Se i problemi erano già preesistenti, lei pensa che esistano modi concreti per migliorare la situazione? La soluzione più efficace non è propriamente concreta perché è di carattere culturale e dunque a lungo termine. Come è nato lentamente l’individualismo sfrenato, così occorre tempo per trovare nuove modalità di vivere. Tuttavia, non possiamo esimerci dal fare ognuno la propria parte affinché le cose cambino. Occorre promuovere una scuola che sia emancipazione della persona e del pensiero e sottrarci al concetto di ‘educazione’. Educare significa ‘condurre fuori’ ma i ragazzi non hanno bisogno di essere guidati o condotti. Hanno piuttosto l’esigenza di trovare, a partenza dalla propria interiorità, la propria identità e sviluppare una personalità originale. Se accettiamo l’idea che i giovani debbano essere guidati per comprendere chi sono e dove vogliono andare, facciamo loro un torto. La scuola ed i docenti dovrebbero offrire strumenti di conoscenza e confronto per lo sviluppo di interessi e passioni e un nuovo modo di operare già dalla scuola dell’infanzia. Solo così, inibendo la competizione, avremmo alle superiori alunni che vivono la scuola come luogo di confronto relazionale e affettivo e non come palcoscenico su cui primeggiare. Sono trasformazioni culturali apprezzabili solo nel tempo. Per agire più concretamente nell’immediato ogni protagonista scolastico può lavorare su di sé. Il genitore potrebbe accettare una maggior separazione fra scuola e famiglia. Quando i figli escono da casa, è necessario lasciarli liberi di andare incontro, da cittadini, alla loro personale socialità. Solo così potranno essere autonomi e adeguati alla vita. I ragazzi, da parte loro, potrebbero rischiare di più e assumersi le proprie responsabilità nel cercare un rapporto diretto con i docenti. Troppo spesso i giovani risolvono i loro problemi mandando avanti i genitori.
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Per quanto riguarda i docenti il discorso è più complesso. L’auspicio è che ogni insegnante, nonostante lo scarso riconoscimento sociale, si percepisca come valido professionista e non dimentichi mai l’aspetto affettivo e relazioni.
Lei scrive ‘La ricerca scientifica in tempo di Covid ha mostrato scarso interesse per il vissuto psicologico dei docenti’. Nella frase che avete ricordato, mi riferivo al rischio di burn out nelle professioni usuranti. Sottolineavo che, mentre in altre professioni di aiuto (assistenti sociali, medici, psicologi, infermieri ecc.) si è riconosciuto in tempo di Covid l’alto livello di coinvolgimento emotivo e di stress nel rispondere alle esigenze altrui, per quanto riguarda la professione degli insegnanti è stata pressocché inesistente la cura e la ricerca sul vissuto emotivo. Nonostante il grande sforzo compiuto dalla maggior parte dei docenti in tempo di pandemia, ancora una volta la nostra società ha mostrato poco rispetto e riconoscimento del lavoro che fanno gli insegnanti. Si tratta di una professione soggetta a pregiudizi pericolosi. Si pensa che sia un mestiere ‘da donne’ perché legato all’idea di cura e accudimento con tutti gli stereotipi del caso. Si pensa che sia facile, comodo e poco impegnativo in termini di tempo. È falso ma di fatto sono idee che indeboliscono l’immagine professionale e minano l’autorevolezza e finisce, solo per fare un esempio, che in Italia un insegnante percepisce uno stipendio pari a meno della metà di un docente tedesco. La scuola deve invece considerare di più i propri dipendenti e offrire loro anche valide opportunità di formazione psicologica. Perché nelle scuole gli sportelli d’ascolto sono poco utilizzati dai ragazzi? I motivi sono vari, ne ricordo tre: i pregiudizi nei confronti della psicologia; l’influenza di un modello sociale volto al profitto e al successo; un rapporto di identificazione con i genitori da parte di molti giovani. Per quanto riguarda i pregiudizi, si pensa ancora che chi si rivolge allo psicologo lo