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ISMI del '900
Raffaele Cimino
Created on December 6, 2021
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Transcript
le avanguardie storiche del '900
- intro+ Fauves, Espressionismo - pag. 23
- Cubismo - pag. 25
- Cubismo - pag. 38
- Futurismo - pag 55
- Dadaismo - pag.77
- Astrattismo - pag. 97
- Metafisica - pag. 123
- Surrealismo, R. Magritte - pag. 144
- S. Dalì - pag. 162
- F. Kahlo - pag. 184
- F. Kahlo - video
prof. Raffaele Cimino
Programma
PENTAMESTRE
1/3
2/3
- ASTRATTISMO
- METAFISICA
- SURREALISMO 1 (INTRO+MAGRITTE)
- SURREALISMO 2 (DALì)
- FRIDA KAHLO
- FRIDA KAHLO (video)
- AVANGUARDIE ARTISTICHE DEL '900 INTRO, FAUVES -ESPRESSIONISMO
- CUBISMO 1
- CUBISMO 2
- FUTURISMO
- DADA
3/3
- ARCHITETTURA DEL '900
- NEW DADA
- NOUVEAU REALISME
- POP ART (1968)
Introduzione
Le avanguardie storiche I numerosi movimenti artistici sorti all’inizio del Novecento sono stati tutti caratterizzati da una volontà di rottura con il passato. Questa forte carica di rinnovamento li ha di fatto posti in prima linea nell’ambito delle nuove ricerche artistiche. Ciò ha determinato l’appellativo, dato a questi movimenti, di «avanguardie». Tutto il Novecento, in realtà, è stato caratterizzato da un clima di sperimentazione continua. Ma, per delimitare quelli che sono stati i primi movimenti di rinnovamento, vi è la convenzione di definirli «avanguardie storiche». Lo spazio temporale di questo fenomeno coincide con gli anni a cavallo della prima guerra mondiale. Le prime avanguardie sorgono intorno al 1905, con l’Espressionismo; le ultime agli inizi degli anni ’20, con il Surrealismo (1924). Parigi, nel corso del XIX secolo, si era affermata come la capitale europea in campo artistico. Il fenomeno delle avanguardie storiche interessa invece tutta l’Europa, anche se Parigi continua a conservare un ruolo determinante nel campo artistico. Le prime due avanguardie sorsero infatti nella capitale francese. Nel 1905, si costituì il gruppo dei Fauves, che rappresenta il primo movimento di ispirazione espressionistica. Nello stesso anno l’Espressionismo si diffuse soprattutto in Germania e nei paesi nordici. Nel 1907, grazie a Picasso e Braque, sempre a Parigi sorse il movimento del Cubismo. Anche il Futurismo, che è un’avanguardia decisamente italiana, partì da Parigi. Qui, infatti, sul quotidiano Le Figaro, Filippo Tommaso Marinetti pubblicò nel 1909 il «Manifesto del Futurismo». Il Cubismo e il Futurismo produssero influenze notevoli in Russia dove in quegli anni sorsero movimenti quali il Cubofuturismo, il Suprematismo e il Costruttivismo. Anche la seconda avanguardia italiana di quegli anni (1917), la Metafisica, in embrione nacque a Parigi, dove Giorgio De Chirico, il massimo rappresentante del movimento, svolse parte della sua attività giovanile. Una cesura notevole nello sviluppo delle avanguardie fu determinato dallo scoppio, nel 1914, della prima guerra mondiale. Numerosi artisti furono costretti a partire per il fronte bellico e molti di essi morirono in guerra. A Zurigo, nella neutrale Svizzera, si rifugiarono numerosi artisti ed intellettuali e qui nacque, nel 1916, il movimento di maggior rottura tra le avanguardie storiche: il Dadaismo. Dal Dadaismo e dalla Metafisica, nel 1924, nacque quella che viene considerata l’ultima delle avanguardie storiche: il Surrealismo. Anche qui, il centro di maggior irradiamento del nuovo movimento fu soprattutto Parigi e la Francia. Infine, pur se non può essere considerato un movimento omogeneo e compatto, le avanguardie storiche produssero il fenomeno di maggior novità nell’arte del Novecento: l’Astrattismo. L’abbandono definitivo della mimesi naturalistica avvenne intorno al 1910, grazie soprattutto ad un artista di origine russa, ma operante in Germania: Wassilj Kandinskij. La sua formazione artistica è di matrice espressionistica, tanto che l’Astrattismo, nella sua fase iniziale, può essere considerato un estremo limite dell’Espressionismo. Il fenomeno delle avanguardie si spense intorno agli anni ’30. La foga rinnovatrice aveva momentaneamente esaurito la sua carica rivoluzionaria. A questo momento di pausa artistica corrispose, in quegli anni, l’affermazione, in campo politico, di regimi totalitari e reazionari, quali il fascismo in Italia e il nazismo in Germania, che si fecero fautori di un indirizzo artistico di stampo tradizionalistico e accademico. Avversarono apertamente i nuovi stili artistici, arrivando in Germania a definirli «arte degenerata», eliminandola dai musei e dalle collezioni statali. Molti esponenti artistici, che avevano operato in Germania, furono costretti ad emigrare negli Stati Uniti dove trasferirono molte delle novità culturali prodotte in Europa. Le avanguardie storiche avevano oramai totalmente modificato il concetto di arte visiva. In pochi anni avevano accumulato un patrimonio enorme di idee e di concetti che divennero la vera eredità per tutti i futuri movimenti che si sono sviluppati in campo artistico fino ai giorni nostri.
1° parte 2° parte
Con il termine fauves (in francese "belve, selvaggi") si indica un movimento artistico d'avanguardia, che in realtà è un gruppo di pittori, perlopiù francesi, che nella prima parte del Novecento diedero vita ad un'esperienza di breve durata temporale, ma di grande importanza nell'evoluzione dell'arte. Di breve durata perché propongono una nuova arte e proponendo una nuova arte, poi l'arte nuova proposta diventa vecchia, però sono alla ricerca di qualcosa di nuovo e propongono arte innovativa. Questa corrente è anche detta fauvismo. Il movimento ebbe la propria prima collettiva grazie al Salon d'Automne di Parigi nel 1905. George Desvallières, vicedirettore del Salon e pittore egli stesso, aveva conosciuto alcuni di questi artisti durante un comune periodo di studio presso l'atelier di Gustave Moreau e decise di raggruppare alcune delle loro opere nella sala centrale del Salon in modo da amplificare l'effetto dirompente delle loro singolarità. Il primo ad utilizzare il termine fauves, o comunque a diffonderlo e renderlo celebre, fu il critico d'arte Louis Vauxcelles, che definì la sala come una "cage aux fauves" cioè una "gabbia delle belve", per la "selvaggia" violenza espressiva del colore, steso in tonalità pure. Sembra che così abbia esclamato il critico d'arte Louis Vauxcelles quando, entrando nell'ottava sala del Salon d'Automne di Parigi (1905) dove esponevano gli artisti, vide una statua tradizionale circondata da dipinti dai colori molto violenti e accesi ed esclamò: "Ecco Donatello fra le belve!". Il gruppo di artisti chiamati Fauves non fu mai un vero gruppo; non ci fu infatti mai un programma e neppure una vera comunità d'intenti. Discutevano molto di impressionismo, spesso in termini negativi ma apprezzando la novità di una luce generata dall'accostamento di colori puri. I Fauves si differenziarono dall'espressionismo tedesco per una minore angoscia esistenziale, un minore intento polemico e critico nei confronti della società e, allo stesso tempo, un maggiore interesse per il colore, usato in modo libero e in funzione anche emotiva, oltre che costruttiva, sulla scia di van Gogh e di Gauguin;
i Fauves
(1905-1910)
H. Matisse Donna con il cappello, 1905
Henri Matisse
Matisse usava partire dalla raffigurazione della realtà, trasformandola poi in forme semplificate e appiattite attraverso l'accostamento di colori primari e secondari puri, accesi, luminosi, privi ormai di riferimento alla descrizione naturale. La sua attività pittorica si svolse per decenni, nel suo quieto ambiente familiare, lontano dai clamori della vita mondana. Svolse la sua ricerca portando il suo stile ad un affinamento progressivo che toccò le soglie dell'astrattismo, al quale si avvicinò soprattutto con la tecnica del collage su carta, con figure semplificate, dalle campiture omogenee, che producevano effetti dinamici e un vivace contrasto con lo sfondo. La sua serie di Nudi Blu rappresenta il principale esempio della tecnica denominata "dipingere con le forbici"; erano composizioni figurative a collage, a uno o più colori, per i quali usava cartoncini leggeri, sia per lo sfondo sia per il disegno. Tracciava prima a matita l'intero disegno sul foglio e poi preparava le figure colorate da incollare. Semplificava le figure e le riavvicinava lasciando piccoli margini bianchi. Ai colori primari accostava i colori complementari con l'evidente intento di rafforzarne il contrasto timbrico. Ne risultava un insieme molto vivace con un evidente gusto per la decoratività. La forte valenza decorativa era accentuata dalla semplificazione delle forme e dalla bidimensionalità.
Questo quadro di Matisse, tra i più famosi della sua produzione espressionistica, sintetizza in maniera esemplare la sua poetica e il suo stile. Il quadro trasmette una suggestione immediata. Il senso della danza, che unisce in girotondo cinque persone, è qui sintetizzato con pochi tratti e con appena tre colori. Ne risulta una immagine quasi simbolica che può essere suscettibile di più letture ed interpretazioni. Il verde che occupa la parte inferiore del quadro simboleggia la Terra. Segue la curvatura del nostro mondo e sembra fatto di materiale elastico: il piede di uno dei danzatori imprime alla curvatura una deformazione dovuta al suo peso. Il blu nella parte superiore è ovviamente il cielo. Ma si tratta di un blu così denso e carico che non rappresenta la nostra atmosfera terrestre bensì uno spazio siderale più ampio e vasto da contenere tutto l’universo. E sul confine tra terra e cielo, o tra mondo ed universo, stanno compiendo la loro danza le cinque figure di colore arancio. Le loro braccia sono tese nello slancio di tenere chiuso un cerchio che sta per aprirsi tra le due figure poste in basso a sinistra. Una delle figure è infatti tutta protesa in avanti per afferrare la mano dell’uomo, mentre quest’ultimo ha una torsione del busto per allungare la propria mano alla donna. La loro danza può essere vista come allegoria della vita umana, fatta di un movimento continuo in cui la tensione è sempre tesa all’unione con gli altri. E tutto ciò avviene sul confine del mondo, in quello spazio precario tra l’essere e il non essere. Il vortice circolare in cui sono trascinati ha sia i caratteri gioiosi della vita in movimento, sia il senso angoscioso della necessità di dovere per forza danzare senza sosta. In questo quadro Matisse giunge ad una sintesi totale tra contenuto e forma, riuscendo ad esprimere alcune delle profonde verità che regolano, non solo la vita dell’uomo, ma dell’intero universo.
la Danza
Matisse, la danza 2,6 m x 3,91 m Colore ad olio, 1910 Ermitage, San Pietroburgo (seconda versione)
due versioni
l'Espressionismo
L'espressionismo proponeva una rivoluzione del linguaggio che contrapponeva all'oggettività dell'impressionismo la sua soggettività. L'impressionismo rappresenta una sorta di moto dall'esterno all'interno, cioè era la realtà oggettiva a imprimersi nella coscienza soggettiva dell'artista; l'espressionismo costituisce il moto inverso, dall'interno all'esterno: dall'anima dell'artista direttamente nella realtà, senza mediazioni. Il senso dell'Espressionismo produce una ribellione dello spirito contro la materia e quindi gli occhi dell'anima sono la base di partenza della poetica espressionistica. Nell’ambito delle avanguardie storiche con il termine espressionismo indichiamo una serie di esperienze sorte soprattutto in Germania, che divenne la nazione che più si identificò, in senso non solo artistico, con questo fenomeno culturale. In particolare possono essere considerati dei pre-espressionisti Van Gogh, Gauguin e Munch. In questi pittori sono già presenti molti degli elementi che costituiscono le caratteristiche più tipiche dell’espressionismo: l’accentuazione cromatica, il tratto forte ed inciso, la drammaticità dei contenuti. Sempre nel 1905, anno dei Fauves, si costituì a Dresda, in Germania, un gruppo di artisti che si diede il nome «Die Brücke» (il Ponte). I principali protagonisti di questo gruppo furono Ernest Ludwig Kirchner e Emil Nolde. In essi sono presenti i tratti tipici dell’espressionismo: la violenza cromatica e la deformazione caricaturale, ma in più vi è una forte carica di drammaticità. Nell’espressionismo nordico, infatti, prevalgono sempre temi quali il disagio esistenziale, l’angoscia psicologica, la critica ad una società borghese ipocrita e ad uno stato militarista e violento. E, proprio da Munch, i pittori espressionisti presero la suggestione del fare pittura come esplosione di un grido interiore. Un grido che portasse in superficie tutti i dolori e le sofferenze umane ed intellettuali degli artisti del tempo. Un secondo gruppo espressionistico si costituì a Monaco nel 1911: «Der Blaue Reiter» (Il Cavaliere Azzurro). Principali ispiratori del movimento furono Wassilj Kandinskij e Franz Marc. Con questo movimento l’espressionismo prese una svolta decisiva. Der Blaue Reiter propose invece un’arte dove la componente principale era l’espressione interiore dell’artista che, al limite, poteva anche ignorare totalmente la realtà esterna a se stesso. Da qui, ad una pittura totalmente astratta, il passo era breve. Ed infatti fu proprio Wassilj Kandiskij il primo pittore a scegliere la strada dell’astrattismo totale. Il gruppo Der Blaue Reiter si disciolse in breve tempo. La loro ultima mostra avvenne nel 1914. In quell’anno scoppiò la guerra-
Differenze con l’Impressionismo Una profonda differenza divide i due movimenti. L’impressionismo è stato sempre connotato da un atteggiamento positivo nei confronti della vita. Era alla ricerca del bello, e proponeva immagini di indubbia gradevolezza. I soggetti erano scelti con l’intento di illustrare la gioia di vivere. Di una vita connotata da ritmi piacevoli e vissuta quasi con spensieratezza. Totalmente opposto è l’atteggiamento dell’espressionismo. La sua matrice di fondo rimane sempre profondamente drammatica. Quando l’artista espressionista vuol guardare dentro di sé, o dentro gli altri, trova sempre toni foschi e cupi. Al suo interno trova l’angoscia, dentro gli altri trova la bruttura mascherata dall’ipocrisia borghese. E per rappresentare tutto ciò, l’artista espressionista non esita a ricorre ad immagini «brutte» e sgradevoli. Anzi, con l’espressionismo il «brutto» diviene una vera e propria categoria estetica, cosa mai prima avvenuta con tanta enfasi nella storia dell’arte occidentale. Da un punto di vista stilistico la pittura espressionista muove soprattutto da Van Gogh e da Gauguin.
Edvard Munch
Edvard Munch (1863-1944) è senz’altro il pittore che più di ogni altro anticipa l’espressionismo, soprattutto in ambito tedesco e nord-europeo. Egli nacque in Norvegia e svolse la sua attività soprattutto ad Oslo. In una città che, in realtà, era estranea ai grandi circuiti artistici che, in quegli anni, gravitavano soprattutto su Parigi e sulle altre capitali del centro Europa. Nella pittura di Munch troviamo anticipati tutti i grandi temi del successivo espressionismo: dall’angoscia esistenziale alla crisi dei valori etici e religiosi, dalla solitudine umana all’incombere della morte, dalla incertezza del futuro alla disumanizzazione di una società borghese e militarista. Del resto tutta la vita di Munch è stata segnata dal dolore e dalle sofferenze sia per le malattie che per problemi familiari (La sua infanzia è segnata da due gravi lutti, quello della morte della madre, quando egli ha solo cinque anni e più tardi quello della sorella maggiore, quindicenne). Iniziò a studiare pittura a diciassette anni, nel 1880. Dopo un soggiorno a Parigi, dove ebbe modo di conoscere la pittura impressionista, nel 1892 espose a Berlino una cinquantina di suoi dipinti. Ma la mostra fu duramente stroncata dalla critica. Egli, tuttavia, divenne molto seguito ed apprezzato dai giovani pittori delle avanguardie. Espose nelle loro mostre, compresa la celebre Secessione di Vienna del 1899. Il sorgere dell’espressionismo rese sempre più comprensibile la sua opera. E al pari degli altri pittori espressionisti fu anche egli perseguitato dal regime nazista che dichiarò la sua opera «arte degenerata». 82 sue opere presenti nei musei tedeschi vennero vendute. Morì in piena guerra, nel 1944, presso Oslo, lasciando tutte le sue opere al municipio della città. Nell’opera di Munch sono rintracciabili molti elementi della cultura nordica di quegli anni, soprattutto letteraria e filosofica: dai drammi di Ibsen e Strindberg, alla filosofia esistenzialista di Kierkegaard e alla psicanali di Sigmund Freud. Da tutto ciò egli ricava una visione della vita permeata dall’attesa angosciosa della morte. Nei suoi quadri vi è sempre un elemento di inquietudine che rimanda all’incubo. Ma gli incubi di Munch sono di una persona comune, non di uno spirito esaltato come quello di Van Gogh. E così, nei quadri di Munch il tormento affonda le sue radici in una dimensione psichica molto più profonda e per certi versi più angosciante. Una dimensione di pura disperazione che non ha il conforto di nessuna azione salvifica, neppure il suicidio.
l'Urlo
Questo è senz’altro il quadro più celebre di Munch ed, in assoluto, uno dei più famosi dell’espressionismo nordico. In esso è condensato tutto il rapporto angoscioso che l’artista avverte nei confronti della vita. Lo spunto del quadro lo troviamo descritto nel suo diario: Camminavo lungo la strada con due amici quando il sole tramontò il cielo si tinse all’improvviso di rosso sangue mi fermai, mi appoggiai stanco morto a un recinto sul fiordo nerazzurro e sulla città c’erano sangue e lingue di fuoco i miei amici continuavano a camminare e io tremavo ancora di paura e sentivo che un grande urlo infinito pervadeva la natura. Lo spunto è quindi decisamente autobiografico. L’uomo in primo piano che urla è l’artista stesso. Tuttavia, al di là della sua relativa occasionalità, il quadro ha una indubbia capacità di trasmettere sensazioni universali. E ciò soprattutto per il suo crudo stile pittorico. Il quadro presenta, in primo piano, l’uomo che urla. Lo taglia in diagonale il parapetto del ponte visto in fuga verso sinistra. Sulla destra vi è invece un innaturale paesaggio, desolato e poco accogliente. In alto il cielo è striato di un rosso molto drammatico. L’uomo è rappresentato in maniera molto visionaria. Ha un aspetto sinuoso e molle. Più che ad un corpo, fa pensare ad uno spirito. La testa è completamente calva come un teschio ricoperto da una pelle mummificata. Gli occhi hanno uno sguardo allucinato e terrorizzato. Il naso è quasi assente, mentre la bocca si apre in uno spasmo innaturale. L’ovale della bocca è il vero centro compositivo del quadro. Da esso le onde sonore del grido mettono in movimento tutto il quadro: agitano sia il corpo dell’uomo sia le onde che definiscono il paesaggio e il cielo. Restano diritti solo il ponte e le sagome dei due uomini sullo sfondo. Sono sordi ed impassibili all’urlo che proviene dall’anima dell’uomo. Sono gli amici del pittore, incuranti della sua angoscia, a testimonianza della falsità dei rapporti umani. L’urlo di questo quadro è una intesa esplosione di energia psichica. È tutta l’angoscia che si racchiude in uno spirito tormentato che vuole esplodere in un grido liberatorio. Ma nel quadro non c’è alcun elemento che induca a credere alla liberazione consolatoria. L’urlo rimane solo un grido sordo che non può essere avvertito dagli altri ma rappresenta tutto il dolore che vorrebbe uscire da noi, senza mai riuscirci. E così l’urlo diviene solo un modo per guardare dentro di sé, ritrovandovi angoscia e disperazione.
Edvard Munch, L'urlo, 1885 olio, tempera, pastello su cartone, 91×73,5 cm Galleria nazionale, Oslo
quattro versioni
i furti
protetto da una teca antifurto, la versione de L'urlo esposta al Museo Munch è stata soggetto di due furti. Il primo è avvenuto il 12 febbraio 1994, nello stesso giorno dell'inaugurazione dei XVII Giochi olimpici invernali: due uomini, infatti, in quel giorno si introdussero nel polo museale, rubando l'opera in soli cinquanta secondi e lasciando in luogo del dipinto un biglietto con scritto «grazie per le misure di sicurezza così scarse». L'opera venne ritrovata integra tre mesi dopo in un albergo di Åsgårdstrand. Durante il secondo furto, avvenuto il 22 agosto 2004, oltre alla versione de L'urlo del 1910 venne sottratta un'altra opera munchiana, La madonna. Ambedue le tele vennero recuperate due anni dopo, il 31 agosto 2006, per poi tornare in esposizione al museo nel 2008, solo dopo un restauro di durata biennale per restituire l'aspetto originale delle due opere, lievemente compromesso a causa dell'umidità.
Museo Munch
OSLO
L’istituzione possiede circa 26.700 opere tra dipinti, stampe, fotografie e disegni realizzate dall’artista tra il 1873 e il 1944. Tra queste molti dei suoi più grandi successi, come Madonna e le varie versioni dell’Urlo.
Madonna, 1894-1895 olio su tela, 91×70,5 cm
Oskar Kokoschka
Oskar Kokoschka nacque a Pöchlarn, cittadina della Bassa Austria, il 1º marzo 1886 in una casa di periferia. Di origini ceche. Frequentò i circoli culturali radicali e d'avanguardia, nutrendo particolare ammirazione per Edvard Munch, per i Fauves e per i pittori del gruppo Die Brücke, uno dei primi nuclei dell'espressionismo tedesco. Nel 1914 divenne un membro della Secessione di Berlino, poi entrò a far parte del Blaue Reiter, un gruppo di artisti che facevano uso di colori puri stesi a larghe macchie. Nei suoi lavori di questo periodo sono presenti un violento cromatismo e un'attenta analisi psicologica che intende indagare l'intimo del personaggio, influenzato in questo delle nuove teorie psicoanalitiche di Sigmund Freud. Durante la prima guerra mondiale fu ferito sul fronte orientale; dopo un ricovero all'ospedale militare, fu congedato per instabilità mentale. Dal 1917 al 1924 insegnò all'Accademia di Dresda, dove ebbe modo di studiare da vicino Rembrandt e la pittura antica. In questi anni espose alla Galleria Dada di Zurigo con Max Ernst, Paul Klee e Vasily Kandinsky, e partecipò alla Biennale di Venezia. Morì a Montreux il 22 febbraio 1980.
La sposa del vento (la tempesta)
Ne La sposa del vento, noto anche come La tempesta, l'artista esprime nel modo più intenso e compiuto l'esigenza di proiettare fuori di sé le proprie tensioni vitali, i propri dubbi, le proprie angosciose contraddizioni. La grande tela, risalente al 1914, rappresenta infatti la fine del travolgente e tormentato rapporto d'amore che, per oltre due anni, aveva legato l'artista ad Alma Mahler. I due amanti sono rappresentati in una sorta di scomposto letto di nubi, circondati dalla tempesta di passioni, vissute con l'intensità devastante d'un amore totale. Ma al convulso agitarsi della scena si oppone il sonno sereno della donna che, ancora ignara della prossima fine, dorme tranquilla e fidente, rannicchiandosi con sensuale tenerezza contro il corpo nudo dell'amato. Kokoschka si rappresenta desto, con gli occhi che guardano lontano e le nodose mani intrecciate. I colori torbidi e impastati e il mulinare di uno sfondo misterioso partecipano con materiale evidenza al disordine interiore e all'angoscia che dilaniano l'autore. Nell'opera, conservata al Kuntsmuseum, Basilea, Kokoschka volle mettere in risalto la sua consapevolezza riguardante il fatto che il loro amore sarebbe potuto finire da un momento all'altro. Non a caso, ciò si verificò poco tempo dopo che il quadro venne finito, ed il pittore lo vendette per comprarsi l'uniforme da cavalleria per andare in guerra
Alma Mahler
La sposa del vento,1914181 cm × 220 cm Kuntsmuseum, Basilea
Il nomadismo di Kokoschka
Le vedute di città in Kokoschka sono espressione di momenti importanti della sua esistenza, rivolti alla rappresentazione di realtà altre, scelte come meta di viaggio o di obbligatori trasferimenti legati a circostanze politiche negative. Dieci anni di nomadismo senza sosta, dopo le prime vedute dipinte a Dresda, è il canto delle città del mondo a catturare Kokoschka, l'unico artista capace di rinnovare in età moderna l'esperienza di Canaletto, Guardi. Gerusalemme, Amsterdam, Madrid, Londra, Amburgo, Lione, Istanbul, Praga: poco importa di quale città si tratti, ciò che conta è il mutevole insieme di campanili e tetti, ponti e fiumi, montagne e cielo, ciò che conta è il suo organismo attraversato da correnti di energia, è il suo canto che dappertutto si somiglia anche perché in chi lo ascolta si mescola col ricordo di altri luoghi, e perfino con la memoria infantile di un paesaggio troppo grande visto dall'alto del balcone di casa.
Oskar Kokoschka, Firenze vista dalla torretta di Mannelli, 1924
Oskar Kokoschka, Il Duomo di Firenze, 1948 Minneapolis, Minnesota, USA
Egon Schiele
(1890, Tulln an der Donau, Austria - 1918, Vienna)
Pupillo di Gustav Klimt, Schiele è stato uno dei maggiori artisti figurativi del primo Novecento, nonché esponente assoluto del primo espressionismo viennese assieme ad Oskar Kokoschka. La vita di Egon Schiele è circondata da un'aura mistica: talento precoce, muore alla giovane età di 28 anni. Nonostante la breve vita, il suo corpus di opere è impressionante: circa trecentoquaranta dipinti e duemilaottocento tra acquerelli e disegni. Il suo lavoro è noto per l'intensità espressiva, l'introspezione psicologica e la comunicazione del disagio interiore attraverso i suoi numerosi ritratti. I suoi soggetti sono spesso uomini e donne che posano nudi, simbolo del suo complesso rapporto con il sesso femminile; corpi contorti, figure spesso non completate nella loro interezza; ritratti e molti autoritratti. Proprio quando nel 1914 la sua fama artistica si va affermando, scoppia la prima guerra mondiale: sarà la fine di un'epoca, con il crollo definitivo dell'impero asburgico; Schiele raffigurerà questo imminente crollo nel Mulino, dove una fragile struttura di legno è distrutta dalla crescente forza dell'acqua che distrugge e spazza. Nel 1915 è chiamato alle armi e, grazie a superiori comprensivi e amanti dell'arte, può continuare a dipingere. Alla morte di Klimt è considerato il più importante pittore austriaco, ma la sua carriera, finalmente toccata dal successo, viene stroncata dalla terribile epidemia di influenza spagnola. Nell'autunno del 1918 (un mese prima della fine della guerra) l'influenza spagnola, che provocò più di venti milioni di morti in Europa, raggiunge Vienna. Edith,sua moglie, incinta di sei mesi, muore il 28 ottobre. Durante l'agonia della moglie Schiele la ritrae più volte. Purtroppo Egon non scampò al contagio e tre giorni dopo, il 31 ottobre, a soli 28 anni, morì.
Edith
Tomba di Egon and Edith Schiele in St. Veit Cemetery in Vienna
Egon Schiele, Edith, 1917
un uomo e una donna, terminato l’atto sessuale, si stringono in silenzio l’uno all’altra; fuori del letto ove giacciono, infuria il culmine della Grande Guerra: il deterioramento dell’impero asburgico è quasi completo, la resa bussa alle porte di Vienna, il greve manto della morte avvolge e soffoca sempre più migliaia di persone nel continente europeo. La compagna è l’ultima croce cui l’uomo saldamente si aggrappa, preda sfinita dell’orrore che tuona nelle strade circostanti. Egli afferra le spalle dell’amata come un bambino le ginocchia della madre: in disperata ricerca di sostegno, rifugio e conforto dall’impotenza verso il Male presente dentro e fuori di sé, più che mai insopportabile è l’imminente distacco da quel corpo che, anche sono per un’ora, è stato approdo di ogni tormento, un’ultima opportunità di contatto spirituale ancor prima che fisico. Sarà solo l’antitetica coscienza e rassegnazione di lei ad accogliere l’incolmabile solitudine di ogni essere umano: così vediamo ella non ricusare la morsa dell’abbraccio, tanto stretta che appena riesce con le dita a carezzare teneramente l’orecchio e la nuca del compagno; quest’ultimo, trattenuto il respiro, affonda il capo nell’oceano nero dei suoi lunghi capelli, scosso dal vento di un’irrimediabile caducità che pare risucchiare entrambi dal basso della tela, voragine di pennellate nervose e vischiose. Il loro cingersi non effonde né amore né erotismo: in esso si intrecciano a un tempo l’esasperato tentativo di attaccamento alla vita e la smania di commiato da essa, quantunque non nel corso della vita stessa ma già immersi nella morte: la presenza costante di quest’ultima, fin dalla nascita, in ogni gesto dell’uomo.
Gli amanti
Egon Schiele, Gli amanti (L’abbraccio), 1917 olio su tela, 100×170 cm, Österreichische Galerie, Vienna.
Esame di stato
Filosofia: nascita della tragedia in Nietzsche; concetto di volontà in Schopenhauer
Inglese:Frankenstein di Mary Shelley
fisica: Einstein e la crisi della fisica classica Matematica: discontinuità nelle funzioni
Storia:llo scoppio della prima guerra mondiale
CONFRONTO TRA GLI AMANTI DI SCHIELE E LA SPOSA NEL VENTO DI KOKOSCKA
Letteratura latina: Satyricon di Petronio in particolare la cena di Trimalcione; Tacito e la guerra nell’Agricola
Scienze naturali:i cofattori e gli inibitori enzimatici Ed. civica: le armi chimiche e la figura di Fritz Haber
Letteratura italiana: la poetica di Ungaretti
LA PRIMA GUERRA MONDIALE
Il Cubismo
Il percorso dell’arte contemporanea è costituito di tappe che hanno segnato il progressivo annullamento dei canoni fondamentali della pittura tradizionale. Nella storia artistica occidentale l’immagine pittorica per eccellenza è stata sempre considerata di tipo naturalistico. Ossia, le immagini della pittura devono riprodurre fedelmente la realtà, rispettando gli stessi meccanismi della visione ottica umana. Questo obiettivo era stato raggiunto con il Rinascimento italiano che aveva fornito gli strumenti razionali e tecnici del controllo dell’immagine naturalistica: il chiaroscuro per i volumi, la prospettiva per lo spazio. Il tutto era finalizzato a rispettare il principio della verosimiglianza, attraverso la fedeltà plastica e coloristica. Questi principi, dal Rinascimento in poi, sono divenuti legge fondamentale del fare pittorico, istituendo quella prassi che, con termine corrente, viene definita «accademica». Dall’impressionismo in poi, la storia dell’arte ha progressivamente rinnegato questi principi, portando la ricerca pittorica ad esplorare territori che, fino a quel momento, sembravano posti al di fuori delle regole. Già Manet aveva totalmente abolito il chiaroscuro, risolvendo l’immagine, sia plastica che spaziale, in soli termini coloristici. Le ricerche condotte dal post-impressionismo avevano smontato un altro pilastro della pittura accademica: la fedeltà coloristica. Il colore, in questi movimenti, ha una sua autonomia di espressione che va al di là della imitazione della natura. Ciò consentiva, ad esempio, di rappresentare dei cavalli di colore blu se ciò era più vicino alla sensibilità del pittore e ai suoi obiettivi di comunicazione, anche se nella realtà i cavalli non hanno quella colorazione. Questo principio divenne, poi, uno dei fondamenti dell’espressionismo. Era rimasto da smontare l’ultimo pilastro su cui era costruita la pittura accademica: la prospettiva. Ed è quando fece Picasso nel suo periodo di attività che viene definito «cubista». Già nel periodo post-impressionista gli artisti cominciarono a svincolarsi dalle ferree leggi della costruzione prospettica. La pittura di Gauguin ha una risoluzione bidimensionale che già la rende antiprospettica. Ma colui che volutamente deforma la prospettiva è Paul Cezanne. Le diverse parti che compongono i suoi quadri sono quasi tutte messe in prospettiva, ma da angoli visivi diversi. Gli spostamenti del punto di vista sono a volte minimi, e neppure percepibili ad un primo sguardo, ma di fatto demoliscono il principio fondamentale della prospettiva: l’unicità del punto di vista. Picasso, meditando la lezione di Cezanne, portò lo spostamento e la molteplicità dei punti di vista alle estreme conseguenze. Nei suoi quadri le immagini si compongono di frammenti di realtà, visti tutti da angolazioni diverse e miscelati in una sintesi del tutto originale. Nella prospettiva tradizionale la scelta di un unico punto di vista, imponeva al pittore di guardare solo ad alcune facce della realtà. Nei quadri di Picasso l’oggetto viene rappresentato da una molteplicità di punti di vista così da ottenere una rappresentazione «totale» dell’oggetto. Tuttavia, questa sua particolare tecnica lo portava ad ottenere immagini dalla apparente incomprensibilità, in quanto risultavano del tutto diverse da come la nostra esperienza è abituata a vedere le cose.
gli inizi
Nel febbraio del 1907, al Salon d'Automne, fu dedicata a Cèzanne (morto nel 1906) una imponente retrospettiva commemorativa, che sconvolse un'intera generazione di nuovi artisti (tra cui Picasso e Modigliani), pose le basi del cubismo ed aprì le strade alle avanguardie artistiche del Novecento. Il Cubismo è un'espressione con la quale si è soliti rappresentare una corrente artistica ben riconoscibile, distinta e fondante rispetto a molte altre correnti e movimenti che si sarebbero successivamente sviluppate. Tuttavia il cubismo non è un movimento capeggiato da un fondatore e non ha una direzione unitaria. Il termine "cubismo" è occasionale: nel 1908 Matisse osservando alcune opere di Braque, composte da "piccoli cubi" le giudicò negativamente, e Louis Vauxcelles l'anno dopo le chiamò "bizzarrie cubiste". Da allora le opere di Picasso, Braque e altri pittori vennero denominate cubiste. Si può tuttavia individuare in Paul Cézanne, un pittore che nelle sue solitarie sperimentazioni è stato in grado di prefigurare quelli che saranno lo stile, la visione e le tematiche cubiste. La realtà viene sintetizzata, creata nell'immagine. Gli oggetti sulla tela non sono più copia del reale, esistono nel momento in cui vengono concretizzati nell'immagine pittorica, di essi c'è solo il concetto formale.
Pablo Ruiz Picasso
Georges Braque
Cubismo analitico e sintetico
La storia del cubismo è divisa in DUE fasi fondamentali, il Cubismo analitico e Cubismo sintetico. CUBISMO ANALITICO Partendo dalla meditazione sull'operato di Paul Cézanne, puntano ad una riorganizzazione dello spazio pittorico, potenziando la sintesi plastica delle forme, sviluppando una lettura della realtà in chiave volumetrica e moltiplicando i punti di vista secondo cui il soggetto rappresentato viene osservato. Oltre a Cézanne, fonte d'ispirazione è il divisionista Seurat, con le sue teorizzazioni su contrasti di tono, tinta e linea. Per raggiungere questo obiettivo il cubista spezza la superficie pittorica in tasselli, piccole superfici che registrano ognuna un punto di vista diverso, così che lo spettatore guardando il quadro possa compiere una sorta di itinerario virtuale a trecentosessanta gradi nello spazio e nel tempo. Il cubismo reagisce direttamente all'Impressionismo accentuando il valore del volume su quello del colore, che viene eliminato quasi totalmente e gli elementi chiaroscurali sono dati da luce ed ombra. Il colore infatti è visto come componente solo decorativa, come elemento di disturbo per l'artista quanto per lo spettatore, capace di distogliere entrambi dalla necessità di analizzare ed indagare la realtà. CUBISMO SINTETICO Picasso e Braque si rendono conto che spezzando troppo la superficie pittorica, i suoi singoli frammenti non sono più ricomponibili virtualmente e l'opera si avvicina sempre più ai caratteri dell'astrattismo. Per far sì che la loro pittura non sconfinasse mai all'astrazione, cioè in qualcosa di puramente mentale, senza più alcun rapporto concreto con la realtà, i due artisti incominciano a introdurre nelle loro opere anche le lettere dell'alfabeto e numeri. In questo modo ogni fuga verso l'astrazione viene volontariamente bloccata dalla immediata riconoscibilità di questi elementi, subito riconducibili alla concretezza del quotidiano. Con la collaborazione di Juan Gris elaborano una serie di tecniche per uscire da questo paradosso in cui sono incappati portando alle estreme conseguenze la loro tecnica di rappresentazione del reale. Introducono nel quadro frammenti di realtà, di oggetti reali combinati alle parti dipinte (tecnica del collage), utilizzano mascherine con numeri o lettere (tecnica mista, tipo stencil); inseriscono trompe l'œil e riproducono l'effetto delle venature del legno con la tecnica del pettine passato sul colore fresco. Inoltre si assiste al ritorno del colore e soprattutto il processo dell'opera non ha inizio attraverso l'osservazione del reale, ma si creano sulla tela forme geometriche semplici varia
Picasso Ritratto di Vollard, 1910 Museo Pushkin di Mosca
Picasso, la chitarra, 1913, NY, Moma
Pablo Picasso
Pablo Diego José Francisco de Paula Juan Nepomuceno María de los Remedios Cipriano de la Santísima Trinidad Mártir Patricio Clito Ruiz y Picasso; (Málaga, 25 ottobre, 1881 – Mougins, Costa azzura, 8 aprile, 1973) è stato un pittore spagnolo di fama mondiale, considerato uno dei maestri della pittura del XX° secolo. Il padre, Josè Ruiz Blasco, è professore alla Scuola delle Arti e dei Mestieri e conservatore del museo della città. Durante il tempo libero è anche pittore. Si racconta che la prima parola pronunciata dal piccolo Pablo non sia stata la tradizionale "mamma", ma "Piz!", da "lapiz", che significa matita. E prima ancora di incominciare a parlare Pablo disegna. Gli riesce talmente bene che, qualche anno dopo, il padre lo lascia collaborare ad alcuni suoi quadri, affidandogli - strano il caso - proprio la cura e la definizione dei particolari. Il risultato sorprende tutti: il giovane Picasso rivela subito una precoce inclinazione per il disegno e la pittura. Il padre favorisce le sue attitudini, sperando di trovare in lui la realizzazione delle sue ambizioni deluse. Nel 1891 la famiglia si trasferisce a La Coruna, dove Don José ha accettato un posto da insegnante di disegno nel locale Istituto d'Arte; qui Pablo a partire dal 1892 frequenta i corsi di disegno della Scuola di Belle Arti. Nel Giugno 1895 Josè Ruiz Blasco ottiene un posto a Barcellona. Nuovo trasferimento della famiglia: Pablo prosegue i suoi studi artistici presso l'Accademia della capitale catalana. La sua natura esplosiva e rivoluzionaria comincia pian piano a manifestarsi. Proprio in questo periodo, fra l'altro, adotta anche il nome di sua madre come nome d'arte. Egli stesso spiegherà questa decisione, dichiarando che "i miei amici di Barcellona mi chiamavano Picasso perché questo nome era più strano, più sonoro di Ruiz. E' probabilmente per questa ragione che l'ho adottato". In questa scelta, molti vedono in realtà un conflitto sempre più grave tra padre e figlio, una decisione che sottolinea il vincolo d'affetto nei confronti della madre, dalla quale secondo numerose testimonianze, sembra che abbia preso molto. Tuttavia, malgrado i contrasti, anche il padre continua a rimanere un modello per lo scapigliato artista, in procinto di effettuare una rottura radicale con il clima estetico del suo tempo
Pablo Picasso e il furto della Gioconda
Tra il 21 e il 22 agosto 1911
Pablo Picasso arriva a Parigi per la prima volta nel 1900, durante l'Esposizione Universale, e da lì inizia a fare frequenti viaggi, stabilendosi definitivamente nella capitale francese nel 1904
Il poeta Guillaume Apollinaire in una foto del 1913
La polizia risale ad Apollinaire e lo arresta: il poeta confessa di essere stato coinvolto nei furti di Pieret e fa il nome di un amico, Pablo Picasso. In particolare fa riferimento ad alcune statuette di arte iberica sottratte da Pieret al Louvre quattro anni prima e finite tra le mani del pittore spagnolo. Picasso viene arrestato e portato a processo. Rivede Apollinaire per la prima volta in tribunale. Picasso è in crisi: piange, si dispera, arriva a negare di conoscere Apollinaire. La scena è surreale ma non ci sono elementi sufficienti per condannare Picasso e Apollinaire. È ugualmente chiaro che i due non abbiano niente a che fare con la scomparsa della Gioconda. Il responsabile del furto si scoprirà solo due anni più tardi. Il poeta e il pittore vengono scagionati e si dice che questo episodio abbia ispirato una famosa battuta di Picasso: “Amici, vado al Louvre. Vi serve qualcosa?”
La polizia risale ad Apollinaire e lo arresta: il poeta confessa di essere stato coinvolto nei furti di Pieret e fa il nome di un amico, Pablo Picasso. In particolare fa riferimento ad alcune statuette di arte iberica sottratte da Pieret al Louvre quattro anni prima e finite tra le mani del pittore spagnolo. Picasso viene arrestato e portato a processo. Rivede Apollinaire per la prima volta in tribunale. Picasso è in crisi: piange, si dispera, arriva a negare di conoscere Apollinaire. La scena è surreale ma non ci sono elementi sufficienti per condannare Picasso e Apollinaire. È ugualmente chiaro che i due non abbiano niente a che fare con la scomparsa della Gioconda. Il responsabile del furto si scoprirà solo due anni più tardi. Il poeta e il pittore vengono scagionati e si dice che questo episodio abbia ispirato una famosa battuta di Picasso: “Amici, vado al Louvre. Vi serve qualcosa?”
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il periodo blu
Dal 1901 ebbe inizio il cosiddetto “Periodo Blu”, che si protrasse fino al 1904. Il nome di questo periodo deriva dal fatto che Picasso usava dipingere in maniera monocromatica, utilizzando prevalentemente il Blu in tutte le tonalità e sfumature possibili. Questo colore fu scelto da Picasso non solo per la sua forza espressiva, ma, anche e soprattutto, per la valenza psicologica che gli permetteva di andare oltre alla naturalistica descrizione. Per Picasso il colore Blu è come una dimensione sacra e sentimentale: l'artista guarda in faccia alla realtà, alla miseria e alla sofferenza, oltre che alla morte. Il tutto è caratterizzato da un' evidente matrice patetica e compassionevole. I soggetti erano soprattutto poveri ed emarginati. A questi personaggi senza speranza Picasso rivolge, in questi anni, un’attenzione particolare; mendicanti, ciechi e girovaghi sono per lui continua fonte di studio, cui attinge in ogni angolo delle strade di Barcellona. Picasso li ritraeva preferibilmente a figura intera, in posizioni isolate e con aria mesta e triste. Poveri in riva al mare, appartiene al periodo «blu», come facilmente si può vedere dalla tonalità dominante nel quadro. Una famiglia povera, padre madre e figlio, sono su una spiaggia solitaria, a piedi nudi e con il capo chino. È un’immagine di grande mestizia, ed è questo il sentimento che prevale in tutta la produzione del periodo «blu». Da notare, ovviamente, la grande padronanza dei mezzi tecnici di Picasso e la sua grande capacità di essere, già a 22 anni, padrone del linguaggio pittorico.
Pablo Picasso, Poveri in riva al mare, 1903 Washington, National Gallery of Art
altre opere del periodo blu
il periodo rosa
Dal 1905 alla fine del 1906, Picasso schiarì la sua tavolozza, utilizzando le gradazioni del rosa, che risultano più calde rispetto al blu. Iniziò quello che, infatti, viene definito il “Periodo Rosa”. Il populismo amaro del Periodo Blu ha lasciato il posto a un mondo più idillico e sereno, ispirato prevalentemente alla vita del circo. Agili figure di acrobati, patetiche immagini di bambini, figure corpulente di clowns e di fragili ballerine, si dispongono nel quadro con una grazia di balletto, ubbidendo a ritmi armoniosi che la lieve, elegante grafia asseconda e accentua; e il colore si vale delle sfumature più tenere. Per "la famiglia di saltimbanchi" Picasso trovò ispirazione attraverso l’osservazione del Cirque Médrano a Montmartre a Parigi; attraverso lo studio di queste figure, ha dato vita a questa importante composizione. I protagonisti sono una serie di acrobati e saltimbanchi facenti parte di un circo itinerante in un luogo desertico. Tutti i personaggi sono differenti, e nonostante siano stati riprodotti come un gruppo, tutti sembrano sconnessi tra loro e sembrano essere completamente isolati, come si può notare dai loro sguardi e gesti, che li portano ad isolarsi reciprocamente. Secondo alcuni studi, questa rappresentazione di saltimbanchi isolati e poveri potrebbe essere un’allusione alla mesta e povera situazione dello stesso Picasso e alla sua cerchia. L’ambiente che circonda questo gruppo di saltimbanchi è completamente desertico e privo di caratteristiche. I colori utilizzati nella composizione sono vari: troviamo il blu, il rosso, il marrone ma soprattutto il rosa, declinato in varie tonalità e che domina gran parte dell’ambiente e parte dell’abbigliamento dei protagonisti del quadro.
la famiglia di saltimbanchi, 1905 olio su tela, 213 x 230 cm National Gallery of Art, Washington, D.C.
altre opere del periodo rosa
Les demoiselles d'Avignon
L’opera che inaugura la stagione cubista di Picasso è il quadro «Les demoiselles d’Avignon». Le numerose rielaborazioni e ridipinture ne fanno quasi un gigantesco «foglio da schizzo» sul quale Picasso ha lavorato per provare le nuove idee che stava elaborando. Il quadro non rappresenta un risultato definitivo: semplicemente ad un certo punto Picasso ha smesso di lavorarci. Lo abbandona nel suo studio, e quasi per caso suscita la curiosità e l’interesse dei suoi amici (Braque ed Apollinaire). Segno che forse neppure l’artista era sicuro del risultato a cui quell’opera era giunta. Il soggetto del quadro è la visione di una casa d’appuntamento in cui figurano cinque donne. In origine doveva contenere anche due uomini (un marinaio e uno studente di medicina), poi scomparsi nelle successive modifiche apportate al quadro da Picasso. L’analogia più evidente è con i quadri di Cézanne del ciclo «Le grandi bagnanti». Il risultato a cui giunge è in realtà disomogeneo. Le due figure centrali hanno un aspetto molto diverso dalle figure ai lati. In queste ultime, specie le due di destra, la modellazione dei volti ricorda le sculture africane che in quel periodo conoscevano un momento di grande popolarità tra gli artisti europei. Ciò che costituisce la grande novità dell’opera è l’annullamento di differenza tra pieni e vuoti. L’immagine si compone di una serie di piani solidi che si intersecano secondo angolazioni diverse. Ogni angolazione è il frutto di una visione parziale per cui lo spazio si satura di materia annullando la separazione tra un corpo ed un altro. Le singole figure, costruite secondo il criterio della visione simultanea da più lati, si presentano con un aspetto decisamente inconsueto che sembra ignorare qualsiasi legge anatomica. Vediamo così apparire su un volto frontale un naso di profilo, oppure, come nella figura in basso a destra, la testa appare ruotata sulle spalle di un angolo innaturale. Tutto ciò è comunque la premessa di quella grande svolta, che Picasso compie con il cubismo, per cui la rappresentazione tiene conto non solo di ciò che si vede in un solo istante, ma di tutta la percezione e conoscenza che l’artista ha del soggetto che rappresenta.