faccia perché ha seri problemi di ordine psichico. È un falso. Gran parte dei giovani viene da noi per chiarirsi le idee, per avere un’occasione di ascolto in una società troppo spesso cieca e sorda alle tematiche interiori. Altri vengono per confrontarsi su dinamiche psichiche che li toccano e rispetto alle quali non sanno muoversi; altri per una delusione sentimentale; altri per dissapori all’interno della famiglia o del gruppo di amici. In sintesi, molti vengono per comprendere meglio la loro vita e arricchirla. L’altro motivo che a mio parere allontana i giovani dagli sportelli è il modello e lo stile di vita scolastico che tanti giovani assumono: un po’ troppo volto al successo e alla prestazione. Si guarda più alla media dei voti che al benessere psichico; si pensa più ad essere popolari e considerati dagli altri che a comprendersi e capire cosa si vive interiormente. Il mondo interiore, fatto di sensazioni ed affetti, viene talvolta soffocato per così lungo tempo che non è poi un caso se la persona reagisce con attacchi di panico e disturbi d’ansia. Altro fattore, forse più invisibile, che può fungere da deterrente è il rapporto fra vecchie e nuove generazioni. Se un tempo, giunti in adolescenza, si tendeva ad un rapporto conflittuale con i genitori, oggi osservo che molti giovani assumono un atteggiamento protettivo nei confronti del padre e della madre. Noto da tempo una certa difficoltà come se venendo allo sportello potessero in qualche modo ‘accusare’ i genitori di non aver fatto abbastanza per loro. Vi è una sorta di senso di colpa. Ma non è affatto così. I genitori fanno ciò che possono e, in genere, non solo approvano l’attività degli sportelli ma si sentono anche sollevati dal nostro aiuto. Si sentono meni soli. Trovo che questo sia un particolare fondamentale da sfatare. Un’ultima domanda: quali sono gli aspetti positivi di una buona comunicazione in un ambiente, in questo caso quello scolastico? Diciamo che una cattiva comunicazione non aiuta la relazione ma ciò che in un rapporto è fondamentale è il senso che ognuno attribuisce alla relazione. La comunicazione è lo strumento. Bisogna partire da un valido interesse per l’altro nel rapporto: l’insegnante nel dare opportunità di conoscenza agli allievi e i ragazzi nel prendere e ampliare i propri orizzonti formativi. Per fare questo è necessario però fidarsi dell’altro e vedere di volta in volta cosa si potrebbe migliorare. Trovo necessario che i docenti, invece di bollare l’adolescenza come periodo ingrato e difficile, sappiano sviluppare curiosità per le nuove generazioni e, allo stesso tempo, che gli studenti sappiano prendere dai loro insegnanti ciò che hanno da offrire senza ridurli a burocrati valutatori della scuola. Se c’è questo contenuto nella relazione, la comunicazione che ne scaturisce non può che essere sincera e propositiva.
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CATARSI
La catarsi è il momento di purificazione, di rinascita rispetto agli sconvolgimenti dell'animo. È un termine di origine antica, viene dal mondo greco e stava a significare sia il rito magico della purificazione fisica, sia la liberazione dell'anima dall'irrazionale. La nostra rubrica così intitolata vuole essere un luogo letterario in cui si possano trovare spunti artistici, di tutti i tipi, diversi di volta in volta a seconda del tema designato, che magari possano aiutare chiunque avrà la curiosità, e la pazienza, di soffermarsi a leggerla e dare un'occhiata a questi suggerimenti, a scrollarsi di dosso preoccupazioni o pensieri. Superare cioè, i momenti dolorosi legati ad un certo tema, attraverso l'arte. Per questo numero la parola scelta è "comunicazione", un aspetto della nostra quotidianità nell'ultimo secolo ancora più accentuato dall'invenzione di nuove tecnologie. Comunicazione è la capacità di condividere emozioni e sensazioni e dunque costruire un rapporto empatico. Quale miglior modo di comunicare se non attraverso l'arte?