Les demoiselles d'Avignon, 1907 olio su tela, 243,9x233,7 cm Moma, NY
collegamenti
Ritratto di Ambroise Vollard
Ambroise Vollard è stato uno dei maggiori galleristi e mercanti d’arte parigini nel periodo tra fine Ottocento e inizi Novecento. La sua attività è stata molto importante per consentire la conoscenza e la diffusione di molti artisti del periodo postimpressionista e delle avanguardie storiche. In contatto quindi con grandi talenti, di lui ci rimangono numerosi ritratti, tra cui uno eseguito da Paul Cezanne. Tuttavia questo di Picasso, se confrontato con le foto di Vollard, appare straordinariamente somigliante, pur con una tecnica di realizzazione molto poco ortodossa per un ritratto. Siamo, ovviamente, nel periodo del cubismo analitico, e lo stile di Picasso si riconosce soprattutto per queste numerose sfaccettature. I suoi quadri appaiono un po’ come un’immagine riflessa in uno specchio rotto, i cui frammenti riflettono porzioni dell’immagine da diverse angolazioni, ma che riescono a comporsi lo stesso nel nostro occhio per farci capire qual è la cosa riflessa dallo specchio in frantumi. In questo ritratto Picasso vuole evidenziare la dimensione concettuale rispetto alla verosimiglianza fotografica. Perciò qui il cubismo si profila come una ricerca, attraverso un espediente grafico (il frazionamento), della Realtà delle cose. Più che un ritratto tradizionale, Picasso mirava attraverso questo lavoro, a mettere in risalto i punti focali del carattere del gallerista: dell’aspetto fisico abbiamo poche caratteristiche, ma gli elementi che si trovano in tutta la composizione, come la bottiglia in alto a sinistra, il libro in alto a destra, il fazzoletto nel taschino ed un giornale aperto al centro, aiutano a tracciare un ritratto caratteriale del protagonista. I colori utilizzati sono abbastanza privi di densità: troviamo il grigio e l’ocra, e proprio queste stesse tonalità, fuoriescono dai propri margini, rendendo la scena ancor più complessa.
Ritratto di Ambroise Vollard,1909-1910 olio su tela, 92×65 cm Museo Puškin, Mosca
Ritratti di Ambroise Vollard
I tre musici
Quest'opera tratta un soggetto musicale ed è considerata il capolavoro del Cubismo sintetico. L'immagine viene scomposta in zone geometriche, differenziate soprattutto dal diverso uso del colore, e successivamente viene ricomposta sinteticamente, componendo un'immagine inedita. La celebre opera raffigura tre personaggi mascherati: al centro c'è Arlecchino (Bergamo) con una chitarra, a sinistra Pulcinella (Napoli), che suona un clarinetto, e a destra evidentemente Pantalone (Venezia) che canta mostrando lo spartito. Ben noto è il legame di Picasso con l'Italia e con la cultura italiana, commedia dell'arte compresa. Il suo viaggio a Roma, Napoli e Pompei del 1917 fu occasione per assimilare la figura di Pulcinella. La visione per quanto riguarda i tre musici è frontale e bidimensionale, ma cambia per quanto riguarda la stanza in quanto si recupera il senso di tridimensionalità e profondità. La concezione dello spazio è tuttavia contraddittoria in quanto la parete di sinistra appare innaturalmente più lunga rispetto a quella di destra. I colori che vengono utilizzati in questo dipinto di Picasso, come in tanti altri lavori appartenenti al mondo del cubismo sintetico, sono molto brillanti e lucenti.
I tre musici, 1921 olio su tela, 200,7×222,9 cm Moma, NY
Guernica
Guernica, 1937, olio su tela, 3,49 m x 7,77 m - Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía, Madrid
- il vulcano come metafora della furia, la distruzione improvvisa e il dramma eruttivo della guerra.
- Il toro presenta diversi significati. Tradizionalmente, il toro è un simbolo della cultura spagnola, spesso associato alla forza, alla resistenza e alla tradizione. In "Guernica", il toro appare come uno dei soggetti principali e può essere interpretato come un simbolo di brutalità, oppressione e sofferenza, riflettendo il dramma della guerra e della violenza. Picasso utilizza il toro per evocare l’orrore e la tragedia del toro che è costretto a combattere nelle corride, anche se questa può considerarsi una battaglia alla pari, in quanto il toro a differenza degli abitanti di Giernica ha la possibilità di difendersi.
- La colomba ferita (paloma herida), la colomba rappresenta pace e speranza, ma in Guernica è una denuncia contro il bombardamento della cittadina basca durante la guerra civile spagnola, appare ferita e spezzata, quasi invisibile e intrappolata tra le altre figure nel caos. Questo suggerisce che in tempi di guerra persino la pace è fragile, vulnerabile e soffocata dalla violenza. Paloma è anche il nome della prima figlia di Picasso, gli altri sono Paulo, Claude e Maya.
- La figura della madre con il bambino morto rappresenta il dolore e la sofferenza causati dalla guerra. È un'immagine potente che simboleggia la perdita e il lutto di una madre che ha perso il suo bambino, evidenziando l'orrore e il trauma di un bombardamento. Questa scena toccante serve a trasmettere un messaggio di protesta contro la violenza e la distruzione, invitando gli spettatori a riflettere sulle conseguenze umane della guerra. Questa immagine si può collegare per iconografia alla Pietà vaticana, simbolo universale di dolore materno e di speranza per un mondo di pace.
- La lampada elettrica che illumina è una critica al progresso, che non aiuta l'uomo bensì lo distrugge, chiaro riferimento agli strumenti di distruzione di massa.
- Il candelabro che non illumina è una critica che pone un Picasso ateo nei condronti del cielo, se Dio esiste perchè non ha fermato questa tragedia umana, pertanto la candela non crea luce (simbolo divino)
- Il cavallo con la bomba a mano in bocca rappresenta la sofferenza e il dolore causati dalla guerra. La bomba a mano in bocca simboleggia la violenza e la distruzione, e il modo in cui la guerra infetta tutto, anche le creature innocenti.
- L'uomo a terra con la spada spezzata è simbolo di una resistenza che è stata annientata. Chi combatte cade impotente davanti alla distruzione cieca soprattutto se la lotta è impari. Il piccolo fiore accanto alla mano suggerisce una speranza fragile che nonostante tutto sopravvive: la vita e la pace possono ancora rinascere dalle macerie.
- Un ultimo uomo sulla destra cerca di fuggire dalle fiamme ma sembra esserne vittima, questa scena si può collegare ad'una opera molto celebre di un altro autore spagnolo la fucilazione del 3 maggio di Francisco Goya, dove il protagonista con la camicia bianca presenta la stessa gestualità disperata dell'uomo che emerge dalla finestra in Giernica.
La città di Guernica la cui popolazione era di 16.224 abitanti nel 2009.
Picasso restò sempre molto grato a Goya soprattutto per la serie di disegni il sonno della ragione genera mostri paragrafo pronto a contenere creatività, esperienze e storie geniali.
La guerra civile spagnola (1936-1939) fu un sanguinoso conflitto tra le forze nazionaliste, guidate da una giunta militare e successivamente dal generale Francisco Franco, e il governo legittimo della Repubblica Spagnola, sostenuto dal Fronte Popolare. Viene spesso definita il "preludio" o l'anticipazione della Seconda Guerra Mondiale per le dinamiche e gli schieramenti internazionali che vi presero parte.
Guernica, 1937, olio su tela, 3,49 m x 7,77 m - Museo Nacional Centro de Arte Reina Sofía, Madrid
Guernica è un dipinto di Pablo Picasso, realizzato in memoria del 26 aprile 1937 per il bombardamento aereo dell'omonima città basca durante la guerra civile spagnola. Guernica fece un giro in tutto il mondo, diventando molto acclamato ma soprattutto servì a far conoscere a tutto il mondo la storia della Guerra Civile Spagnola. Guernica è il nome di una cittadina spagnola che ha un triste primato. È stata la prima città in assoluto ad aver subìto un bombardamento aereo. Ciò avvenne la sera del 26 aprile del 1937 ad opera dell’aviazione militare tedesca. L’operazione fu decisa con freddo cinismo dai comandi militari nazisti semplicemente come esperimento. In quegli anni era in corso la guerra civile in Spagna, con la quale il generale Franco cercava di attuare un colpo di stato per sostituirsi al legittimo governo. In questa guerra aveva come alleati gli italiani e i tedeschi. Tuttavia la cittadina di Guernica non era teatro di azioni belliche, così che la furia distruttrice del primo bombardamento aereo della storia si abbatté sulla popolazione civile uccidendo soprattutto donne e bambini. Quando la notizia di un tale efferato crimine contro l’umanità si diffuse tra l’opinione pubblica, Picasso decide di realizzare questo pannello che denunciasse l’atrocità del bombardamento su Guernica. L’opera di notevoli dimensioni (metri 3,5 x 8 circa) fu realizzata in appena due mesi, ma fu preceduta da un’intensa fase di studio, testimoniata da ben 45 schizzi preparatori che Picasso ci ha lasciato.
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I bombardieri sganciarono le loro bombe sull’immediata periferia di Guernica colpendo alcuni edifici, sganciando un totale di 36 bombe da 50 kg. Stando al governo basco, le perdite furono circa un terzo della popolazione: 1654 morti e 889 feriti, mentre ricerche più recenti hanno parlato di circa 2-300 morti. I soccorritori che giungevano da Bilbao rimasero increduli quando avvicinandosi vedevano il cielo sopra Guernica assumere il colore rosso-arancione delle fiamme, mentre della città rimaneva uno scheletro bruciato con circa il 70% degli edifici distrutto o inagibile
"È lei che ha fatto questo orrore?", "No, è opera vostra". Si dice che siano queste le parole scambiate tra l’ambasciatore tedesco Otto Abetz e Picasso, durante una visita presso lo studio dell’artista. Di fronte ad una fotografia di Guernica, Otto Betz capisce (probabilmente con molto stupore) che l’artista spagnolo non aveva dato voce esclusivamente alla propria creatività, ma soprattutto alla sua opinione su un fatto politico.
Pablo Picasso fa esporre Guernica al Museum Of Modern Art di New York viene lasciata “in prestito” per oltre quarant’anni: è infatti precisa disposizione dell’autore che Guernica torni al popolo a cui appartiene solo quando in Spagna sarà finalmente ripristinata la tanto auspicata libertà. Francisco Franco muore nel 1975 e Guernica fa finalmente ritorno in terra iberica nel 1981, venendo posta prima al Casòn del Buen Retiro a Madrid, per poi trovare nel 1992 la sua collocazione attuale (Reina Sofia).
il Futurismo
Il Futurismo è stato un movimento artistico e culturale italiano dell'inizio del XX secolo. Ebbe influenza su movimenti artistici che si svilupparono in altri Paesi, in particolare in Russia, Francia, Stati Uniti e Asia. I futuristi esplorarono ogni forma di espressione, dalla pittura alla scultura, alla letteratura (poesia e teatro), la musica, l'architettura, la danza, la fotografia, il cinema e persino la gastronomia. La denominazione ufficiale del movimento si deve al poeta italiano Filippo Tommaso Marinetti. Il Futurismo nasce in un periodo, l'inizio del Novecento, di notevole fase evolutiva dove tutto il mondo dell'arte e della cultura era stimolato da numerosi fattori determinanti: le guerre, la trasformazione sociale dei popoli, i grandi cambiamenti politici e le nuove scoperte tecnologiche e di comunicazione, come il telegrafo senza fili, la radio, aeroplani e le prime cineprese; tutti fattori che arrivarono a cambiare completamente la percezione delle distanze e del tempo, "avvicinando" fra loro i continenti. Il XX secolo era quindi invaso da un nuovo vento, che portava all'interno dell'essere umano una nuova realtà: la velocità. I futuristi intendevano idealmente "bruciare i musei e le biblioteche" in modo da non avere più rapporti con il passato e concentrarsi così sul dinamico presente; tutto questo, come è ovvio, in senso ideologico. Le catene di montaggio abbattevano i tempi di produzione, le automobili aumentavano ogni giorno, le strade iniziarono a riempirsi di luce artificiale, si avvertiva questa nuova sensazione di futuro e velocità sia nel tempo impiegato per produrre o arrivare ad una destinazione, sia nei nuovi spazi che potevano essere percorsi, sia nelle nuove possibilità di comunicazione. Questo movimento nacque inizialmente in Italia e successivamente si diffuse in tutta Europa. Nel Manifesto Futurista (1909), pubblicato inizialmente in vari giornali italiani e poi sul quotidiano francese Le Figaro il 20 febbraio 1909, Filippo Tommaso Marinetti espose i principi-base del movimento. Poco tempo dopo a Milano nel febbraio 1910 i pittori Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Giacomo Balla, Gino Severini e Luigi Russolo firmarono il Manifesto dei pittori futuristi e nell'aprile dello stesso anno il Manifesto tecnico della pittura futurista. Nei manifesti si esaltava la tecnica e si dichiarava una fiducia illimitata nel progresso, si decretava la fine delle vecchie ideologie (bollate con l'etichetta di "passatismo"). Si esaltavano inoltre il dinamismo, la velocità, l'industria, il militarismo, il nazionalismo e la guerra, che veniva intesa come "igiene dei popoli". ll Manifesto futurista di Marinetti venne pubblicato a San Pietroburgo appena un mese dopo l'uscita su Le Figaro e porterà alla nascita del movimento in Russia. Nel 1913 venne redatto il manifesto del Primo congresso Futurista russo, il movimento, conosciuto anche come Raggismo.
Filippo Tommaso Marinetti
Il manifesto del Futurismo pubblicato su Le Figaro del 20 febbraio 1909 (qui evidenziato in giallo)
il terremoto del 1908 nel sud Italia
Il 28 dicembre 1908 uno dei più violenti terremoti della storia italiana sconvolge la Calabria e la Sicilia: raggiunse l’11°/12° grado della scala Marcalli e la terra tremò per 37 secondi provocando un maremoto con onde alte fino a dieci metri. Le vittime furono circa 140.000, Messina fu completamente distrutta, Reggio Calabria fu distrutta per metà, innumerevoli i danni alle città limitrofe. Marinetti aveva già pronto per le stampe il suo Manifeste du Futurisme, di cui rimandò il lancio. Il manifesto del futurismo fu il primo e il più sconvolgente terremoto nella storia delle arti, ma all’opposto di quello che aveva provocato morte e distruzione liberò una enorme carica di energie intellettuali, di speranze e di aspettative, l’energia che era propria dei giovani: i futuristi furono i primi contestatori, con loro fa la sua prima apparizione sulla ribalta della storia la contestazione giovanile.
i Manifesti
MANIFESTO: dichiarazione pubblica (in genere espressa in forma di opera letteraria o lettera aperta) che definisce ed espone i principi e gli obiettivi di un movimento o di una corrente politica, religiosa o artistica e di coloro che decidono di aderirvi.
Nei primi dieci anni del Futurismo, Marinetti è riuscito a raccogliere moltissimi manifesti di cui ha curato tre grandi antologie. La storia letteraria ne ha individuati ben trecentoventitre, fino alla fine della sua vita nel 1944, anno che fu considerato anche la data della fine del movimento.
Manifesto del Futurismo (Pubblicato da "Le Figaro" il 20 Febbario 1909)Manifesto dei Pittori futuristi (11Febbraio, 1910) Boccioni, Carrà, Russolo, Balla e Severini Manifesto della Scultura futurista (11 Aprile, 1912) Boccioni Manifesto tecnico della Letteratura futurista (11 Maggio, 1912) Marinetti Manifesto dell'Architettura futurista (1914) Sant'Elia Futurismo e Fascismo (1924) Marinetti
Futurismo e Fascismo
Il futurismo divenne in breve tempo il movimento artistico di maggior novità nel panorama culturale italiano. Si rivolgeva a tutte le arti, comprendendo sia poeti che pittori, scultori, musicisti, e così via, proponendo in sostanza un nuovo atteggiamento nei confronti del concetto stesso di arte. Ciò che il futurismo rifiutava era il concetto di un’arte élitaria e decadente, confinata nei musei e negli spazi della cultura aulica. Proponeva invece un balzo in avanti, per esplorare il mondo del futuro, fatto di parametri quali la modernità contro l’antico, la velocità contro la stasi, la violenza contro la quiete, e così via. Il fenomeno del futurismo ha quindi una spiegazione genetica molto chiara. La cultura dell’Ottocento era stata troppo condizionata dai modelli storici. Il passato, specie in Italia, era divenuto un vincolo dal quale sembrava impossibile affrancarsi. Contro tutto ciò insorse il futurismo, cercando un’arte che esprimesse vitalità e ottimismo per costruire un mondo nuovo basato su una nuova estetica. L’adesione al futurismo coinvolse molte delle giovani leve di artisti, tra cui numerosi pittori che crearono nel giro di pochi anni uno stile futurista ben chiaro e preciso. Tra essi, il maggior protagonista fu Umberto Boccioni al quale si affiancarono Giacomo Balla, Gino Severini, Luigi Russolo e Carlo Carrà. Nel dopoguerra il carattere di virile forza di questo movimento finì per farlo integrare nell’ideologia del fascismo, esaurendo così la sua spinta rinnovatrice e finire paradossalmente assorbito negli schemi di una cultura ufficiale e reazionaria. Questa sua adesione al fascismo ne ha molto limitato la critica riscoperta da parte della cultura italiana che ha sempre visto questo movimento come qualcosa di folkloristico e provinciale.
Pertanto Mussolini fece numerosi riferimenti, nella sua propaganda, alle idee futuristiche, anche se ovviamente in qualche modo rivedute secondo i propri interessi. Il fascismo si nutrì quindi di principi futuristi anche se Marinetti non fece mai parte del partito.
Giacomo Balla
GIACOMO BALLA (Torino, 18 luglio 1871 – Roma, 1 marzo 1958) è stato un pittore, scultore, scenografo. La sua attività creativa fu molto intensa nei primi anni dieci in termini di analisi sia del dinamismo sia della luce, giungendo nel 1915 ad una nuova fase di ricerca pittorica fortemente sintetica. Divenne poi un esponente di spicco del Futurismo, firmando assieme a Marinetti e gli altri futuristi, i manifesti che sancivano gli aspetti teorici del movimento. Già da adolescente Balla aveva dimostrato una predilezione per l'arte, avvicinandosi allo studio del violino, ma abbandonò la musica per la pittura e il disegno; nel frattempo il padre gli trasmise la passione per la fotografia, iniziandolo ad una tecnica fondamentale per la sua formazione. L'interesse per la forma pura e soprattutto per il colore sfociarono in ricerche di rigorosa astrazione. Partecipò intensamente alle manifestazioni futuriste, creando e interpretando azioni sceniche, disegnando vestiti, costumi, mobili, progettando complessi plastici. La sua posizione critica nei confronti del secondo futurismo, latente a metà degli anni Venti, si accentuò all'inizio degli anni Trenta, portandolo a un isolamento e a un ripiegamento su una ricerca di figurazione naturalistica.
Dinamismo di un cane al guinzaglio
In un ristretto spazio urbano, un cagnolino viene condotto al guinzaglio da una figura femminile di cui è visibile soltanto la parte inferiore della veste e i piedi. Si tratta della rappresentazione analitica delle fasi successive di spostamento di un corpo sullo stesso piano, attraverso la ripetizione delle parti in movimento, che, in questo caso, sono le zampe e la coda del cane, i piedi della donna e il guinzaglio che oscilla. Il dipinto dà inizio alle ricerche di Balla sul dinamismo derivate dalla sua adesione alle tematiche moderne del futurismo, che egli interpreta in maniera del tutto personale, pur seguendo alla lettera alcuni enunciati del manifesto tecnico della pittura futurista del 1910. Questo interesse per il codice ripetitivo dell’immagine procede naturalmente dalle affinità che già correvano, nell’opera dell’artista, tra pittura e visione fotografica della realtà, derivanti anche dalla passione per la fotografia coltivata dal padre di Balla. Il soggetto rappresentato e il taglio basso e orizzontale dell’immagine dallo sfondo piatto di varie tonalità di verde chiaro, conferiscono al dipinto un tono ironico e ludico. La visione reale e fotografica viene ricomposta attraverso la tecnica del monocromo e quella puntinistica delle linee di contorno delle due figure
Giacomo Balla, Dinamismo di un cane al guinzaglio, 1912 olio su tela, 91×110 cm Albright-Knox Art Gallery, Buffalo
Collegamento
L'uso del diaframma nella fotografia
La sezione dell'obiettivo che permette il passaggio della luce viene regolata dal diaframma, funzionando come una pupilla: quando è molto aperto consentirà l'ingresso di molta luce e viceversa. Il diaframma è un foro circondato da un gran numero di lamelle che si trova al centro dell'obiettivo.
esempi di foto con il diaframma aperto
Umberto Boccioni
Boccioni per dipingere quest'opera prende spunto dalla vista di Milano che si vedeva dal balcone della casa dove abitava. Nonostante la presenza degli elementi realistici come il cantiere o la costruzione, o ancora la resa dello spazio in maniera prospettica, il dipinto viene considerato la prima opera veramente futurista del pittore reggino, pur non discostandosi molto dai quadri analoghi degli anni precedenti, nei quali le periferie urbane erano il soggetto principale. In questo dipinto viene parzialmente abbandonata la visione naturalistica dei quadri precedenti, per lasciare il posto ad una visione più movimentata e dinamica. Si coglie la visione di palazzi in costruzione in una periferia urbana, mentre compaiono ciminiere e impalcature solo nella parte superiore. Gran parte dello spazio è invece occupato da uomini e da cavalli, fusi esasperatamente insieme in uno sforzo dinamico. In tal modo Boccioni mette in risalto alcuni tra gli elementi più tipici del futurismo, quali l'esaltazione del lavoro dell'uomo e l'importanza della città moderna plasmata sulle esigenze del nuovo concetto di uomo del futuro. Ciò che mette il quadro perfettamente in linea con lo spirito futurista è però l'esaltazione visiva della forza e del movimento, della quale sono protagonisti uomini e cavalli e non macchine. Questo è ritenuto un particolare che attesta come Boccioni si muova ancora nel simbolismo, rendendo visibile il mito attraverso l'immagine. Ed è proprio il "mito" ciò che l'artista modifica, dunque non più arcaico legato all'esplorazione del mondo psicologico dell'uomo, ma mito dell'uomo moderno, artefice di un nuovo mondo. In parole povere l'intento dell'artista è di dipingere il frutto del nostro tempo industriale. Il soggetto dunque, da raffigurazione di un normale momento di lavoro in un qualunque cantiere, si trasforma nella celebrazione dell'idea del progresso industriale con la sua inarrestabile avanzata. Sintesi di ciò ne è il cavallo inutilmente trattenuto dagli uomini attaccati alle sue briglie.
La città che sale
(il lavoro)
Umberto Boccioni, la città che sale, 1910-1911 olio su tela, 199,3×301 cm Museum of Modern Art, New York
Esame di stato
Filosofia: l’ Oltre-uomo di Nietzsche e la sua interpretazione distorta nel nazismo.
Inglese:Frankenstein di Mary Shelley
fisica: La corrente continua e quella alternata. L’alternatore.
Storia:la Rivoluzione industriale
la città che sale/FUTURISMO
IL PROGRESSO
Letteratura latina: l’invivibilità di Roma “metropoli” in Marziale e Giovenale Letteratura
Scienze naturali:clonazione Educazione civica: i problemi etici legati alla clonazione
Letteratura italiana: Il progresso in Leopardi. Il movimento della Scapigliatura. L’inno a Satana di Carducci. Il progresso nel verismo.
Forme uniche della continuità nello spazio
Se si osserva lateralmente la scultura, si può riconoscere facilmente una figura umana in cammino priva però di alcune parti (ad esempio le braccia) e, per così dire, del suo "involucro" esterno. La figura appare così per un verso come uno "scorticato" anatomico (si riconoscono distintamente alcuni muscoli, come i polpacci, e l'articolazione del ginocchio), per un altro come una "macchina", come un ingranaggio in movimento. L'opera inoltre si sviluppa mediante l'alternarsi di cavità, rilievi, pieni e vuoti che generano un frammentato e discontinuo chiaroscuro fatto di frequenti e repentini passaggi dalla luce all'ombra. Osservando la figura da destra, il torso ad esempio pare essere pieno ma se si gira intorno alla statua e la si osserva da sinistra esso si trasforma in una cavità vuota. In tale modo sembra che la figura si modelli a seconda dello spazio circostante ed assume così la funzione per così dire di plasmare le forme. Anche la linea di contorno si sviluppa come una sequenza di curve ora concave, ora convesse: in tal modo i contorni irregolari non limitano la figura come di consueto ma la dilatano espandendola nello spazio. L'interno stesso della statua è attraversato da solchi e spigoli che "tagliano" i piani, come se le figure fossero più di una e si sovrapponessero di continuo. Se vista lateralmente, la statua dà l'impressione di un movimento avanzante che si proietta energicamente in avanti. Tuttavia se la si guarda frontalmente o a tre quarti si può notare una torsione o avvitamento delle forme nello spazio: più di una linea infatti si avvolge attorno alla figura in un moto a spirale, coinvolgendo i diversi piani in una rotazione che suggerisce un'ulteriore espansione delle forme. La figura viene modellata dall'aria creando così un corpo aerodinamico. La scultura è raffigurata sul retro delle monete da 20 centesimi di euro coniate in Italia e se ne conoscono varie versioni (più di dieci), tra cui una al Museo del Novecento di Milano, una alla Kunsthalle di Mannheim, una alla Tate Modern di Londra, una al MoMa di Manhattan, una al Metropolitan Museum di New York, una al Museo Kröller-Müller di Otterlo (Paesi Bassi) e una alla Galleria Nazionale di Cosenza.
Umberto Boccioni Forme uniche della continuità nello spazio, 1913 Bronzo, h. 126.4 cm Varie repliche
Maturità 2025, la prova di matematica e Boccioni con quella scultura che inserisce il fattore tempo nello spazio
La Moda futurista
Natalia Goncharova
Natalia Goncharova (1881-1962) è stata una delle prime donne ad essere riconosciute nell’avanguardia artistICa russa. Sebbene Goncharova non appartenesse a nessun gruppo attivista, simpatizzava con i rivoluzionari. Non sorprende quindi che le sue opere mettevano in discussione le istituzioni dell’arte contemporanea. Il suo obiettivo era di innovare l’arte russa contaminandola con elementi europei come il post-impressionismo, fauvismo e proto-cubismo (fase iniziale del cubismo sviluppatasi e conclusasi tra il 1907 e il 1909. È il più breve dei tre periodi del cubismo. In questo periodo gli artisti semplificano geometricamente le forme portandole a puri volumi). Una innovazione di Goncharova è stata lo sviluppo del rayism: un nuovo stile pittorico che invece di concentrarsi sull’oggetto pittorico cercava di catturare sulla tela i raggi di luce che si riflettevano su un oggetto e le interazioni tra questi raggi e lo spazio a cui l’oggetto apparteneva. Un esempio di rayism e’ l’opera Rayonist Composition del 1912-1913.Ancora giovanissima partecipa nel 1906 ad una mostra di pittori russi al Salon d'Automne di Parigi, occasione che le procura visibilità e affermazione e stimola in lei l'interesse per la pittura degli impressionisti, dei fauves e per la tradizione figurativa russa. La Gončarova si reca per la prima volta in Italia nell'aprile 1914, a Roma visita la mostra Esposizione Libera Futurista Internazionale. Ha così l'occasione di approfondire i rapporti con i futuristi, come documentato da alcune fotografie scattate da Marinetti. Gončarova indaga il futurismo concentrandosi sulla figura delle macchine, non per riflettere il futuro, ma per analizzare lo stato del mondo meccanizzato (un chiaro esempio è l'opera "Il ciclista" da lei realizzata nel 1913).
Rayonist Composition, 1912-1913
"Il ciclista" è probabilmente la sua opera più famosa: risale al 1913, è conservata presso il Museo Russo di San Pietroburgo e combina elementi desunti da riflessioni sul cubismo e sul futurismo italiano, oltre che elementi propri dell'avanguardia russa. Il protagonista, un ciclista in movimento sulla sua bicicletta, è scomposto in diverse parti secondo il procedimento tipico dei pittori cubisti come Picasso o Braque, ma è raffigurato anche nel suo dinamismo come facevano i futuristi italiani (per esempio Giacomo Balla). Il veloce spostamento dell’atleta, chino sul suo mezzo di locomozione e saldamente attaccato al manubrio, è reso per mezzo della scomposizione dei piani cromatici e della ripetizione di marcate linee nere che hanno la funzione di riprodurre sulla tela l’impressione del movimento; non solo quello della bicicletta, ma anche quello ritmico dell’uomo che si sposta continuamente col busto. Il volto serio e concentrato del ciclista ci comunica la sua tensione per tenere in equilibrio la bicicletta, su un terreno che appare dissestato, la sua attenzione per evitare eventuali ostacoli sul suo percorso e nello stesso tempo la forza e l’energia che egli trasmette ai pedali. Anche la parte inferiore dello sfondo, disegnata con tratti rapidi e una serie irregolare di brevi pennellate, vuole dare allo spettatore la sensazione della velocità della bicicletta e del suo rapido passaggio. Non vi sono dubbi che la corsa di quest’uomo si snodi fra le vie di una città, poiché ci vengono proposte scritte, cappelli in vetrina, una mano con l’indice puntato, forse parte di un manifesto pubblicitario. La dinamica del movimento si integra con la visione della città che scorre in rapida sequenza, riproducendo in maniera mimetica la percezione dell’occhio del ciclista che muovendosi velocemente, può cogliere solo fuggevoli impressioni del panorama.
Natalja Goncharova Il ciclista, 1913 San Pietroburgo, Museo di Stato Russo
L’inserimento dei numeri e delle lettere in carattere cirillico nella parte superiore della tela deriva invece dal Cubismo sintetico, un’altra fonte a cui la pittrice guarda con grande interesse durante la sua formazione artistica. In questo modo vengono meno i legami naturalistici con la realtà e la composizione assume in maniera ancor più evidente il suo significato di rappresentazione ideale di un concetto.
Architettura impossibile futurista
Dadaismo
Il Dadaismo è un movimento artistico che nasce in Svizzera, a Zurigo, nel 1916. La situazione storica in cui il movimento ha origine è quello della Prima Guerra Mondiale, con un gruppo di intellettuali europei che si rifugiano in Svizzera per sfuggire alla guerra. Questo gruppo è formato da Hans Arp, Tristan Tzara, Marcel Janco, Richard Huelsenbeck, Hans Richter, e il loro esordio ufficiale viene fissato al 5 febbraio 1916, giorno in cui fu inaugurato il Cabaret Voltaire fondato dal regista teatrale Hugo Ball. Alcuni di loro sono tedeschi, come il pittore e scultore Hans Arp, altri rumeni, come il poeta e scrittore Tristan Tzara o l’architetto Marcel Janco. Le serate al Cabaret Voltaire non sono molto diverse dalle serate organizzate dai futuristi: in entrambe vi è l’intento di stupire con manifestazioni inusuali e provocatorie, così da proporre un’arte nuova ed originale. Ed in effetti i due movimenti, futurismo e dadaismo, hanno diversi punti comuni (quale l’intento dissacratorio e la ricerca di meccanismi nuovi del fare arte) ma anche qualche punto di notevole differenza: soprattutto il diverso atteggiamento nei confronti della guerra. I futuristi, nella loro posizione interventista, sono tutto sommato favorevoli alla guerra, mentre ne sono del tutto contrari i dadaisti. Questa diversa impostazione conduce ad una facile, anche se non proprio esatta, valutazione per cui il futurismo è un movimento di destra, mentre il dadaismo è di sinistra. Altri punti in comune tra i due movimenti sono inoltre l’uso dei "manifesti" quale momento di dichiarazione di intenti. Ma veniamo ai contenuti principali del dadaismo. Innanzitutto il titolo. La parola Dada, che identificò il movimento, non significava assolutamente nulla, e già in ciò vi è una prima caratteristica del movimento: quella di rifiutare ogni atteggiamento razionalistico. Il rifiuto della razionalità è ovviamente provocatorio e viene usato come una clava per abbattere le convenzioni borghesi intorno all’arte. Pur di rinnegare la razionalità i dadaisti non rifiutano alcun atteggiamento dissacratorio, e tutti i mezzi sono idonei per giungere al loro fine ultimo: distruggere l’arte. Distruzione assolutamente necessaria per poter ripartire con una nuova arte. Benché il dadaismo è un movimento ben circoscritto e definito in area europea, vi è la tendenza di far ricadere nel medesimo ambito anche alcune esperienze artistiche che, negli stessi anni, ebbero luogo a New York negli Stati Uniti. L’esperienza dadaista americana nacque dall’incontro di alcune notevoli personalità artistiche: il pittore francese Marcel Duchamp, il pittore e fotografo americano Man Ray, il pittore franco-spagnolo Francis Picabia. Ma la vita del movimento è abbastanza breve. La funzione principale del dadaismo era quello di distruggere una concezione oramai vecchia e desueta dell’arte. Tra il 1922 e il 1924, quando il dadaismo scomparve e nacque il Surrealismo.
Marcel Duchamp
L’artista francese Marcel Duchamp (1887-1968) viene considerato uno dei maggiori rappresentanti del dadaismo, benché egli non abbia mai accettato l’appartenenza a questo gruppo. La cosa, conoscendo il personaggio, non stupisce affatto: la personalità di Duchamp è assolutamente impossibile da inquadrare in un qualsiasi schema. Egli, in realtà, è stato uno dei più grandi artisti del Novecento, proprio per il suo modo di essere. Ha, di fatto, costruito un nuovo prototipo di artista da intendersi come intellettuale sempre pronto a proporsi in maniera inaspettata, anche solo per il piacere di essere diverso dal normale. Ha elevato l’anormalità, intesa come rifiuto di qualsiasi norma, a pratica sia di arte sia di vita. Le sue prime esperienze pittoriche mostrano una facilità di assimilazione delle principali novità stilistiche del momento: dal neoimpressionismo al fauvismo, dal simbolismo al futurismo. Ma è soprattutto nell’ambito del cubismo che egli si muove con maggior disinvoltura. Ma nel 1912, il suo quadro «Nudo che scende le scale n. 2» fu rifiutato dal Salon des Indépendants, proprio perché l’opera sembrava più futurista che cubista. Ciò provocò il definitivo distacco di Duchamp dai cubisti. L’opera, tuttavia, l’anno successivo fu esposta a New York, e qui divenne famosa. Nella capitale statunitense Duchamp vi arriva nel 1915 già preceduto dalla notorietà procuratagli dal «Nudo che scende le scale n. 2». In America entra in contatto con Man Ray e con Francis Picabia, quest’ultimo già conosciuto a Parigi. Duchamp in questi anni diviene soprattutto un operatore artistico, impegnato più come consulente di collezionisti e gallerie che non come artista. La sua attività, pur saltuaria, non perde mai il gusto della provocazione, e l’invenzione dei ready-made ne è uno degli esempi più classici. Dal 1923 smette sostanzialmente di fare l’artista. Nei decenni successivi si dedica soprattutto agli scacchi, partecipando anche a tornei professionistici internazionali.
Nudo che scende le scale n°2
Realizzato nel 1912, il Nudo che scende le scale n°2 sovverte le regole del Cubismo per arrivare ad una nuova ricerca della vivacità e del movimento. Duchamp non è dunque interessato alla rappresentazione di più punti di vista nello stesso momento, bensì alla descrizione dello stesso soggetto scomposto in più punti di vista, ma ripetuto in diversi momenti successivi. In questo modo, non solo l'artista risolve la più grande debolezza del Cubismo, ovvero l'estrema staticità, ma compie il primo passo verso un uso del mezzo pittorico che porterà alla sperimentazione astratta. La figura anatomica si scompone in piani e linee che lasciano solamente intuire la presenza ed il ritmico succedersi dei movimenti della figura, il quale è visivamente accompagnato da veri e propri segni iconici che lo rappresentano, come potrebbe accadere in un fumetto. La scala su cui si plasma la figura è pura forma, si innesta su se stessa, è contemporaneamente in salita ed in discesa, in infinito movimento, si fonde in una danza col soggetto, in un paradosso di Zenone in cui più la figura si divide, più sembra dividersi. L'opera fu rifiutata dal Salon des Independénts: la giuria si convinse che l'intenzione di Duchamp volgesse a prendersi gioco del Cubismo, adducendo come aggravante il fatto che il titolo avesse sembianze sin troppo “fumettistiche”. Nel 1913 l'opera fu inviata all'Armory Show di New York, dove fece scandalo e allo stesso tempo suscitò l'ammirazione di alcuni artisti americani. Fu anche la vivacità del dibattito ad indurre Marcel a trasferirsi a New York nel 1917.
Nudo che scende le scale n°2,1912 olio su tela, 146 x 88 cm Philadelphia, Museum of Art
the making of
movimento + staticità
Giacomo Balla, Bambina che corre sul balcone, 1912, olio su tela, 125 x 125 cm, Milano, Civiche raccolte d’arte, Collezione Grassi
Picasso, Donna con mandolino, 1909olio su tela, 92x73 cm Museo dell'Ermitage di San Pietroburgo
Ruota di bicicletta
Una ruota di bicicletta, fragile, leggera. La forcella, rovesciata, è avvitata su uno sgabello da cucina in legno dipinto. In questo oggetto è contenuta la grande rivoluzione concettuale del Novecento. Ruota di bicicletta, il primo ready-made di M. Duchamp, è un paradosso logico, perché unisce un oggetto che esprime il movimento (la ruota) a uno che lo rende immobile (lo sgabello), un prodotto industriale (la ruota) a uno artigianale (lo sgabello di legno), una forma circolare (la ruota) a una quadrata (la base dello sgabello). Duchamp fa girare la ruota. Ci gioca. Come se non volesse prendere sul serio la portata storica di questo oggetto, emblema del Dadaismo, simbolo della contemporaneità. La ruota, inserita in un contesto nuovo, è al tempo stesso riconoscibile e incomprensibile, poiché disorienta lo spettatore che è abituato a considerare l'opera d'arte come il frutto di un talento eccezionale, il risultato di un difficile percorso da parte dell'artista ispirato e dotato di particolari capacità tecniche. L'osservatore è quindi indotto a mettere in crisi i punti di riferimento dell'arte tradizionale e a chiedersi se un'opera d'arte sia tale solo perché collocata in una mostra o in una galleria, se l'aspetto estetico sia irrilevante, o se gli oggetti prodotti industrialmente abbiano un valore. L'osservatore è costretto dalla ruota di bicicletta di Duchamp a riflettere sull'idea e sul ruolo dell'opera d'arte, e a conferire così un significato concettuale a un'opera che non contiene nessun significato interiore deducibile dall'osservazione dei valori formali e compositivi dell'opera stessa
Marcel Duchamp, Ruota di bicicletta, 1913-1964 L'originale del 1913 (così come quello di altri ready-made) è andato perduto. Nel 1964 è stata realizzata un'edizione in otto esemplari numerati e firmati destinati alla vendita.
Fontana
Fontana è un'opera ready-made realizzata dall'artista Marcel Duchamp nel 1917. Non fu mai esposta al pubblico e andò successivamente perduta. Consiste in un comune orinatoio firmato "R. Mutt" e intitolato Fontana, e viene considerata da alcuni storici dell'arte e teorici specializzati una delle maggiori opere d'arte del ventesimo secolo. Dal 1964 esistono nel mondo sedici repliche. Nel 1917 egli era negli Stati Uniti e in quell’anno, sul modello del Salon des Indépendants, venne creata la Society of Independent Artists. Duchamp faceva parte del direttivo di questa associazione. Alla mostra organizzata dal gruppo poteva partecipare chiunque, pagando sei dollari, ed esponendo al massimo due opere. Duchamp mise in atto la sua provocazione in incognito. Presentò alla giuria della mostra un orinatoio firmandolo con lo pseudonimo R. Mutt. La giuria non capì e, sull’imbarazzo di come considerare la cosa, non fece esporre il pezzo. L’orinatoio originale utilizzato da Duchamp stranamente andò smarrito quando fu smontata la mostra nel 1917. Solo nel 1964 Duchamp autorizzò una replica di quel suo «ready-made» che fu acquistata dal collezionista milanese Arturo Schwarz. Da qualche anno esso è esposto nella Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma. L’idea dei «ready-made» Duchamp l’aveva avuta qualche anno prima, quando era ancora in Francia. Ma dei diversi «ready-made» da lui realizzati, questo rimane di certo il più provocatorio ed irridente al mondo dell’arte. Opera che segna un punto di non ritorno: accettarla tra i capolavori d’arte significa essere disponibili al gioco ironico del non prendersi mai sul serio. Posizione che, tutto sommato, è da considerarsi con grande attenzione.
Fontana, 1917, 61×48×38 cm Tate Modern art - London (16 repliche)
altri esempi
dichiarazione di Cattelan a proposito del furto: "...spero che America continuerà a essere usata nel bagno di qualcuno, per come l’avevo pensata, senza che il water sia sciolto, diviso in 103 lingotti da un chilo. Cari ladri, se mi state leggendo, per favore fatemi sapere se vi piace il lavoro e che cosa si prova a pisciare sull’oro."
Maurizio Cattelan, America, 2016 un water di 103 kg di oro, 18 carati del valore di oltre 5,5 milioni di euro, è stato rubato da Blenheim Palace, nel Regno Unito nel 2019 e ritrovato nel 2023
Claes Oldenburg Toilette molle, 1966 Materiali plastici, acrilici e legno, 141x71x76 cm Whitney Museum of American Art, New York
L,H,O,O,Q, "la Gioconda con i baffi"
Si tratta di una riproduzione fotografica della Gioconda di Leonardo da Vinci alla quale sono stati aggiunti provocatoriamente dei baffi e un pizzetto. Il titolo è sostanzialmente un gioco di parole, infatti le lettere L.H.O.O.Q. pronunciate in francese danno origine alla frase Elle a chaud au cul, letteralmente "Lei ha caldo al culo", che significa "Lei è eccitata". Come nel caso di altri ready-made, Duchamp ne ha realizzato diverse versioni, tra le quali anche L.H.O.O.Q. Shaved del 1965 nella quale appare la Gioconda senza baffi e la scritta in francese "rasée L.H.O.O.Q.". L'opera può essere considerata un manifesto contro il conformismo. Dissacrando uno dei miti artistici più consolidati, Duchamp non intende negare l'arte di Leonardo ma onorarla, a modo suo, mettendo in ridicolo gli estimatori superficiali e ignoranti che apprezzano la Gioconda solo perché tutti dicono che è bella, conformandosi acriticamente così al gusto della maggioranza delle persone.
Marcel Duchamp L.H.O.O.Q. Shaved, 1965
Man Ray
Man Ray, nato Emmanuel Rudzitsky (Filadelfia, 27 agosto 1890 – Parigi, 18 novembre 1976), è stato un pittore, fotografo e grafico statunitense esponente del Dadaismo. Emmanuel nasce a Filadelfia da una famiglia di immigrati russi di origine ebraica. Cresce a New York dove completa gli studi. Termina la scuola superiore ma rifiuta una borsa di studio in architettura per dedicarsi all'arte. A New York lavora nel 1908 come disegnatore e grafico. Nel 1912 inizia a firmare le sue opere con lo pseudonimo “Man Ray”, che significa uomo raggio. Acquista la sua prima macchina fotografica nel 1914, per fotografare le sue opere d'arte. Nel 1915 conosce Marcel Duchamp, di cui diverrà grande amico. Nel 1921 Duchamp torna a Parigi. Man Ray, che in precedenza aveva rinunciato a trasferirsi in Francia a causa della grande guerra, lo segue. A Parigi Duchamp gli presenta gli artisti più influenti di Francia, fra cui anche André Breton. Nel 1924 nasce ufficialmente il surrealismo, Man Ray è il primo fotografo surrealista. La produzione dei suoi lavori di ricerca va di pari passo con la pubblicazione delle sue fotografie di moda su Vogue. Si innamora della famosa cantante francese Alice Prin, spesso chiamata Kiki de Montparnasse, che in seguito divenne la sua modella fotografica preferita. Insieme a Jean Arp, Max Ernst, André Masson, Joan Miró e Pablo Picasso, fu rappresentato nella prima esposizione surrealista alla galleria Pierre a Parigi nel 1925. Lo scoppio della seconda guerra mondiale obbliga Man Ray, che è di origine ebrea, a rientrare negli Stati Uniti. Finita la seconda guerra mondiale Man Ray ritorna a Parigi, dove vivrà fino al giorno della sua morte, in questi anni continua a dipingere ed a fare fotografie. Nel 1975 espone le sue fotografie alla Biennale di Venezia.
Cadeau
La più famosa tra le sue opere è sicuramente Cadeau; un ferro da stiro in ghisa a cui l'artista salda in riga 14 chiodi sul fondo, la parte piana del ferro, rendendolo così inutilizzabile. Realizzò il primo nel 1921, che fu rubato alla sua prima mostra a Parigi, poi ne replicò altri nel 1963, 1970 (cm.15.4x8.7x12.2), 1972; fino a realizzarne una serie di multipli di 5000 esemplari nel 1974, con le seguenti dimensioni cm. 17x10x10,5; oggi questo multiplo è molto ricercato dai collezionisti d'arte. La mattina del 14 luglio 1921, Man Ray, uscendo da un bar dove aveva bevuto due grog in compagnia del compositore Erik Satie, si ritrovò con costui ad osservare la vetrina di un negozio di ferramenta ove era appunto esposto un ferro da stiro in ghisa, di quelli da riscaldare sulla stufa prima dell’utilizzo. Senza esitare, Man Ray decise di acquistare l’oggetto insieme a quattordici chiodi. Comunico il suo intendimento all’amico, per nulla stupito; peraltro Man Ray non parlava francese e perciò era necessario che Satie fungesse da interprete nella compravendita fra Man Ray e il negoziante. Subito dopo Man Ray rientrò nella sua stanza d’albergo per mettersi al lavoro, ossia impartire un ritocco all’apparecchio: sulla piastra, la parte piana solitamente pensata per appiattire i vestiti, applicò i chiodi in fila, in modo da rendere il ferro da stiro del tutto inutilizzabile. A questo punto per sperimentare la buona riuscita del progetto provò a utilizzare il nuovo ferro da stiro da lui inventato su un abito, del quale anziché allisciarne le pieghe ottenne la distruzione. Soddisfatto del risultato, Man Ray decise di esibire il manufatto in una galleria d’arte nell’ambito di una mostra da lui stesso organizzata con l’ausilio di alcuni suoi estimatori. Poche ore dopo l’inizio della mostra, l’originale ferro da stiro di Man Ray venne però rubato (non si sa da chi) e mai più ritrovato. Tuttavia Man Ray, negli anni successivi, si diede alla produzione per cosi dire industriale del suo inservibile ferro da stiro. Oggi ne esistono circa 5.000 modelli, in giro per il mondo. Il costo di ciascun ferro si aggira intorno ai mille euro.