Heartbeat ConversationsRxseboy 2019
The social dilemma 2020
Kafka sulla spiaggia H. Murakami 2002
Telefono aragosta S. Dalì 1936
I CONSIGLI DEL PROF
Claudio Passera: Comunicazione. Qualche premessa e suggerimento operativo
Della comunicazione, dei suoi obiettivi, delle sue forme e delle sue professioni si potrebbe parlare all’infinito, soprattutto in un mondo sovraesposto all’informazione di media più o meno social come il nostro. Fortunatamente però i greci, come di consueto, avevano già detto tutto quel che c’è da sapere. Mi riferisco ad Aristotele, che nella Retorica (III, 1) aveva ammonito gli aspiranti oratori: se volete essere efficaci dovete conoscere ciò di cui parlate, ma anche coloro cui parlate e, infine, il modo più adatto per trasmettere il vostro messaggio. Poste queste apparentemente facili premesse si può aggiungere qualche richiamo alla semplicità. Ai miei alunni (e a me stesso, quando scrivo) ricordo continuamente: esprimendolo con meno parole, ben scelte, il concetto da esprimere risulterà più chiaro. Togliere sempre, allora, da un tema, un messaggio whatsapp o un post Instagram scritte o immagini che non servono, perché un testo più breve si fissa meglio nella memoria e rimuove possibili incertezze interpretative: “Il vostro parlare sia sì sì, no no. Il resto viene dal demonio” (Mt, V, 37). Ultimo suggerimento: una professionista della comunicazione affermatissima sulla scena milanese, con anni di insegnamento su questi temi presso l’università Bocconi, Anna Maria Testa, ha recentemente pubblicato un libro che può essere di aiuto a chi voglia imparare a esprimersi per iscritto o oralmente efficacemente. Lo ha intitolato Il coltellino svizzero (Garzanti): pratico, tascabile, utile strumento di lavoro per affinare le strategie di espressione di chi legge. Lo trovate anche sul suo sito: Nuovo e utile (NEU). Teorie e tecniche della creatività. Anche questo da tenere sott’occhio per cogliere stimoli interessanti provenienti dal mondo della comunicazione professionale.
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I QUATTRO (E)VENTI
Stensen e La Compagnia fino al 9 giugno
RASSEGNA PASOLINI
VINICIO BERTI
MOSTRA DELL'ARTITIGIANATO
Fortezza Da Basso dal 24 aprile fino al 1 maggio
Museo Novecento fino al 1 maggio
DONATELLO, IL RINASCIMENTO
Palazzo Strozzi fino al 31 luglio
LO SAPEVI CHE...
L'originaria struttura della nostra scuola fu sede dei Gesuiti, protetti dal Granduca di Toscana. Poi, quando nel Settecento la Compagnia di Gesù fu sciolta dal papa, l'edificio passò a un altro ordine religioso nato con la Controriforma: i padri Scolopi (o Calasanziani, dal nome del loro fondatore), che ingrandirono la struttura e che avevano proprio come loro obiettivo fondativo la cura (e il controllo) dell'educazione-istruzione scolastica di infanzia e di adolescenza. Gli Scolopi rimasero nella "nostra" sede fino al 1878, quando il governo nazionale e il commissario prefettizio riuscirono ad allontanarli (gli lasciarono però alcuni locali annessi alla chiesa e all'Osservatorio) e nacque così il Galileo, primo ginnasio statale della Toscana. Fino a pochi decenni fa tutto il primo piano era occupato dalla scuola media Rosselli (accanto all'uscita su S. Lorenzo c'è ancora la targa), mentre il nostro liceo era solo al piano terra e al secondo piano.
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REBUS
con i disegni di Giacomo Oroya
Completa il fumetto come più ti piace, dagli un titolo e condividi la tua versione della storia inviandocela in DM o per email
4 2 9
LE
4 5 5
50145
UT
DI
Fine
LA PERLA DI PAOLONE
Per i giovani e per il vostro futuro, non fatevi mai rubare il sorriso da nessuno
COLORA GALILEO
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REDAZIONE
in ordine alfabetico
Sara Antonietti 5D Giulia Bagni 1A Margherita Bagni 3F Michele Bonanno 5E Irene Bruscoli 1A Jacopo Chiostrini 5E Emilio Cioncolini 5E Anna Vittoria Cipriani 5E Emma Crocetti 5D Alice D'Ettole 3F Azzurra Falciani 5E Cosimo Falorsi 5F Lili Fazzini 5C Mina Fugini 3F Gabriele Gargaloni 5D Elena Garuti 3A Alessia Gori 3F Roberta Longo 1A Tommaso Mangani 5F Alessandro Mantellini 5F Emma Mastursi 5E Aurora Orlando 5A Giacomo Oroya 1C Arianna Pietroluongo 5F Marianna Polagruto 5E Samuele Riccucci 3H Alberto Sanna 5F Luca Schifano 5A Caterina Tatti 1A Giulia Taviani 3C
L'email a cui potete inviare i vostri elaborati e disegni è
orecchiodidionisio.galileo@gmail.com
L'ORECCHIO DI DIONISIO