Cadeau (Dono),1921-1963 17,2x10 cm Tate Modern art - London
Le Violon d'Ingres
Una donna immortalata di spalle, nuda, coperta soltanto da un velo e da un turbante. Sulla schiena, le chiavi di violino. Bastano questi pochi indizi per capire di cosa stiamo parlando: , "Le Violon d'Ingres", celebre fotografia in bianco e nero realizzata dall’artista americano Man Ray nel 1924. Il titolo della foto riprende un vecchio modo di dire utilizzato dai francesi a Parigi per “passatempo”; nel ritratto, la celebre Kiki de Montparnasse, amante dell’artista e sua musa ispiratrice. La fotografia è un audace accostamento del corpo femminile alla viola, la cui sagoma tondeggiante ne riprende le forme. Per merito di questa foto - e di numerose altre – il corpo di Kiki rimase alla storia come simbolo della Parigi dei primi decenni del XX secolo. Le chiavi di violino vennero applicate sulla schiena della modella dall’artista, trasformando il suo corpo in uno strumento musicale e giocando con l'idea di oggettivazione di un corpo animato. Molti descrivono Le Violon d'Ingres, come un gioco di parole visivo, che raffigura la sua musa, Kiki, come il “passatempo” dell’artista.
Le Violon d'Ingres ,1924 29.6 × 22.7 cm Centre Pompidou - Paris
collegamento
Man Ray e Kiki de Montparnasse durante il backstage della celebre foto
Bozzetto del più grande fumettista italiano, Milo Manara
Rose Villain
Esame di stato
Filosofia: la crisi delle certezze in Feuerbach
Inglese:Frankenstein di Mary Shelley
Fisica: la crisi della fisica classica e l’avvento della fisica relativistica
Storia:la crisi economica e finanziaria del 1929
la crisi dell’opera d’arte classica nelle avanguardie, in particolare nel Dadaismo
Letteratura latina:Plinio il Vecchio
Scienze naturali:i fenomeni vulcanici e sismici
Letteratura italiana: Crollo dell’antropocentrismo nel brano “Maledetto sia Copernico” da “Il fu Mattia Pascal” di Pirandello; Riflessioni sulla natura matrigna in Leopardi
LA CRISI DELLE CERTEZZE
- ASTRATTISMO
- METAFISICA
- SURREALISMO 1 (INTRO+MAGRITTE)
- SURREALISMO 2 (DALì)
- FRIDA KAHLO
- FRIDA KAHLO (video)
L'Astrattismo
L'Astrattismo è un'avanguardia artistica nata nei primi anni del XX secolo, in zone d'Europa lontane tra loro, dove si sviluppò senza intenti comuni. Il termine indica quelle opere pittoriche e plastiche che esulano dalla rappresentazione oggettiva della vita reale. Nelle arti figurative il concetto di astratto assume il significato di «non reale». L’arte astratta è quella che non rappresenta la realtà. L’arte astratta crea immagini che non appartengono alla nostra esperienza visiva. Essa, cioè, cerca di esprimere i propri contenuti nella libera composizione di linee, forme, colori, senza imitare la realtà concreta in cui noi viviamo. L’astratto, in tal senso, nasce agli inizi del secolo scorso. Ma esso era già presente in molta produzione estetica precedente, anche molto antica. Sono astratte sia le figurazioni che compaiono sui vasi greci più antichi, sia le miniature altomedievali, solo per fare alcuni esempi. In questi casi, però, la figurazione astratta aveva un solo fine estetico ben preciso: quello della decorazione. L’arte astratta del 900 ha, invece, un fine completamente diverso: quello della comunicazione. Vuole esprimere contenuti e significati, senza prendere in prestito nulla dalle immagini già esistenti intorno a noi. All’astratto si è arrivati mediante un processo che può essere definito di astrazione. Il concetto di astrazione è molto generale, ed esprime un procedimento mediante il quale l’intelletto umano descrive la realtà solo in alcune sue caratteristiche. Da processi di astrazione nascono le parole, i numeri, i segni, e così via. Nel campo delle immagini, i segni, intesi come simboli che rimandano a cose o idee, è già un modo "astratto" di rappresentare la realtà. Nel campo dell’astrazione entrano anche la stilizzazioni che, ad esempio, proponeva l’arte liberty. Ed, ovviamente, tutta l’esperienza estetica delle avanguardie storiche è un modo tendenzialmente astratto di rappresentare la realtà.
collegamenti
miniatura medievale
motivoliberty
Decorazione greca
La scomposizione di una bottiglia, ad esempio, che effettua Picasso, gli consente di giungere ad una rappresentazione "astratta" di quella bottiglia. Ma nel suo quadro la bottiglia, intesa come realtà esistente, rimane presente. L’astrattismo nasce, invece, quando nei quadri non vi è più alcun riferimento alla realtà. Nasce quando i pittori procedono in maniera totalmente autonoma rispetto alle forme reali, per cercare e trovare forme ed immagini del tutto inedite e diverse da quelle già esistenti. In questo caso, l’astrattismo ha un procedimento che non è più definibile di astrazione, ma diviene totale invenzione. L’astrattismo nasce intorno al 1910, grazie al pittore russo Wassilj Kandinskij. Egli operava, in quegli anni, a Monaco dove aveva fondato il movimento espressionistico «Der Blaue Reiter». Il suo astrattismo conserva infatti una matrice fondamentalmente espressionistica. È teso a suscitare emozioni interiori, utilizzando solo la capacità dei colori di trasmettere delle sensazioni. Da questo momento, la nascita dell’astrattismo ha la forza di liberare la fantasia di molti artisti, che si sentono totalmente svincolati dalle norme e dalle convenzioni fino ad allora imposte al fare artistico. I campi in cui agire per nuove sperimentazioni si aprono a dismisura. E le direzioni in cui si svolge l’arte astratta appaiono decisamente eterogenee, con premesse ed esiti profondamente diversi.
Picasso, TAVOLO DI UN CAFFÈ (BOTTIGLIA DI PERNOD)
Esperienze psicologiche: la Gestalt
L’arte astratta nasce come volontà di espressione e di comunicazione, ma lo fa con un linguaggio di cui difficilmente si conoscono le regole. Il problema interpretativo dell’arte astratta è stato in genere affidato alla psicologia gestaltica. La psicologia gestaltica studia l’iterazione tra l’uomo e le forme. Ossia, come la percezione delle forme diviene esperienza psicologica. Il modo come si struttura questa esperienza psicologica segue leggi universali. Pertanto anche l’immagine astratta trasmette informazioni percettive che stimolano una reazione di tipo psicologico. Se la psicologia gestaltica può spiegare il meccanismo per cui un’opera astratta può apparire bella o brutta, difficilmente può spiegare quale opera apparirà bella e quale brutta. In sostanza, non può fornire elementi di valutazione critica, restando questi comunque pertinenti al campo specifico della storia dell’arte e alla storia del gusto. Tuttavia la psicologia gestaltica ha fornito numerosi elementi per inquadrare il problema, chiarendo come l’arte astratta riesca a comunicare con la psicologia dell’osservatore. E, soprattutto nella sua fase iniziale, l’astrattismo si è ampiamente appoggiata alle categorie interpretative gestaltiche. Altro metodo di decifrazione dell’arte astratta è quello di rintracciare l’esperienza esistenziale da cui è nata la specifica opera. L’artista, come qualsiasi altra persona di questo mondo, vive la medesima realtà di tutti. Riceve le medesime sollecitazioni, le interpreta con la sua specifica sensibilità, e, in più rispetto agli altri, le sa tradurre in forma. Il gesto creativo, sostanziandosi in un’opera, diviene traccia esistenziale. L’opera creata diviene traccia di tutta l’iterazione tra realtà, sollecitazione, sensibilità e creatività, che può essere comune a tutti, ma che solo l’artista, proprio perché è tale, sa esprimere e oggettivare.
Esperienze psicologiche: il test di Rorschach
Vasilij Vasil'evič Kandinskij
Kandinskij (1866-1944) è nato il 4 dicembre 1866. Proviene da una agiata famiglia borghese di Mosca e viene avviato agli studi di legge. Dopo aver conseguito la laurea in Giurisprudenza, gli viene offerta una cattedra all’università che egli però rifiuta per dedicarsi alla pittura. In questa fase della sua gioventù egli si dedica allo studio del pianoforte e del violoncello. Il contatto con la musica si rivelerà in seguito fondamentale per la sua evoluzione artistica come pittore. Un altro avvenimento di questi anni fornirà un contributo fondamentale alla formazione della sua arte. Nel 1896 si trasferisce a Monaco, in Germania, per intraprendere studi più approfonditi nel campo della pittura. In questa città viene in contatto con l’ambiente artistico che in quegli anni aveva fatto nascere il fenomeno dell’espressionismo Le riflessioni sui rapporti tra pittura e musica convincono Kandinskij che la pittura deve essere sempre più simile alla musica e che i colori devono sempre più assimilarsi ai suoni. La musica, infatti, è pura espressione di esigenze interiori e non imita la natura: è astratta. Anche la pittura, secondo Kandinskij, deve essere astratta, abbandonando l’imitazione di un modello. Solamente una pittura astratta, cioè non figurativa, dove le forme non hanno attinenza con alcunché di riconoscibile, liberata dalla dipendenza con l’oggetto fisico, può dare vita alla spiritualità. Nel 1914, allo scoppio della prima guerra mondiale, Kandinskij rientra in Russia. Qui, viene chiamato a ricoprire importanti cariche pubbliche nel campo dell’arte. Tuttavia, avvertita l’imminente svolta normalizzatrice, che avrebbe di fatto tolto spazio alla ricerca delle avanguardie, nel 1921 ritorna in Germania e non farà più ritorno in Russia.
Vasilij Vasil'evič Kandinskij, in russo: Василий Васильевич Кандинскийnoto anche come Vassily Kandinsky (Mosca, 4 dicembre 1866 – Neuilly-sur-Seine, 13 dicembre 1944)
Nel 1922 viene chiamato da Walter Gropius ad insegnare al Bauhaus di Weimar. Questa scuola di arti applicate, fondata nel 1919 dall’architetto tedesco, svolge un ruolo fondamentale nel rinnovamento artistico europeo degli anni ’20 e ’30. Qui Kandinskij ha modo di svolgere la sua attività didattica con grande libertà e serenità, stimolato da un ambiente molto ricco di presenze qualificate. In questa scuola operarono in quegli anni i maggiori architetti, designer ed artisti provenienti da tutta Europa. Kandinskij lega in particolare con il pittore svizzero Paul Klee. In questa fase il suo astrattismo conosce una svolta molto decisa. Nella prima fase i suoi quadri si componevano di figure molto informi mischiate senza alcun ordine geometrico. Anche i colori erano molto vari, mischiati tra loro, ottendendo infinite varietà cromatiche intermedie. Nella nuova fase, coincidente con il suo insegnamento al Bauhaus, i quadri di Kandinskij assumono un ordine molto più preciso. Si compongono di forme dalle geometrie più riconoscibili e dalle tinte più separate tra loro. Ciò segna un passaggio ben preciso nel suo approccio all’arte astratta. Nella prima fase il suo astrattismo risponde solo alle sue esigenze interiori di esprimere emozioni e sentimenti. Nella seconda fase prevale la necessità della didattica, e quindi la razionalizzazione di un metodo che possa essere di insegnamento agli allievi. Anche se ciò è stato spesso interpretato come un impoverimento della sua vena creativa, è questo uno sforzo che egli compie che sarà fondamentale per la nascita di una estetica veramente moderna e attuale. Il periodo trascorso al Bauhaus finisce nel 1933 quando la scuola viene chiuso dal regime nazista. L’anno successivo Kandinskij si trasferisce in Francia. A Parigi vive gli ultimi dieci anni della sua vita.
Primo acquerello astratto
, 1910
Acquerello, matita e inchiostro di china su carta 49,6×61,8 cm Centro Pompidou, Parigi
Primo acquerello astratto
Questo acquerello è la prima opera totalmente astratta di Kandinskij. Nacque come studio per un’opera più complessa, realizzata nel 1913. Esso tuttavia ha una sua organicità, e un suo primato, che lo hanno reso una delle opere più famose dell’artista. Al quadro manca una qualsiasi spazialità. Si compone unicamente di macchie di colore e segni neri che non compongono delle forme precise e riconoscibili. Non è quindi possibile ritrovarvi una organizzazione di lettura precisa. Lo si può guardare partendo da un qualsiasi punto e percorrerlo secondo percorsi a piacere. Ma, come le opere musicali, che hanno un tempo preciso di esecuzione, anche i quadri di Kandinskij hanno un tempo di lettura. Non possono essere guardati con un solo sguardo. Sarebbe come ascoltare un concerto eseguito in un solo istante: tutte le note si sovrapporrebbero senza creare alcuna melodia. I quadri di Kandinskij vanno letti alla stessa maniera. Guardando ogni singolo colore, con il tempo necessario affinché la percezione si traduca in sensazione psicologica, che può far risuonare sensazioni già note, o può farne nascere di nuove. Tenendo presente ciò, i quadri di Kandinskij, soprattutto quelli più complessi a cui diede il nome di Composizioni, si rivelano essere popolati di una quantità infinita di immagini. Ogni frammento, comunque preso, piccolo o grande che sia, ha una sua valenza estetica affidata solo alla capacità del colore di sollecitare una sensazione interiore. Si tratta di un approccio all’opera d’arte assolutamente nuovo ed originale che sconvolge i normali parametri di lettura di un quadro.
Giallo, rosso e blu
Giallo, rosso e blu
Già dal titolo si intuisce come protagonista del quadro è solo il colore, che qui viene impostato soprattutto sui tre primari. Nelle opere di Kandinskij l’armonia dei colore corrisponde a quella dei suoni musicali, con la ricerca di un effetto psicologico che va al di là del soggetto. Così Kandinskij nelle sue variazioni di motivi trasforma il soggetto in una corrispondenza armoniosa secondo ritmi soprattutto diagonali e secondo toni originati dal blu, rosso, giallo, in diverse gradazioni e sfumature. Kandinskij parte dai colori, anzi, dall’accostamento dei colori con i suoni musicali. Fa corrispondere il giallo alla tromba, l’azzurro al flauto, al violoncello, al contrabbasso e all’organo, il verde al violino. Sostiene che il rosso richiama alla mente le fanfare, la tuba o il cembalo, l’arancione una campana di suono medio o un contralto che suoni in largo. Che il viola suona come un corno inglese o come i bassi dei legni. Dopo aver collegato ciascun colore ad un suono, un profumo, un’emozione precisa, l’artista afferma che proprio grazie alle sue risonanze interiori, a seconda della sua diversità, ogni colore produce un effetto particolare sull’anima. Il colore rosso per esempio può provocare l’effetto della sofferenza dolorosa, per la sua somiglianza al sangue. Il giallo invece, per semplice associazione col limone, comunica una impressione di acido. Alcuni colori possono avere una apparenza ruvida, pungente, mentre altri vengono sentiti come qualcosa di liscio, di vellutato. L’idea compositiva si basa sulla contrapposizione della parte destra con quella sinistra. Nella prima prevalgono i toni atmosferici dell’azzurro contornato dal viola; in essa si inseriscono in prevalenza segni grafici leggeri posti secondo un ordine di armonia geometrica. Nella metà di sinistra fa da sfondo un colore giallo che chiude lo spazio senza sfondamenti in profondità. In questa parte le forme che il pittore inserisce hanno una consistenza materica più densa. In questo modo la pittura di Kandinskij, tende a suggerire una organizzazione tridimensionale che evoca uno spazio percettivo diverso, e più ampio, di quello naturale.
Composizioni
Le Composizioni di Kandinsky hanno rappresentato il culmine dei suoi sforzi per creare una pittura “pura” che, richiamando la musica, con la sua armonia e disarmonia, variazioni e relazioni, fosse in grado di offrire la stessa potenza emotiva che offre una composizione musicale. Purtroppo, le prime tre delle dieci composizioni sono andate distrutte durante la Seconda Guerra Mondiale. Le prime sette vengono realizzate in un breve arco di tempo (circa tre anni dal 1910 al 1913) mentre le ultime le realizza a distanza di decenni.
Paul Klee, (Münchenbuchsee, 18 dicembre 1879 – Muralto, 29 giugno 1940), è stato un pittore tedesco, nato in Svizzera da padre tedesco e madre svizzera, ambedue musicisti. Figura eminente dell'arte del XX secolo, nel periodo della sua formazione. Paul Klee si occupò di musica, poesia, pittura, scegliendo infine quest'ultima forma di espressione come ambito privilegiato e dando così inizio ad una tra le più alte e feconde esperienze artistiche del Novecento. Si mantenne comunque anche con i proventi derivati dalla sua attività di strumentista presso l'Orchestra di Berna. Esponente dell'astrattismo, considerava l'arte un discorso sulla realtà e non una sua semplice riproduzione. Nelle sue opere la realtà è quindi rarefatta, resa essenziale, talvolta ridotta a semplici linee o campiture colorate. La sua inesausta ricerca si manifesta anche attraverso la scelta dei supporti, che vanno dalla tradizionale tela alla carta di giornale, alla juta, a cartoncini di ogni qualità e spessore. Decisivo è un suo viaggio a Tunisi nel 1914. Da quel momento lo stesso Klee afferma di essersi pienamente impadronito del colore. Lo stesso anno viene però richiamato alle armi per combattere nella prima guerra mondiale. Congedato a Natale del 1918, inizia per lui il periodo più fecondo e felice della sua carriera artistica. Nel 1920 viene chiamato da Gropius ad insegnare nella Bauhaus. Qui Klee si applicherà alla didattica in maniera entusiasta, avendo la possibilità di organizzare in maniera più sistematica l’aspetto teorico del suo fare artistico. La sua personalità artistica è ricca e multiforme. I suoi interessi lo hanno portato a spaziare molto al di là della sua disciplina, interessandosi di filosofia, poesia, musica e scienze naturali. Nella sua ricerca appare sempre costante il problema di capire cosa è la creatività. Egli infatti ritiene che l’arte si avvicini alla natura non perché la imiti, ma perché riesce a riprodurne le intime leggi della creazione. Così egli piega e modella i suoi segni espressivi con grande padronanza, riuscendo con semplicità a passare dal figurativo all’astratto senza mai far perdere alle sue immagini una grande carica di espressività. Molto affascinato dal mondo figurativo dell’infanzia, egli conserva sempre nella sua opera una levità e leggerezza che danno alle sue immagini semplicità ed eleganza.
Paul Klee
Wald Bau
I dipinti di Klee, come Wald Bau, che si può tradurre in italiano come “Struttura di foreste”, mantengono riferimenti al mondo reale. Spesso questi riferimenti sono dei segni che rimandano alla grafica infantile. Proprio questo tipo di figurazione contribuisce a dare una implicazione emotiva dell’immagine. La figurazione infantile apporta ai dipinti di Paul Klee una componente fiabesca e minimale che viene supportata, anche, dalle semplici campiture geometriche. Paul Klee prese ispirazione dai suoi viaggi e dalla realtà osservata. Queste suggestioni visive venivano, poi, ricomposte attraverso un linguaggio minimale e semplice, sulla tela formando composizioni astratte.Nel dipinto l’artista si espira ad un immaginario infantile per costituire una composizione astratta di tipo geometrico. La componente fiabesca e minimale viene supportata dalle semplici campiture geometriche. Questo tipo di figurazione contribuisce a dare un‘interpretazione emotiva al dipinto . I segni geometrici all’interno delle campiture verdi rappresentano coltivazioni o campi. Vi sono segni di strade marroni e altri, azzurri che rimandano a ruscelli. Sparsi nella composizione vediamo semplici grafemi che potrebbero essere alberi, conifere. Come dichiarato dal titolo, il dipinto ci ricorda una mappa di alberi, strade, campi, di fronte a cui l’osservatore , trasportato dalla sua immaginazione, si proietta fino a concepire la sua esistenza, a volte ingarbugliata dal quotidiano, come un insieme di grafemi facilmente comprensibili e risolvibili agli occhi di un bambino.
Paul Klee, Wald Bau, 1919 tecnica mista su gesso, 27,2 x 25,3 cm. Milano, Museo del Novecento
Strade principali e strade secondarie
L’approdo ad una pittura astratta, in Klee, ha esiti molto diversi da quelli di Kandinskij. Mentre il pittore russo pratica un’astrazione totale e rigorosa, Klee sembra divertirsi a depurare le immagini fino a giungere a delle rappresentazioni che sono più ideografiche che astratte. In questo caso realizza un quadro a linee incrociate che simulano la planimetria di una città, da qui il titolo «Strade principali e secondarie». L’effetto è decisamente decorativo, ma non esclude una riflessione sulle nuove realtà metropolitane, che, già negli anni Trenta, diventano paesaggio artificiale totale, escludendo dal proprio interno qualsiasi altra varietà morfologica. L'opera dipinta dopo il soggiorno dell'artista in Egitto. Del paesaggio egiziano gli occhi del pittore colgono subito i colori, il movimento e il rapporto con lo spazio – sia urbano, con le sue strade secondarie, sia agricolo, di appezzamenti sfiorati dal Nilo – che questi instaurano. L’astrattismo, ereditandola dall’espressionismo, si fonda su una teoria artistica divergente da quella tanto cara agli impressionisti, ovvero l’arte come rappresentazione della realtà. Qui, al contrario, è l’io ad essere espresso, la pittura è musicale: il paesaggio diventa un pentagramma, e i campi suddivisi dalle tante strade secondarie, orizzontali e oblique, sono come note sparse a macchia. Domina un’atmosfera di libertà associativa, rigorosamente tesa a intuire il carattere primitivo delle cose, per poi riportarne su tela la forza creativa.
Strade principali e strade secondarie, 1929 Olio su tela, (83 x 67 cm) Colonia, Wallraf-Richartz Museum
Missoni è una casa di moda fondata nel 1953 da Ottavio Missoni e dalla moglie Rosita Jelmini.
Piet Mondrian
Piet Mondrian (Amersfoort, 7 marzo 1872 – New York, 1º febbraio 1944) è stato un pittore olandese, fondatore del gruppo di pittori detti "neoplasticisti". Nonostante siano molto famosi, anche se spesso imitati e banalizzati, i quadri di Mondrian dimostrano una complessità che smentisce la loro apparente semplicità. I quadri, per cui è conosciuto e che consistono in linee perpendicolari e campiture di colore geometriche in colori primari (rosso, giallo, blu) col bianco, il nero o il grigio, sono in effetti il risultato di una continua ricerca di equilibrio e perfezione formale, evoluta stilisticamente nel corso di tutta la sua vita. Alla fine della guerra, Mondrian ritornò in Francia, dove rimase fino al '38. Cominciò a produrre quadri "a griglia" verso la fine del '19, e, già nel '20, lo stile per cui sarebbe divenuto famoso cominciò ad apparire. Nei primi dipinti, le linee che delineano le forme rettangolari sono sottili e grigie. Tendono anche a sbiadire man mano che s'avvicinano all'orlo della tela. I quadrati, sono dipinti con i colori primari, e quasi tutti sono colorati; solo alcuni sono stati lasciati bianchi. A partire dal 1921, i quadri di Mondrian raggiungono una forma "matura". Spesse linee nere ora separano i quadrati, che sono più grandi e meno numerosi, e che sono lasciati in maggior parte bianchi rispetto ai primi esempi. Nei dipinti del '21, molte, ma non tutte, delle linee nere si arrestano brevemente a una distanza che può sembrare arbitraria dal bordo delle tele, pur lasciando intatte le divisioni tra le forme rettangolari. Anche in questo caso, la maggior parte dei quadrati è colorata. Col passare degli anni e l'evolversi ulteriore del lavoro del pittore, egli cominciò ad estendere tutte le linee fino ai bordi delle tele e a utilizzare sempre meno forme colorate, favorendo invece il bianco.
Tableau 1
L'opera mette in evidenza con efficacia il personalissimo stile del pittore. Poiché l'arte deve risultare universalmente comprensibile, Mondrian adotta un rigoroso linguaggio geometrico e, alla ricerca di una totale purezza neoplastica, restringe le possibilità visive alla sola linea retta, sintesi di tutte le altre forme. L'utilizzo di linee tra loro perpendicolari crea un rapporto stabile e immutabile grazie al loro incontrarsi nell'angolo retto. Allo stesso scopo il colore emerge con forza dalle campiture bianche, contornate dai rigorosi segni neri che strutturano lo spazio dell'immagine. Come in tutte le composizioni di questa serie, l'artista ha limitato la tavolozza ai soli colori primari, come il rosso, il giallo, il blu, in quanto rappresentavano per lui l'essenza elementare di tutte le variazioni possibili. Per Mondrian il ricorso alla geometria non rappresentava la fredda applicazione di uno schema perfetto e matematico, ma la ricerca di un ritmo vitale e universale. Inoltre l'applicazione piatta e totalmente uniforme del colore rende indistinguibile anche a una visione ravvicinata il disporsi delle singole pennellate.
Tableau 1 (quadro 1) olio su tela, 103 x 100 cm Gemeentemuseum, Den Haag (Aia)
la serie dell'albero
i soggetti delle sue prime tele sono infatti ispirati ai paesaggi della sua terra natia, l’Olanda. Ed è qui che entrano in gioco i famosi alberi, osservando i quali possiamo ricostruire il percorso artistico e stilistico seguito da Mondrian che, partendo da uno stile impressionista e passando per il cubismo, arriva all’astrattismo. “L’albero rosso” è il dipinto più fedele alla realtà: il tronco e i rami sono nodosi, aggrovigliati e di un colore insolito. In questa prima versione le forme e i colori risultano distorti, come se fossero osservati attraverso una particolare lente deformante, ma nel suo insieme il disegno mantiene un certo contatto con la realtà.Ecco, “Alberi in fiore”, uno degli ultimi stadi della trasformazione. Qui le forme geometriche prendono il posto di tronco e rami, la forma originaria dell’albero non è più distinguibile in quanto sostituito da linee nere più o meno marcate, che danno una certa profondità al disegno Osservando in sequenza i dipinti possiamo notare come, nel giro di pochi anni, Mondrian abbia stravolto il suo stile pittorico, mettendosi sempre in discussione, alla ricerca di una espressione personale e originale. l'artista sosteneva: In tanti non hanno apprezzato questo esercizio di stile. Credo di aver capito la loro incertezza: l'ambizione era quella di riuscire a disegnare copiando al meglio la realtà. Il fatto che un pittore abbia studiato tanto per distaccarsene….proprio non si accetta!!
Melo in fiore, 1912, olio su tela Gemeentemuseum Den Haag (Aia)
L’albero argentato
Alberi in fiore
La Metafisica
La Metafisica
La Metafisica è l’altro grande contributo all’arte europea che provenne dall’Italia, nel periodo delle avanguardie storiche. Per la sua palese figuratività, esente da qualsiasi innovazione del linguaggio pittorico, la Metafisica è da alcuni esclusa dal contesto vero e proprio delle avanguardie. Essa, tuttavia, fornì importanti elementi per la nascita di quella che viene considerata l’ultima tra le avanguardie: il Surrealismo. Protagonista ed inventore di questo stile fu Giorgio De Chirico. Iniziò a fare pittura metafisica già nel 1909, anno di nascita del futurismo. Ma rispetto a quest’ultimo movimento, la metafisica si colloca decisamente agli antipodi. Nel futurismo è tutto dinamismo e velocità; nella metafisica predomina la stasi più immobile. Non solo non c’è la velocità, ma tutto sembra congelarsi in un istante senza tempo, dove le cose e gli spazi si pietrificano per sempre. Il futurismo vuol rendere l’arte un grido alto e possente; nella metafisica predomina invece la dimensione del silenzio più assoluto. Il futurismo vuole totalmente rinnovare il linguaggio pittorico; la metafisica si affida invece agli strumenti più tradizionali della pittura: soprattutto la prospettiva. La Metafisica, come movimento dichiarato, sorse solo nel 1917, a Ferrara, dall’incontro tra De Chirico e Carlo Carrà. Quest’ultimo proveniva dalle file del futurismo, ma se ne era progressivamente distaccato. L’incontro con De Chirico lo convinse al recupero della figura e all’esplorazione di quel mondo arcaico e fisso che caratterizza la pittura metafisica di De Chirico. Alla metafisica aderirono, seppure a tratti, altri pittori italiani, tra cui Alberto Savinio, fratello di De Chirico, Filippo De Pisis, Mario Sironi e Felice Casorati. Nel 1921 il gruppo della Metafisica era già sciolto, dato che la maggior parte dei suoi protagonisti si erano aggregati intorno alla corrente di Valori Plastici.
Giorgio De Chirico, Piazza d’Italia, 1961
Giorgio De Chirico
Giorgio De Chirico nacque in Grecia da genitori italiani. Nel 1906 si trasferì a studiare in Germania a Monaco, dove venne a contatto con la cultura tedesca più viva del momento. Si interessò alla filosofia di Nietzsche e Schopenhauer e fu molto colpito dalla pittura simbolista e decadente di Arnold Böcklin. Nel 1910 si trasferì a Parigi dove divenne amico del poeta Apollinaire, ma rimase estraneo al cubismo che, in quegli anni grazie a Picasso, rappresentava la grossa novità artistica parigina. Egli rimase comunque sempre estraneo alle avanguardie, nei quali manifestò spesso atteggiamenti polemici. In quegli anni dipinse molti dei suoi quadri più celebri che vanno sotto il nome di Piazze d’Italia. Si tratta di immagini di quinte architettoniche che definiscono spazi vuoti e silenziosi. Vi è la presenza di qualche statua e in lontananza si vedono treni che passano. L’atmosfera magica di queste immagini le fa sembrare visioni. Nel 1916, nell’ospedale militare di Ferrara, De Chirico incontrò Carrà, ed insieme elaborarono la teoria della pittura metafisica. Il termine metafisica nasce come allusione ad una realtà diversa che va oltre ciò che vediamo allorché gli oggetti o gli spazi, che conosciamo dalla nostra esperienza, sembrano rivelare un nuovo aspetto che ci sorprende. E così le cose che conosciamo prendono l’aspetto di enigmi, di misteri, di segreti inspiegabili. In questo periodo, oltre agli spazi architettonici, entrano nei soggetti dechirichiani anche i manichini. Questa forma umana, pur non essendo umana, si presta egregiamente a quell’assenza di vita che caratterizza la pittura metafisica. Anzi, per certi versi la esalta, data la visibile contraddizione tra ciò che sembra umano ma non lo è.
Arnold BöcklinL'isola dei morti, 1880-1886 Kunstmuseum, Basilea
Le muse inquietanti
Il dipinto Le Muse inquietanti fu realizzato nel 1917 quando Giorgio De Chirico, in piena guerra, si trovava a Ferrara. La città fornisce importanti spunti all’ispirazione dell’artista, dato che Ferrara, per la sua particolare conformazione urbanistica ed architettonica formatasi nel Rinascimento, rispecchiava molto fedelmente quello spirito di geometria ordinata presente in molti quadri di De Chirico: soprattutto quelli della cosiddetta serie delle “piazze d’Italia”. Ferrara, quindi, come città metafisica per eccellenza, fornisce la cornice ideale a questo che tra i quadri di De Chirico è sicuramente il più noto: una specie di “manifesto” della sua poetica metafisica. In questa tela compaiono gli elementi più usati dal De Chirico metafisico: spazi urbani vuoti con prospettive deformate e manichini al posto di persone. Entrambi gli elementi hanno la funzione di devitalizzare la realtà: sono forme prese dalla vita, ma che non vivono assolutamente. Ricordano la vita dopo che essa è passata e ha lasciato come traccia solo delle forme vuote. Il tema non è ovviamente la morte come fine della vita, ma quella eternità immobile e misteriosa che va oltre l’apparenza delle cose. La vita è continua modifica nel tempo: osservare questa dinamica è capire le leggi fisiche che regolano l’universo. Ma lo sguardo di De Chirico va oltre: vuol cogliere quel mistero insondabile che si nasconde dietro la conoscenza delle leggi fisiche.
le muse inquietanti, 1917 olio su tela, 97x66 coll. mattioli, milano
La scena del quadro è una piazza: essa tuttavia al posto della pavimentazione ha delle assi di legno che ci ricordano più l’immagine di un palco che di una piazza urbana. Sullo sfondo appare a destra il castello estense di Ferrara, sulla sinistra vi è invece una fabbrica con delle alte ciminiere. Esse rappresentano la polarità antico-moderno, ma entrambi gli edifici appaiono vuoti ed inutilizzati: il castello ha le finestre buie, segno che non è abitato, mentre la fabbrica ha ciminiere che non fumano, segno che in realtà non vi si svolge alcuna funzione lavorativa. Da notare che le due metà del quadro sono viste da due punti di vista diversi: un punto di vista alto per la parte inferiore, mentre la parte superiore è rappresentato da un punto di vista più basso. Il manichino in primo piano sulla sinistra ha la metà inferiore che ricorda le sottili e parallele pieghettature verticali delle vesti delle statue classiche di stile ionico: è questo un elemento che ci riporta all’infanzia del pittore trascorsa in Grecia. Da ricordare, inoltre, che la cultura greca classica ha fornito sempre una costante ispirazione, sia poetica che formale, a tutta l’attività pittorica di De Chirico, soprattutto quando il pittore abbandona nella maturità il suo stile metafisico. Un altro particolare è di grande riconoscibilità: l’altro manichino, quello in secondo piano seduto, ha la testa smontata ed appoggiata ai suoi piedi. Questa testa ricorda quelle maschere africane che fornirono grandi spunti artistici a Pablo Picasso Le muse erano quelle figure mitologiche che proteggevano le arti. Esse venivano invocate dagli artisti per ricevere ispirazione al loro fare artistico. Nel caso di De Chirico le muse sono "inquietanti" perché devono indicare quella strada che va oltre le apparenze e devono quindi farci dialogare con il mistero. Ma esse ci forniscono un’ultima indicazione delle scelte artistiche del pittore. La sua ispirazione, come abbiamo visto, ha più riferimenti geografici e culturali che egli riesce con facilità ad assimilare e far propri, sintetizzandoli in una dimensione temporale dove non conta il prima e il dopo. Ciò che egli decisamente rifiuta è quel concetto di modernità, secondo il quale ha maggior valore ciò che supera il passato per proiettarci nel futuro, o quel concetto di progresso, per cui i valori sono scanditi dalla maggiore o minore novità dell’opera prodotta. De Chirico mostra che per lui è più importante ispirarsi al passato che al presente, ma egli non è assolutamente un pittore neoclassico. Vuole semplicemente polemizzare con chi ha fatto del tempo o della velocità la nuova ispirazione dell’arte moderna, indicando come in realtà queste sono variabili effimere: il vero senso delle cose sta oltre il tempo
Manichino sartoriale
I manichini di De Chirico, evocativi e misteriosi, essendo privi di occhi, orecchie e bocca, evocano l'impossibilità di vedere, udire, parlare e sopratutto GIUDICARE. Tuttavia, ricordando i poeti e gli indovini della mitologia classica, richiamano anche la capacità superiore di indagare la realtà oltre la sua apparenza fenomenica.
due versioni
Ettore e Andromaca
Seconda versione di un quadro molto celebre di De Chirico, in questa tela il pittore trasforma in manichini due figure tratte dall’Iliade: l’eroe troiano Ettore (fratello di Paride) e sua moglie Andromaca. Le ispirazioni dal mondo greco, e soprattutto da una mitologia dai tratti metafisici, sarà sempre più presente nella produzione artistica di De Chirico, che, in tal modo, recupera uno degli elementi più forti del suo passato: l’infanzia trascorsa in Grecia. Due figure appaiono su una sorta di palcoscenico molto inclinato; la dimensione teatrale della scena è ulteriormente sottolineata da elementi laterali che fanno da quinta. Le figure, sostenute da una specie di impalcatura e da squadre di legno, sono del tutto incongrue. Solitamente definite ‘manichini’, sono in realtà assemblaggi eterogenei di elementi di legno. Prive delle braccia, si reggono su piedi minuscoli che in questa versione appoggiano su una base, interessante variazione che rende ancora più artificiale la rappresentazione. Le ombre lunghe dei manichini, che non sono coerenti con gli oggetti da cui sono proiettate, descrivono un tardo pomeriggio vuoto e silenzioso. Un’altra ombra sulla destra di chi guarda rivela un oggetto o un edificio che incombe sulla scena. Come negli altri dipinti metafisici di Giorgio de Chirico, è assente ogni traccia di presenze umane. Il tempo è immobile e l’epoca in cui si svolge la scena non è chiara.
Ettore e Andromaca
L’immagine appena descritta è ambigua, il suo significato è misterioso e l’unico indizio che parrebbe darle un senso è il titolo, che si riferisce a un episodio del VI libro dell’Iliade, ed è quindi parte di quel patrimonio culturale classico di cui de Chirico era profondamente intriso. L’artista fa riferimento alla drammatica scena del saluto tra Ettore e Andromaca, quando l’eroe ignorando le preghiere della sposa, decide di affrontare Achille in battaglia, perché non è da eroi restare in disparte, anche se questa scelta porterà alla scomparsa della discendenza di Priamo, e alla perdita per Andromaca di tutti i suoi cari. Il forte sentimentalismo messo in versi da Omero qui è completamente assente: nel mondo dechirichiano infatti gli aspetti narrativi ed emotivi scompaiono perché le vicende personali e la cronaca non hanno posto; gli aspetti fisici e i sentimenti sono trascurati a favore di quelli metafisici; quello che rimane della vicenda mitica è solo il senso di sospensione , di destino incombente e misterioso.
Pianto d'amore
l'enigma dell'ora
L'ENIGMA DELL'ORA, 1911 olio su tela, 55x71 cm coll. privata
l'enigma dell'ora
Fra i molti temi di cui si è occupata l’arte nei secoli, spicca certamente quello del tempo, affrontato con intenti e modalità assai differenti. Già la semplice rappresentazione del movimento si è sempre risolta, sin dall’antica Grecia, nel tentativo di cogliere l’attimo, di catturare il singolo istante di un processo durante il quale la figura o l’oggetto si spostano. Appartenente alla serie delle Piazze d’Italia, il quadro L’enigma dell’ora fu dipinto da De Chirico nel 1911: appartiene quindi al suo soggiorno parigino, quando il pittore, in disparte rispetto alle avanguardie storiche (ed in particolare rispetto al cubismo) propone un’espressione del tutto inedita. Gli elementi ricorrenti di queste tele sono spazi vuoti delimitati da edifici urbani. La vista è sempre prospettica, a volte centrale e a volte accidentale, ma mostra sempre dei voluti errori di costruzione geometrica: i punti di fuga, ed i corrispondenti punti di vista, sono sempre più di uno. In tal modo De Chirico introduce una deformazione nell’immagine che quasi inavvertitamente viene percepita dall’osservatore come un primo elemento di mistero. La scena che sembrava a prima vista scontata diviene inedita. In questi spazi vuoti è quasi sempre assente la figura umana; per lo più vengono inserite nelle piazze delle statue che spesso hanno una forma ironicamente classicheggiante. In questo quadro, a differenza di tanti altri, sono assenti le statue e presenti due figure umane: una donna è vista di spalle ed appare in primo piano, mentre un uomo è inserito nella seconda arcata da destra. In questo, come negli altri quadri della serie “Piazze d’Italia”, non vi è alcuna densità atmosferica: l’aria è sempre limpida e pulita. Sia il titolo dell’opera sia l’orologio al centro dell’immagine rimandano al tema fondamentale del dipinto: quello del tempo, a sua volta collegato alla dimensione dell’enigma, del mistero. L’orologio segna le 14.55 ma le ombre lunghe indicano, chiaramente, che la scena è immaginata nel tardo pomeriggio e comunque a un’ora crepuscolare. Non vi è quindi corrispondenza fra il tempo segnato dallo strumento meccanico e il tempo della vita, dell’esistenza.
L'ENIGMA DELL'ORA, 1911 olio su tela, 55x71 cm coll. privata
La luce quindi non si diffonde, rifrangendosi nell’atmosfera, ma ha una direzionalità precisa, creando una forte differenza tra zone chiaramente illuminate e ombre nette e oscure. Il titolo del quadro nasce probabilmente dalla volontà di De Chirico di rappresentare un orologio fermo. Appare tuttavia logico che, su un quadro, un orologio non potrà mai camminare. E così, guardando la raffigurazione di un orologio, non sapremo mai se funziona o non funziona. Tuttavia, è proprio la fermezza e l’immobilità di tutta l’immagine a suggerirci che anche l’orologio è fermo, anche se non lo sapremo mai. O forse esso è l’unica cosa che continua a muoversi, segnando un tempo senza senso, perché non produce più modificazioni nel corso delle cose. L’architettura del portico reca suggestioni architettoniche fiorentine: dallo Spedale degli Innocenti al Corridoio Vasariano. Essa tuttavia è ridotta all’essenziale, a forma geometrica pura senza alcuna decorazione superflua che ne renda identificabile l’appartenenza stilistica. Queste architetture dipinte di De Chirico sembrano cogliere uno spirito di classicità senza tempo. Sono delle forme pure che però conservano tutto ciò che il classico deve avere: armonia, ritmo, proporzione, equilibrio. E questi saranno anche i contenuti di quell’architettura classicista che, nel ventennio, divenne lo stile fascista in campo architettonico. E come luogo costruito, metafisico per eccellenza, ci rimane proprio l’Eur che, progettato per la grande Esposizione Universale di Roma del 1942, è la testimonianza più famosa dei gusti architettonici classicheggianti e "metafisici" del fascismo.
Brunelleschi, Lo Spedale degli Innocenti, 1445 - Firenze
Alberto Savinio
Alberto Savinio (Atene, 1891-Roma, 1952) il cui vero nome è Andrea De Chirico, fratello del celebre pittore metafisico, italianizzando il nome dello scrittore francese Albert Savin; fu poeta, letterato, musicista, commediografo, riversa nella pittura, come nella scrittura, la sua trasfigurazione mentale della realtà e recupera visivamente certi incubi dell’infanzia, certe inibizioni psichiche, che fanno parte di un mondo collettivo e che sono alla base delle sue “metamorfosi”. Il suo tipo di fantasia, la trasfigurazione in immagini dei suoi miti, il suo accostare immagini gigantesche in architetture in miniatura, quasi precari modellini in cartone, fanno parte della sua immaginazione, della sua accesa ironia. La sua espressione artistica si caratterizza per alcune tendenze particolari: il gusto del fantastico, dell'ignoto e della compenetrazione uomo-animale; lo smascheramento degli autoinganni e delle certezze borghesi; la tendenza alla parodia (specie di soggetti mitologici), all'ironia e al citazionismo. Queste ultime componenti lo differenziano in maniera decisiva dalle tonalità più radicali dell'avanguardia di primo Novecento. Si oppose per esempio al credo futurista della distruzione dei musei, o alla moda surrealista della scrittura automatica. Importante nella sua cultura fu il riferimento alla grecità classica. Personalità poliedrica, si dedicò in un primo momento alla musica e successivamente alla letteratura. Arrivò alla pittura tardi, iniziando a dipingere solo nel 1927 all’età di trentasei anni. La sua attività artistica inizia a Parigi in pieno surrealismo, movimento a cui aderisce nonostante il parere contrario del fratello Giorgio. Il suo stile rimane tuttavia molto singolare, situandosi a metà strada tra surrealismo e metafisica. La sua è una pittura ricca di significati simbolici e intessuta di notevoli riferimenti culturali, che richiedono un approccio colto per poter apprezzare appieno il suo stile. Uno dei tratti più tipici del suo stile è la metamorfosi uomo-animale che sottende le affinità caratteriali che possono esistere tra gli animali e l’uomo. Nei suoi quadri attua quindi una particolare metamorfosi tra uomini e animali, dove ad una struttura corporea decisamente umana si sovrappone una testa non umana
taglio pentagonale
che altera il tradizionale sistema percettivo del quadro
l'Annunciazione
Il dipinto, si presenta originale già per il suo formato: la tela non è rettangolare ma pentagonale per effetto del taglio dell’angolo superiore sinistro. Il campo dell’immagine è dominato dalla finestra da cui compare il faccione enorme dell’arcangelo Gabriele. La Madonna è seduta, in basso a sinistra, ed ha la caratteristica metamorfosi da donna a pellicano che Savinio aveva già utilizzato per il ritratto della propria madre. La finestra ha una deformazione tipica da espressionismo tedesco. È aperta su un cielo scuro e cupo. Da essa appare il volto dell’angelo, gigantesco nelle sue proporzioni, come il mistero di cui è simbolo. La Madonna ha la testa di pellicano, dato che esso è, già dal Medioevo, simbolo della bontà e dell’amore materno, perché si riteneva che il pellicano, in caso di necessità, fosse capace di svenarsi col becco e di nutrire la prole con il proprio sangue. L’Annunciazione è uno dei soggetti più rappresentati in assoluto nella storia dell’arte occidentale. L’immagine ha una iconografia e un suo significato religioso ben preciso, a cui si sono sempre attenuti tutti gli innumerevoli pittori che lo hanno rappresentato. Per la religione cattolica l’Annunciazione sta ad indicare che la nascita di Gesù non deriva da un normale concepimento, e in ciò già si manifesta la sua vera natura divina. Come tema pittorico l’Annunciazione scompare dalla scena artistica a partire dal XVIII secolo, quando gli artisti maggiori cominciano ad operare in una società più laica e con minore dipendenza dalla committenza ecclesiastica. Il tema dell’Annunciazione viene, in qualche caso, utilizzato più per il suo significato allegorico che non per il suo significato religioso.
il sacrificio del pellicano
le virtù teologali: la fede, la speranza e la carità
Piero della Francesca, Dittico di Urbino, Uffizi 1467–1472
Penelope, la madre di Giorgio e Andrea De Chirico
Penelope, 1940 circa, Tempera su cartone
“La visita”, 1930, olio su tela
la prima e l'ultima
Esame di stato
Filosofia: Max Horkheimer e la sua riflessione sul rapporto Uomo-Natura. Il concetto di alienazione in Karl Marx
Inglese: Dr Jekyll and Mr Hyde di Robert Louis Stevenson
Fisica: la doppia natura della luce
Storia:le trasformazioni economiche e sociali del secondo dopoguerra
LE METAMORFOSI
L’annunciazione di Alberto Savinio
Letteratura latina: Le Metamorfosi di Apuleio
Scienze naturali:le piante transgeniche e il mais Bt
Letteratura italiana: La pioggia nel pineto di Gabriele D’annunzio. Le metamorfosi di Kafka
Il Surrealismo
La nascita della psicologia moderna, grazie a Freud, ha fornito molte suggestioni alla produzione artistica della prima metà del Novecento. Soprattutto nei paesi dell’Europa centro settentrionale, le correnti pre-espressionistiche e espressionistiche hanno ampiamente utilizzato il concetto di inconscio per far emergere alcune delle caratteristiche più profonde dell’animo umano, di solito mascherate dall’ipocrisia della società borghese del tempo. Sempre da Freud, i pittori, che dettero vita al Surrealismo, presero un altro elemento che diede loro la possibilità di scandagliare e far emergere l’inconscio: il sogno. Il sogno è quella produzione psichica che ha luogo durante il sonno ed è caratterizzata da immagini, percezioni, emozioni che si svolgono in maniera irreale o illogica. O, per meglio dire, possono essere svincolate dalla normale catena logica degli eventi reali, mostrando situazioni che, in genere, nella realtà sono impossibili a verificarsi. Il primo studio sistematico sull’argomento risale al 1900, quando Freud pubblicò: «L’interpretazione dei sogni». Nel sonno, infatti, viene meno il controllo della coscienza sui pensieri dell’uomo e può quindi liberamente emergere il suo inconscio, travestendosi in immagini di tipo simbolico. La funzione interpretativa è necessaria per capire il messaggio che proviene dall’inconscio, in termini di desideri, pulsioni o malesseri e disagi. Il sogno propone soprattutto immagini: si svolge, quindi, secondo un linguaggio analogico. Di qui, spesso, la sua difficoltà ad essere tradotto in parole, ossia in un linguaggio logico. La produzione figurativa può, dunque, risultare più immediata per la rappresentazione diretta ed immediata del sogno. E da qui, nacque la teoria del Surrealismo. Il Surrealismo, come movimento artistico, nacque nel 1924. Alla sua nascita contribuirono in maniera determinante sia il Dadaismo sia la pittura Metafisica. Teorico del gruppo fu soprattutto lo scrittore André Breton. Fu egli, nel 1924, a redigere il Manifesto del Surrealismo. Egli mosse da Freud, per chiedersi come mai sul sogno, che rappresenta molta dell’attività di pensiero dell’uomo, visto che trascorriamo buona parte della nostra vita a dormire, ci si sia interessati così poco. Secondo Breton, bisogna cercare il modo di giungere ad una realtà superiore (appunto una surrealtà), in cui conciliare i due momenti fondamentali del pensiero umano: quello della veglia e quello del sogno. Il Surrealismo è dunque il processo mediante il quale si giunge a questa surrealtà. L’automatismo psichico significa quindi liberare la mente dai freni inibitori, razionali, morali, eccetera, così che il pensiero è libero di vagare secondo libere associazioni di immagini e di idee. In tal modo si riesce a portare in superficie quell’inconscio che altrimenti appare solo nel sogno. Al Surrealismo aderirono diversi pittori europei, tra i quali Max Ernst, Juan Mirò, René Magritte e Salvador Dalì. Non vi aderì Giorgio De Chirico, che pure aveva fornito con la sua pittura metafisica un contributo determinante alla nascita del movimento, mentre vi aderì, seppure con una certa originalità, il fratello Andrea, più noto con lo pseudonimo di Alberto Savinio.
le tecniche
La tecnica surrealista dello spostamento del senso è un movimento che pratica un’arte figurativa e non astratta. La sua figurazione non è ovviamente naturalistica, anche se ha con il naturalismo un dialogo serrato. E ciò per l’ovvio motivo che vuol trasfigurare la realtà, ma non negarla. L’approccio al surrealismo è stato diverso da artista ad artista, per le ovvie ragioni delle diversità personali di chi lo ha interpretato. Ma, in sostanza, possiamo suddividere la tecnica surrealista in due grosse categorie: quella degli accostamenti inconsueti e quella delle deformazioni irreali. Gli accostamenti inconsueti sono stati spiegati da Max Ernst, pittore e scultore surrealista. Egli, partendo da una frase del poeta Comte de Lautréamont: «bello come l’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo operatorio», spiegava che tale bellezza proveniva dall’«accoppiamento di due realtà in apparenza inconciliabili su un piano che in apparenza non è conveniente per esse». In sostanza, procedendo per libera associazione di idee, si uniscono cose e spazi tra loro apparentemente estranei per ricavarne una sensazione inedita. La bellezza surrealista nasce, allora, dal trovare due oggetti reali, veri, esistenti (l’ombrello e la macchina da cucire), che non hanno nulla in comune, assieme in un luogo ugualmente estraneo ad entrambi. Tale situazione genera una inattesa visione che sorprende per la sua assurdità e perché contraddice le nostre certezze. Le deformazioni irreali riguardano invece la categoria della metamorfosi. Le deformazioni espressionistiche nascevano dal procedimento della caricatura, ed erano tese alla accentuazione dei caratteri e delle sensazioni psicologiche. La metamorfosi è invece la trasformazione di un oggetto in un altro, come, ad esempio, delle donne che si trasformano in alberi o delle foglie che hanno forma di uccelli (Magritte). Entrambi questi procedimenti hanno un unico fine: lo spostamento del senso. Ossia la trasformazione delle immagini, che abitualmente siamo abituati a vedere in base al senso comune, in immagini che ci trasmettono l’idea di un diverso ordine della realtà.
Accostamenti inconsueti
Deformazioni irreali
il Surrealismo è sempre esistito?
Beato Angelico Cristo deriso, 1438-1440 Chiostro di San Marco, Firenze
Giotto, Rinuncia degli averi, 1292-1296 Basilica superiore di San Francesco Assisi
Renè Magritte
Il pittore belga René Magritte (1898-1967) è tra i pittori surrealisti più originali e famosi. Dopo aver studiato all’Accademia di Bruxelles, i suoi inizi di pittore si muovono nell’ambito delle avanguardie del Novecento, assimilando influenze dal cubismo e dal futurismo. Secondo quando egli stesso ha scritto, la svolta surrealista avvenne dopo aver visto il quadro di De Chirico «Canto d’amore», dove sul lato di un edificio sono accostati la testa enorme di una statua greca e un gigantesco guanto di lattice. Nel 1926 prese contatto con Breton, capo del movimento surrealista, e l’anno successivo si trasferì a Parigi, per restarvi tre anni. Dopo di che la sua vita artistica si è svolta interamente in Belgio. Magritte è l’artista surrealista che, più di ogni altro, gioca con gli spostamenti del senso, utilizzando sia gli accostamenti inconsueti, sia le deformazioni irreali. Ciò che invece è del tutto estraneo al suo metodo è l’automatismo psichico, in quanto egli, con la sua pittura, non per vuole far emergere l’inconscio dell’uomo ma vuole svelare i lati misteriosi dell’universo. Ed è proprio su questo punto che la sua poetica conserva lati molto affini con quelli della Metafisica In altri quadri Magritte gioca con il rapporto tra immagine naturalistica e realtà, proponendo immagini dove il quadro nel quadro ha lo stesso identico aspetto della realtà che rappresenta, al punto da confondersi con esso. Di notevole suggestione poetica sono anche i suoi accostamenti o le sue metamorfosi. Combina, nel medesimo quadro, cieli diurni e paesaggi notturni. Accosta, sospesi nel cielo, una nuvola ed un enorme masso di pietra. Trasforma gli animali in foglie o in pietra. Il suo surrealismo è dunque uno sguardo molto lucido e sveglio sulla realtà che lo circonda, dove non trovano spazio né il sogno né le pulsioni inconsce. L’unico desiderio che la sua pittura manifesta è quello di "sentire il silenzio del mondo", come egli stesso scrisse. In ciò quindi il surrealismo di Magritte si colloca agli antipodi di quello di Dalí, mancandovi qualsiasi esasperazione onirica o egocentrica.
G. De Chirico, Canto d'amore
Canto d’amore è una delle opere più note di de Chirico. La scena è ambientata all’aperto, sotto un cielo blu intenso. In primo piano, davanti a un muro che si erge al centro, compare la testa di una scultura, nella quale si riconosce un capolavoro dell’arte antica: l’Apollo del Belvedere. Sotto la statua, una sfera verde giace immobile sul terreno. Un guanto rosso di gomma, di proporzioni sorprendentemente grandi, è appeso al muro con un chiodo. Questo strano insieme di oggetti è delimitato a destra da un edificio con portici, che con le sue nitide arcate ricorda le architetture classiche. Sullo sfondo a sinistra, oltre un muretto di mattoni rossi, si scorge una locomotiva a vapore, che invece è un elemento di modernità. In quest’opera, l’accostamento di una scultura antica, una sfera e un guanto in gomma, sullo sfondo di una città senza tempo, suggerisce simbologie e associazioni inattese. La statua di Apollo rappresenta l’arte classica, ma essendo sottratta al suo contesto abituale evoca una dimensione nostalgica. La sfera, tradizionalmente considerata simbolo di perfetta armonia, è uno degli attributi del dio Apollo; in quest’immagine, però, appare come un oggetto inerte ed enigmatico, il cui senso rimane nascosto. Il guanto, che compare anche in altre opere dell’artista, è quasi un surrogato della presenza umana. La locomotiva, simbolo del viaggio, ha anche un’attinenza con la storia personale dell’artista: suo padre, ingegnere, progettava ferrovie, e l’immagine dei treni era familiare a de Chirico fin dalla più tenera età. Per la sua dimensione poetica e irrazionale, Canto d’amore avrà una grande influenza sui pittori surrealisti.
Giorgio De Chirico Canto d'amore , 1914 MOMA - NY
il tradimento delle immagini
Il tradimento delle immagini, 1928-29 olio su tela, 63,5×93,98 cm Los Angeles County Museum of Art, Los Angeles
il tradimento delle immagini
L'opera, contestando la raffigurazione della pipa (non si tratta di fatto di una pipa, bensì di una sua immagine), mira a mettere in risalto la differenza di tangibilità e consistenza che il mondo della realtà ha con quello dei segni, invitando nello stesso tempo alla riflessione sulla complessità del linguaggio. L'opera, realizzata quando l'artista aveva trent'anni, raffigura inequivocabilmente l'immagine di una pipa dipinta su uno sfondo monocromo, seguita da una sconcertante didascalia in un corsivo manierato ed elegante che afferma: «Ceci n'est pas une pipe», in italiano: «Questa non è una pipa». L'intento di Magritte è quello di sottolineare la differenza tra l'oggetto reale e la sua rappresentazione, rinnegando la pittura classica, secondo cui vi era un legame indissolubile tra l'immagine e la realtà. In effetti, malgrado alla domanda «che cos'è?» si risponda «una pipa», l'oggetto reale e la sua raffigurazione hanno proprietà e funzioni spiccatamente differenti. Questa dicotomia è stata sottolineata dallo stesso Magritte, che ha avuto modo di affermare: « Chi oserebbe pretendere che l'immagine di una pipa è una pipa? Chi potrebbe fumare la pipa del mio quadro? Nessuno. Quindi, non è una pipa ». Il concetto porta con sé una riflessione molto profonda sulle semplificazioni operate dalla comunicazione umana, con i suoi codici verbali e non verbali, che si adeguano alla realtà così da adempiere alle sue necessità pratiche ed operative. In effetti, Magritte era molto interessato nel dimostrare in chiave pittorica la fallacia e gli equivoci del linguaggio, abitualmente utilizzato - nonostante la sua intrinseca insufficienza rappresentativa - per descrivere la realtà. È così che, in una maniera lampante, quasi banale, viene svelata la vera natura dell'opera, ovvero il fatto che l'oggetto qui raffigurato, per quanto realistico, per tangibilità e consistenza non è affatto una pipa. «Ma non vedo niente di paradossale in quest'immagine, giacché l'immagine di una pipa non è una pipa, c'è una differenza», affermò nuovamente lo stesso Magritte.
Il tradimento delle immagini, 1928-29 olio su tela, 63,5×93,98 cm Los Angeles County Museum of Art, Los Angeles
la condizione umana
NO
Gli amanti
Il dipinto mostra il bacio di due amanti con i volti coperti da un drappo bianco; il volto coperto da un tessuto bianco compare in maniera ossessiva nelle sue opere e ciò sembra dovuto al fatto tragico che ha condizionato la vita dell’artista, ovvero il suicidio della madre, trovata annegata con la testa avvolta dalla camicia da notte, nel fiume accanto a casa, l'artista aveva solo 12 anni. Un ricordo indelebile, che si manifesta labilmente attraverso quella stoffa bianca che sembra soffocare un amore sul nascere. Il bacio tra i due amanti potrebbe rappresentare la morte che ostacola il corso di una storia d’amore. Il drappo bianco rappresenta l’ostacolo, l’impossibilità di comunicare, di incontrarsi, di guardarsi e conoscersi profondamente. Il panno bianco impedisce ai due amanti di conoscere l’interiorità dell’altro. Siamo di fronte ad un amore muto, incapace di un linguaggio diverso da quello del corpo, esprimendo una forte passione nonostante la mancanza di dialogo. L’intenzione di René Magritte è quella di sfidare le persone ad immaginare ciò che viene da lui celato e invita a non soffermarsi ad una visione superficiale. Il pittore crea un rapporto tra il rosso del muro e il rosso della camicia della donna. Questo rosso che spicca richiama il rosso del sangue e perciò della morte, facendo un altro riferimento alla morte suicida della madre. C’è quindi un’ombra di morte che accompagna l’evolversi di un sentimento e che viene ricordata da alcuni accenni cromatici nel dipinto. La donna indossa una camicetta rossa, rievocatrice di morte e sangue, mentre l’uomo è elegantemente vestito con un abito da cerimonia, solennemente funebre. È la celebrazione dell’intima unione che lega madre e figlio in un amore che valica i limiti spazio-temporali della morte e resta tenacemente ancorato a un ricordo. Non esiste tuttavia un’univoca e precisa definizione dell’identità degli amanti, che rimangono nascosti dietro un appellativo vago, ma linguisticamente perfetto per descrivere il sentimento condiviso.
René Magritte gli amanti,1928 Olio su tela 73 x 54 cm MoMA, New York
due versioni
L'Impero delle luci
L'impero delle luci è un tema ripetuto in 24 tele da René Magritte: diciassette dipinti a olio e sette a tempera costituiscono un gruppo di quadri collocati in vari musei e gallerie di tutto il mondo, la prima versione del 1949 è conservata a Basilea. Nello sfondo campeggia un cielo azzurro cosparso di vaporose nuvole bianche, invece in primo piano è stata rappresentata una strada buia con un lampione che rischiara debolmente un'abitazione immersa in un paesaggio cupo e puramente notturno. Le forme sono tridimensionali, la tecnica è impeccabile, quasi accademica, ma la particolarità del dipinto sta nella realtà che vi è rappresentata. L'opera accosta due momenti diversi, opposti tra loro: la metà superiore è vista in pieno giorno, quella inferiore di notte. La luminosità del sole è contrapposta alla sensazione di turbamento e "malessere" tradizionalmente collegato all'oscurità; l'obiettivo dell'artista è stato quello di creare un effetto di shock, di spaesamento nei confronti dello spettatore. In quest'opera Magritte usa il metodo dell'ossimoro, ovvero una figura retorica che consiste nell'accostare parole che esprimono concetti opposti; in questo caso l'immagine del giorno e della notte. L'artista ricostruisce una procedura tipica dei sogni (è nota infatti l'influenza delle teorie freudiane sugli artisti surrealisti come Magritte; il sogno è visto come l'essenza dell'uomo e per questo la sua rappresentazione diventa fondamentale
L'impero delle luci,1953-1954 olio su tela, 195,4×131,2 cm Peggy Guggenheim Collection, Venezia
«Dopo aver dipinto L’empire des lumières, ho avuto l’idea della notte e del giorno che esistono insieme, come fossero una sola cosa. E’ ragionevole: nel mondo il giorno e la notte esistono nello stesso tempo. Proprio come la tristezza esiste sempre in alcune persone e allo stesso tempo la felicità esiste in altre» Così Magritte spiegava il dipinto a un amico nel 1966.
L'impero delle luci,1953-1954 olio su tela, 195,4×131,2 cm Peggy Guggenheim, Venezia
L'impero delle luci, 1954 Museo reale delle belle arti del Belgio Bruxelles
L'impero delle luci, 1949 foundation Bayeler, Basilea
Settembre 2024
Esame di stato
Inglese: Dr. Jekyll and Mr Hyde di Stevenson
Filosofia: la doppia impossibilità di Kierkegaard
fisica: la doppia natura della luce. Le caratteristiche dei fotoni e l’effetto fotoelettrico.
Storia: lla sinistra storica in Italia e il governo Depretis. La politica ambivalente di Crispi.
L’ impero delle luci di Magritte. Gli accostamenti inconsueti e le deformazioni reali nel surrealismo.
Educazione civica: il bicameralismo perfetto
Letteratura latina: Traina e il linguaggio drammatico del filosofo Seneca
Scienze naturali: la chiralità
IL DOPPIO
Letteratura italiana: Contini e il linguaggio di Pascoli
le vacanze di Hegel
Pare che René Magritte amasse coinvolgere i suoi amici nel processo di titolazione delle sue opere, chiedendo loro suggerimenti e idee. Tuttavia, come racconta sua moglie Georgette, spesso il giorno dopo Magritte non era più soddisfatto delle proposte ricevute e preferiva scegliere un nome che sentiva più suo, più personale. Questo dimostra quanto l’artista fosse attento alla sua intuizione e desideroso di mantenere il controllo creativo, anche nel processo di denominazione delle sue opere. Nel 1958, Magritte dipinse il quadro che trae ispirazione da concetti filosofici, in particolare da Hegel. Questa tela rappresenta un esempio affascinante di come Magritte abbia combinato un problema tecnico con la sua immaginazione per trovare una soluzione visiva. Mentre disegnava un bicchiere, notò una linea che ricordava un ombrello, e provò a inserirlo all’interno del disegno. Il risultato non gli piacque, così decise di posizionare l’ombrello aperto sotto il bicchiere, e questa soluzione funzionò perfettamente! È un esempio di come l’artista usasse l’arte come un gioco di sperimentazione, trovando soluzioni creative attraverso l’immaginazione. Hegel è stato uno dei più grandi filosofi della razionalità, famoso per l’affermazione “Tutto ciò che è reale è razionale”. Magritte, che conosceva bene il pensiero hegeliano, ha deciso di “mettere in vacanza” il filosofo, giocando con questa idea. In modo scherzoso, l’artista ha immaginato Hegel in una sorta di pausa, lontano dalla sua razionalità, mentre si diverte con un oggetto che ha funzioni opposte: respingere e catturare l’acqua. È come se Magritte volesse suggerire che anche la filosofia più rigorosa può essere soggetta a un tocco di immaginazione e leggerezza. In una lettera a Maurice Rapin del 22 maggio 1958, Magritte descrive così il quadro: “Credo che al filosofo un oggetto come questo, che svolge due funzioni contrapposte, quella di respingere e di catturare acqua, sarebbe piaciuto. Lo avrebbe sicuramente divertito, come ci si può divertire in vacanza.” Questa frase rivela come l’artista vivesse il suo lavoro come un gioco intellettuale, un modo per mettere in discussione e reinterpretare le idee filosofiche attraverso l’arte.
Le vacanze di Hegel, 1958collezione privata
yo soy Salvador Dalì
Salvador Dalì
Salvador Domènec Felip Jacint Dalí i Domènech, marchese di Púbol (Figueres, 11 maggio 1904 – Figueres, 23 gennaio 1989), è stato un pittore, scultore, scrittore, fotografo, cineasta, designer e sceneggiatore spagnolo. Dalí fu un pittore abile e virtuosissimo disegnatore, ma celebre anche per le immagini suggestive e bizzarre delle sue opere surrealiste. Il suo peculiare tocco pittorico fu attribuito all'influenza che ebbero su di lui i maestri del Rinascimento. Il talento artistico di Dalí trovò espressione in svariati ambiti, tra cui il cinema, la scultura e la fotografia, portandolo a collaborare con artisti di ogni settore. Dalí, dotato di una grande immaginazione e con il vezzo di assumere atteggiamenti stravaganti, irritò coloro che hanno amato la sua arte e infastidì i suoi detrattori, in quanto i suoi modi eccentrici hanno in alcuni casi catturato l'attenzione più delle sue opere. Suo fratello maggiore, anch'egli di nome Salvador, era morto di meningite poco tempo prima. Il padre, avvocato e notaio, era affetto da rigidità nell'applicazione della disciplina, temperata dalla moglie, che incoraggiò le aspirazioni artistiche del figlio. A cinque anni Dalí fu condotto sulla tomba del fratello dai genitori, i quali gli fecero credere di esserne la reincarnazione, delirio del quale si convinse e lo fece impazzire. Di suo fratello Dalí disse: "Ci somigliavamo come due gocce d'acqua, ma rilasciavamo riflessi diversi. Probabilmente lui era una prima versione di me, ma concepito in termini assoluti". Dalì era talmente afflitto dalla morte di suo fratello che alcune notti andava alla tomba a pregare per ore. Diventò intimo amico di Federico García Lorca. L'amicizia con García Lorca era un autentico trasporto amoroso reciproco, anche se Dalí respinse vigorosamente gli approcci erotici del poeta. Nel 1926 Dalí fu espulso dall'Accademia poco prima di sostenere gli esami finali, poiché aveva affermato che nessuno nell'istituto era abbastanza competente da esaminare uno come lui. A Parigi incontrò Pablo Picasso, che ammirava profondamente. Picasso aveva già sentito parlare molto bene di Dalí da Joan Miró. Si serviva sia di tecniche classiche che moderne, talvolta impiegandole di volta in volta in opere singole, talvolta usandole tutte nello stesso dipinto. A Barcellona le esposizioni delle sue opere attrassero attenzione, e i critici si divisero tra entusiasti e parecchio perplessi. Dalí si fece crescere vistosi baffi, ispirati a quelli del grande maestro del Seicento spagnolo Diego Velázquez, e finirono per diventare un tratto inconfondibile e caratteristico del suo aspetto per il resto della vita.
i baffi di Dalì
Diego Velázquez (Siviglia, 6 giugno 1599 - Madrid, 6 agosto 1660)
salvad r
(Kazan', 7 settembre 1894 – Portlligat, 10 giugno 1982)
La persistenza della memoria
La Persistenza della memoria, 1931 olio su tela, 24 cm x 33 cm MOMA
La persistenza della memoria
Opera surrealista per antonomasia, La persistenza della memoria raffigura una landa deserta dominata dalla presenza di alcuni orologi molli, dalla consistenza quasi fluida, simboli dell'elasticità del tempo. Dalì realizzò La persistenza della memoria nel 1931 in sole due ore e in circostanze molto particolari. L'artista, infatti, afflitto da un'improvvisa emicrania, fu impossibilitato ad accompagnare la moglie Gala al cinema; costretto a casa, l'opera gli venne suggerita dall'«ipermollezza» del formaggio che stava consumando a tavola, che gli suggerì una riflessione di natura filosofica sullo scorrere del tempo. La persistenza della memoria raffigura un paesaggio costiero della costa Brava, nei pressi di Port Lligat, dominato da un cielo dalle sfumature gialle e celesti. La scena, disabitata e scevra di ogni vegetazione, è inspiegabilmente popolata da diversi oggetti: un parallelepipedo color terra, un ulivo senza foglie (forse senza vita) che sorge su quest'ultimo, un occhio dalle lunghe ciglia addormentato e un plinto blu sullo sfondo, che fa pendant al mare retrostante. L'attenzione dell'osservatore, tuttavia, è catturata dai tre orologi molli, quasi liquefatti, che di fatto sono i protagonisti della scena. Squagliandosi, questi assumono la foggia dei loro sostegni: il primo ha una mosca su di esso e scivola oltre il bordo del volume squadrato collocato in primo piano, il secondo è sospeso sull'unico ramo dell'albero secco appoggiato sul parallelepipedo, e il terzo è avvolto a spirale sulla timida figura embrionale colante sul suolo. Un quarto orologio, l'unico ad essere rimasto allo stato solido, è collocato sempre sul parallelepipedo ed è ricoperto di formiche nere brulicanti; l'artista catalano ha da sempre nutrito una fobia verso questi insetti, sin da quando ancora bambino li vide divorare un coleottero.Il dipinto, inizialmente denominato Gli orologi molli, fu acquistato nel 1932 dal gallerista Julien Levy; quest'ultimo lo espose nella propria galleria d'arte a New York, assegnandoli il nuovo titolo La persistenza della memoria e facendo crescere sensibilmente la fortuna critica dell'artista catalano. Nel 1934 l'opera fu acquistata al prezzo di 350 dollari dal Museum of Modern Art, dove è tuttora esposta.
La Persistenza della memoria, 1931 olio su tela, 24 cm x 33 cm MOMA, NY
Dettagli
L'orologio più a sinistra, l'unico non molle, è invaso dalle formiche, una delle fobie personali di Dalí, interpretate in maniera pacifica come il simbolo del decadimento. La mosca sull'orologio sul tavolo, invece, lascia pensare che il tempo non solo si liquefa, ma imputridisce.
Il camembert è un formaggio francese a pasta molle e crosta fiorita prodotto in Normandia, considerato uno degli emblemi gastronomici della Francia.
La percezione soggettiva del tempo è elastica
Minuti che non passano mai e ore che volano in un baleno: sono sensazioni che abbiamo sperimentato tutti. L'elasticità del tempo è una percezione soggettiva da parte dell'individuo. Avvertiamo i tempi dilatarsi o contrarsi a seconda delle emozioni prevalenti, dell’intensità degli stimoli, dell’attività immaginativa in cui siamo impegnati, e persino della temperatura corporea.«il tempo vola quando ci si diverte», «se guardi l’acqua non bolle mai» e «il tempo accelera col passare degli anni» Avete mai provato a passare un giorno senza mai guardare che ora è? Difficile. In vacanza le giornate volano, ma quando ci ripensiamo sembrano eterne come quando siamo malati o tristi. Di questo tema si sono occupati approfonditamente biologi, psicologi, filosofi, scrittori e neuroscienziati, e proprio attingendo a studi, esperimenti e ricerche, ma anche a riflessioni e romanzi. Un apporto fondamentale per comprendere i meccanismi che governano un’esperienza fluida, mutevole e imprendibile, creata in modo costante e sempre nuovo dalla nostra mente.
Esame di stato
Inglese: the stream of consciousness in Virginia Woolf and James Joyce
Filosofia: Freud e la psicoanalisi
fisica: la relatività del tempo, la dilatazione del tempo Einstein, la crisi dello spazio e del tempo
Storia: la guerra lampo
Salvador Dalì:La persistenza della memoria
IL TEMPO
Scienze naturali: il tempo di latenza nell’infezione da HIV
Letteratura latina: la visione introspettiva della persona nelle Confessioni di Sant’ Agostino. Seneca la brevità della vita e gli “affaccendati”
Letteratura italiana: il viaggio introspettivo ne il fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello, la coscienza di Zeno di Italo Svevo
NO
Apparizione del volto e del piatto di frutta sulla spiaggia, 1938olio su tela, 114,5×148,8 cm The Wadsworth Atheneum, Hartford
L'ultima cena
L’ultima Cena, 1955olio su tela, 167 cm × 268 cm, National Gallery of Art di Washington
L'ultima cena
La pittura di Dalì oscilla fra il sacro ed il profano, sconvolgendo la classica iconografia tradizionale e utilizzando simboli esoterici difficili da interpretare. L’autore si ispira sicuramente al famosissimo affresco di Leonardo Da Vinci e ad altri esempi pittorici di celebri artisti che trattano il tema topico dell’arte sacra. Dalí, con questo dipinto, sconvolge i canoni della classica iconografia tradizionale. Nella sua tela, il pittore raffigura Gesù donandogli sembianze androgine, attribuendogli i lineamenti di Gala, la moglie di Dalì. Questa provocazione venne definita blasfema dal mondo cattolico e suscitò un comprensibile scandalo alla sua prima esposizione. Nel dipinto si può notare come la figura del Cristo risulti essere attraversata da una intensa sorgente luminosa che proviene dall’incantevole paesaggio alle sue spalle, rappresentato dalla baia di Port Lligat, sita nelle vicinanze della casa del pittore. Gesù risulta quindi apparentemente seduto a tavola con i discepoli, mentre invece si trova immerso nell’acqua. Si può notare come Gesù indica, alzando le dita, che esiste un Dio nell’alto dei cieli, lasciando presagire di essere ormai pronto alla sua partenza per il regno celeste. In questa raffigurazione del pittore spagnolo, Gesù sta dunque abbandonando gli apostoli ben prima della crocifissione. I dodici apostoli sono collocati in modo perfettamente simmetrico attorno al Maestro. I loro volti però non sono ben visibili, poiché in quel particolare momento si trovano genuflessi in preghiera. È impossibile quindi riconoscere chi tra di essi sia Giuda, l’uomo simbolo del tradimento perpetrato ai danni di Gesù Cristo. Gli apostoli vengono raffigurati con le loro vesti candide durante l’ultima cena, la tavola è spoglia e poco imbandita. Si può scorgere solo un pane spezzato e un calice (o meglio, un bicchiere) di vino. Alle spalle del Cristo si intravede una figura umana a dorso nudo che simboleggia Dio, il cui volto è invisibile. Si tratta di un palese richiamo ad un altro soggetto dell’arte sacra, quello della trasfigurazione. L’ambientazione è assolutamente singolare: la scena dell’Ultima cena di Dalì si svolge all’interno di un dodecaedro. Il poliedro che fa da sfondo alla scena ha quindi dodici facce: dodici come il numero degli apostoli. Dalì prende spunto dalla cosmologia aritmetica e filosofica basata sulla mistica e sublime paranoia del numero dodici: così facendo accosta la figura del Cristo a strutture matematiche, che permettono di proiettare la vita terrena di Gesù in una dimensione metafisica.
Dodecaedro - solido platonico
Secondo le idee platoniche, l'universo aveva la forma di un solido con 12 facce (12 come gli apostoli), un dodecaedro appunto, potendo così affermare che «Dio geometrizza sempre».
Leonardo da Vinci, Ultima cena, 1495–1498 Pittura a tempera, Mastice di Chios, Pece, Gesso, 4,6 m x 8,8 m Santa Maria delle Grazie, Milano
Sogno causato dal volo di un'ape, intorno a una melagrana, un attimo prima del risveglio
1944, olio su tela, 51×41 cm Thyssen, Madrid
Sogno causato dal volo di un'ape intorno a una melagrana un attimo prima del risveglio
L'artista spagnolo crea immagini che nascono da sogni, fobie, ossessioni. Dipinte con estrema precisione e verosimiglianza, le sue opere disorientano l’osservatore, che si trova di fronte a una sorta di realtà parallela. Dalí dichiara più volte il suo intento di immortalare la vita onirica, realizzando quelle che lui chiama “fotografie di sogni dipinte a mano”. In quest’opera eseguita nel 1944, Dalí fa qualcosa di più: illustra uno dei meccanismi mentali indagati da Freud: l’effetto che uno stimolo esterno, percepito durante il sonno, produce su ciò che stiamo sognando. In primo piano, distesa e quasi fluttuante sopra uno scoglio, compare una figura femminile: è Gala, la compagna dell’artista, ritratta qui mentre dorme nuda con le braccia stese dietro la testa. Alla sua sinistra, un’ape ronza intorno a una piccola melagrana matura, anch’essa sospesa a mezz’aria. A destra, invece, si nota una baionetta dalla punta acuminata, che sta per pungere il braccio della donna. In alto, una sequenza di immagini stupisce per l’assurdità tipica della vita onirica: a sinistra, un’enorme melagrana si squarcia, generando un gigantesco pesce rosso. Dalle fauci del pesce erompe una coppia di tigri aggressive, che sembrano avventarsi su Gala. Sullo sfondo, un elefante cammina sulle acque, sostenuto da lunghissime zampe filiformi, simili a quelle di un insetto. Sulla schiena porta un obelisco. Quest’immagine compare in altre opere di Dalí; è la sua personale rielaborazione di una scultura del Seicento: la base dell’obelisco di Piazza di Santa Maria sopra Minerva a Roma, progettata da Gian Lorenzo Bernini. Come indica il titolo, l’opera raffigura un sogno causato da uno stimolo esterno avvertito nel sonno. La donna, mentre dorme, sente il ronzio di un’ape. Questo suono genera l’immagine del pungiglione, che nel sogno diventa una baionetta. E il senso di pericolo genera l’immagine delle due tigri, nere e gialle come l’ape. Le altre figure scaturiscono da una serie di associazioni tipiche della sfera inconscia, come spesso accade nelle opere di Dalí. Il dipinto è conservato a Madrid, al Museo Thyssen-Bornemisza.
Sogno causato dal volo di un'ape intorno a una melagrana un attimo prima del risveglio, 1944 olio su tela, 51×41 cm Museo Thyssen, Madrid
Esame di stato
Inglese:Dubliners of James Joyce
Filosofia: Freud e la psicanalisi
Fisica:crisi della fisica classica. La radazione del corpo nero
Storia: I have a dream di Martin Luther King
il surrealismo di Dalì. Analisi dell’opera Sogno causato dal volo di un’ape intorno a una melagrana un attimo prima del risveglio
IL SOGNO/ LA PSICOANALISI
Scienze naturali:DNA finger-printing
Letteratura latina: Epistulae morales ad Lucilium di Seneca; il Satyricon di Petronio
Letteratura italiana: La psicanalisi ne La Coscienza di Zeno di Italo Svevo
Il Cristo di San Juan de la Cruz
Come il nucleo dell’atomoche esplode (sono ancora impressioni descritte da Dalì), Gesù crocifisso si pone nella storia e nel cosmo come la più grande energia, capace di ricostruire dal di dentro l’universo. L’ardito scorcio che caratterizza la parte superiore del quadro cambia direzione nella zona inferiore, per far emergere un paesaggio, quello di Port Lligat in Spagna, con un lago, una barca e dei pescatori: un riferimento alla realtà storica e ambientale che non esclude una possibile allusione alla barca di Pietro, cioè la Chiesa, che riceve luce per navigare nel mondo, dove è inviata per illuminare le genti.
Spettacolare è l’effetto prodotto da questo dipinto, oggi custodito nel Kelvingrove Art Gallery and Museum di Glasgow. Ciò dipende da un’intuizione geniale: Gesù crocifisso non è visto da sotto in su né in posizione frontale, come lo potrebbe osservare qualsiasi persona umana, ma è considerato dall’alto verso il basso, cioè come lo vede Dio Padre! Questa intuizione non è originale di Salvador Dalì. Il pittore catalano, infatti, disse di essersi ispirato a un disegno di un grande santo spagnolo del Cinquecento, San Giovanni della Croce, e da un sogno: Dalì vede Gesù senza corona di spine, con il corpo perfetto e privo di ferite, aderente al legno della croce ma senza chiodi. La croce è protesa verso il basso e sospesa immobile in uno spazio oscuro che si illumina nella parte inferiore a definire un preciso paesaggio. La terra riceve luce dal cielo e anche il Cristo è illuminato dall’alto, così che il suo braccio sinistro proietta l’ombra sul legno del patibolo. È dunque l’Eterno Padre la sorgente di luce che illumina il mondo e rende ragione della morte del Figlio.
Il Cristo di San Juan de la Cruz, 1951 olio su tela, 205×116 cm Kelvingrove Art Gallery and Museum, Glasgow
seconda versione
Corpus Hypercubus (Crocifissione), 1954, olio su tela, 194,4 x 123,9 cm New York, The Metropolitan Museum of Art
l'influenza di Salvador Dalì nell'arredamento e nel design
Divano “Labbra di Mae West” (1937)
Tavolo LEDA, (Leda Table) 1939
Venere a cassetti, Venus de Milo aux tiroirs, 1936
Telefono aragosta,1938
https://www.youtube.com/watch?v=TA7esbxbuLI
Frida Kahlo
Frida Kahlo, all'anagrafe Magdalena Carmen Frida Kahlo y Calderón (Coyoacán, 6 luglio 1907 – Coyoacán, 13 luglio 1954), Frida fu una pittrice dalla vita travagliata. Le piaceva dire di essere nata nel 1910, poiché si sentiva profondamente figlia della rivoluzione messicana di quell'anno e del Messico moderno. La sua attività artistica ha avuto di recente una rivalutazione, in particolare in Europa, con l'allestimento di numerose mostre. Affetta da spina bifida, che i genitori e le persone intorno a lei scambiarono per poliomielite (ne era affetta anche sua sorella minore), fin dall'adolescenza manifestò una personalità molto forte, unita a un singolare talento artistico e uno spirito indipendente e passionale, riluttante verso ogni convenzione sociale. Un evento terribile, il 17 settembre 1925, all'età di 18 anni, cambiò drasticamente la sua vita e la rinchiuse in una profonda solitudine che ebbe solo l'arte come unica finestra sul mondo. Frida all'uscita di scuola salì su un autobus per tornare a casa e pochi minuti dopo rimase vittima di un incidente causato dal veicolo su cui viaggiava ed un tram. L'autobus finì schiacciato contro un muro. Le conseguenze dell'incidente furono gravissime per Frida: la colonna vertebrale le si spezzò in tre punti nella regione lombare; si frantumò il collo del femore e le costole; la gamba sinistra riportò 11 fratture; il piede destro rimase slogato e schiacciato; la spalla sinistra restò lussata e l'osso pelvico spezzato in tre punti. Dimessa dall'ospedale, fu costretta ad anni di riposo nel letto di casa, col busto ingessato. Questa situazione la spinse a leggere libri sul movimento comunista e a dipingere. Il suo primo lavoro fu un autoritratto, che donò al ragazzo di cui era innamorata. Da ciò la scelta dei genitori di regalarle un letto a baldacchino con uno specchio sul soffitto, in modo che potesse vedersi, e dei colori. Iniziò così la serie di autoritratti. "Dipingo me stessa perché passo molto tempo da sola e sono il soggetto che conosco meglio" affermò. Dopo che le fu rimosso il gesso riuscì a camminare, con dolori che sopportò per tutta la vita. Fatta dell'arte la sua ragion d'essere, per contribuire finanziariamente alla sua famiglia, un giorno decise di sottoporre i suoi dipinti a Diego Rivera, illustre pittore dell'epoca, per avere una sua critica .
Casa Azul
(Casa Blu) Coyoacán
Rivera rimase assai colpito dallo stile moderno di Frida, tanto che la prese sotto la propria ala e la inserì nella scena politica e culturale messicana. Divenne un'attivista del Partito Comunista Messicano a cui si iscrisse nel 1928. Partecipò a numerose manifestazioni e nel frattempo si innamorò di Diego Rivera. Nel 1929 lo sposò (lui era al terzo matrimonio), pur sapendo dei continui tradimenti a cui sarebbe andata incontro. Conseguentemente alle sofferenze sentimentali ebbe anche lei numerosi rapporti extraconiugali, comprese varie esperienze omosessuali. A partire dal 1938 l'attività pittorica s'intensifica: i suoi dipinti non si limitano più alla semplice descrizione degli incidenti della sua vita, parlano del suo stato interiore e del suo modo di percepire la relazione con il mondo e quasi tutti includono tra i soggetti un bambino, sua personificazione. Per un breve periodo nelle sue opere gli elementi della tradizione messicana classica si uniscono a quelli della produzione surrealista. Nel 1938 il poeta e saggista surrealista André Breton vide per la prima volta il suo lavoro: ne rimase talmente colpito da proporle una mostra a Parigi e proclamò che Frida fosse "una surrealista creatasi con le proprie mani". Nel 1939, su invito di André Breton, si recò a Parigi, dove le sue opere vennero presentate in una mostra a lei dedicata. Nella stessa città Frida frequenta i surrealisti facendosi scortare nei caffè degli artisti e nei night club; tuttavia trovò la città decadente. Sapeva che l'etichetta surrealista le avrebbe portato l'approvazione dei critici, ma allo stesso tempo le piaceva l'idea di essere considerata un'artista originale. In ogni caso, nonostante l'accento posto sul dolore, sull'erotismo represso e sull'uso di figure ibride, la visione di Frida era ben lontana da quella surrealista: la sua immaginazione non era un modo per uscire dalla logica ed immergersi nel subconscio, ma piuttosto il prodotto della sua vita che lei cercava di rendere accessibile attraverso un simbolismo. La sua idea di surrealismo era giocosa, diceva che esso "è la magica sorpresa di trovare un leone nell'armadio, dove eri sicuro di trovare le camicie". Anni dopo Frida negherà violentemente di aver preso parte al movimento, forse perché negli anni quaranta questo cessò di essere di moda. Pochi anni prima della sua morte le venne amputata la gamba destra, ormai in cancrena. Morì di embolia polmonare a 47 anni nel 1954. Fu cremata e le sue ceneri sono conservate nella sua Casa Azul, oggi sede del Museo Frida Kahlo. Le ultime parole che scrisse nel diario furono: "Spero che la fine sia gioiosa e spero di non tornare mai più."
Frida e Diego
l'elefante e la colomba
primo matrimonio 1929/1939
El elefante y la paloma
Frida
Frida e A. Breton
Frida Kahlo e Lev Trotsky, 1937
Fra le tante amanti o amiche intime di Kahlo si possono ricordare: la rivoluzionaria cubana Teresa Proenza, Elena Vàsquez Gòmez, l’artista Machila Armida, la poetessa Pita Amor, la cantante Chavela Vargas, con la quale convisse per un certo periodo, l’attrice Maria Félix e la fotografa italiana Tina Modotti.
Quel che l’acqua mi ha dato
(What the Water Gave Me), 1938 olio su tela, 91 x 70,5 cm collezione privata
Quel che l’acqua mi ha dato
Quel che l’acqua mi ha dato, non è solo un quadro. È un flusso di coscienza, un sommario dell’opera di Frida Kahlo, della sua vita e dei suoi traumi. È lo specchio dei suoi sogni ed incubi, un compendio del suo passato ed un punto di partenza per i suoi quadri futuri. Ricorrono gli elementi chiave della sua opera: le origini, le radici, la tradizione messicana, i simboli, il dolore. Ci sono dettagli presi da alcuni quadri precedenti, ed altri che invece si ripresenteranno nei prossimi, ad anni di distanza, come se fra le immagini emerse dall’acqua ci fossero anche premonizioni, idee in divenire. Il grande assente è il marito, Diego Rivera, quasi un’accettazione da parte dell’artista dell’inevitabilità del loro divorzio, che infatti avverrà nel 1939. Manca anche il suo autoritratto, leitmotiv della sua opera; non c’è nemmeno una figura dalle sopracciglia accentuate, che di solito serve ad indicare la sua presenza. La traccia è nel piede destro, reso deforme dalla polio e, almeno nel quadro, ferito. È così che sappiamo che quei piedi sono i suoi, che le immagini che affiorano dall’acqua sono sue. Ma per saperlo, per capirlo, dobbiamo condividere il suo punto di vista, guardando quei piedi come se fossero i nostri – e questa è forse la chiave non solo del quadro, ma dell’opera intera di Frida Kahlo. Ed è per questo che, per vedere appieno ciò che le ha dato l’acqua, in quella stessa vasca, in quella stessa acqua, in qualche modo dobbiamo entrarci anche noi. Anche a costo di inventaci una storia che di vero non ha quasi niente Si lascia andare. Appoggia la schiena, inclina la testa contro il bordo, stira le gambe. Permette all’acqua di accoglierla. L’acqua avvolge, l’acqua trasporta, l’acqua purifica, l’acqua consacra. L’acqua fa brillare le sue cicatrici come se fossero di nuovo fresche, l’acqua fa emergere ricordi e paure. La sua infanzia, la sua famiglia, le sue radici al di là dell’oceano. Un grattacielo, come quelli di cui è circondata qui a New York. Vulcani e fiori di cactus, scheletri e conchiglie. Un vestito che fluttua in superficie. L’acqua uccide. Un uomo con una maschera, un corpo (un cadavere?) di donna gonfio e giallastro, una corda intorno al collo. Su essa sta in bilico un minuscolo acrobata, in compagnia di ragni e di vermi. E poi le sue gambe, i suoi piedi dalle unghie laccate di rosso.
Quel che l’acqua mi ha dato, 1938 (What the Water Gave Me) olio su tela, 91 x 70,5 cm collezione privata
Frida nuda e morente, strangolata da una corda su cui camminano degli insetti e degli equilibristi che stanno ad indicare il suo tragico destino e le sue condizioni fisiche che l’hanno costretta a vivere un’esistenza colma di sofferenze; vi è del sangue anche sul piede destro che esce dalla vasca; accanto alla donna vi è un tipico abito messicano, indumento con cui era solita coprire il suo corpo e dunque tutte le sue ferite, le sue cicatrici; sul lato destro vediamo un uomo con dei baffi neri e una donna al suo fianco che rappresentano i genitori di Frida, pilastri fondamentali della sua vita; su un letto vi è Frida in compagnia di un’altra donna e sono entrambe nude, ciò sta ad indicare le relazioni omosessuali che talvolta lei intraprendeva; dietro un vulcano in fiamme dove un grattacielo viene assorbito e ai piedi del vulcano vi è seduto uno scheletro; accanto al vulcano sul lato sinistro vi è poi un albero spoglio con un uccello steso sui rami (il viaggio non andato a buon fine), quasi come se stesse morendo; entrambe le immagini rappresentano sia il suo presente che il suo futuro e il suo stato di salute che via via andò ad aggravarsi. Questo quadro è come uno specchio della sua esistenza: è come se lei guardasse l’acqua e vedesse tutto ciò che l’ha caratterizzata e che ha contribuito a renderla la persona che era; un po’ come Narciso quando si specchiò e vide il suo riflesso. Qui invece vi è il riflesso di una vita intera, composta più che altro da dispiaceri.
il divorzio e il secondo matrimonio
Divorziano nel 1939 a causa del tradimento di Rivera con Cristina, sorella di Frida. Non passa molto tempo e i due si riavvicinano; si risposano nel 1940 a San Francisco.
NO
Cervo ferito, 1946colore ad olio, 30x23 cm coll. privata, Texas
Casa di Diego e Frida
La casa studio di Diego e Frida non è la tradizionale rappresentazione di casa intesa come focolare domestico, ma è altresì il racconto delle loro vite, della loro storia d’amore e di arte. Nel 1931 Diego ne commissiona la progettazione all’architetto J. O’Gorman. L'architetto progettò una delle prime strutture architettoniche funzionaliste dell’America Latina e a proposito della sua opera disse che “la casa fece molto scalpore perché mai fino ad allora si era vista in Messico una costruzione la cui forma derivasse totalmente dalla funzione”. La casa di Diego Rivera e Frida Kahlo In questa foto si vede chiaramente che la particolarità di questa casa consiste nell’essere divisa in due corpi distinti collegati solamente da una passerella al secondo piano. Uno più grande e possente colorato di rosso sede dello studio di Diego e uno più piccolo dipinto di blu destinato a Frida. Casa Estudio è la materializzazione delle vite dei due artisti, della loro forza e autonomia.
Città del Messico
Autoritratto con collana di spine
Gli autoritratti di Frida Kahlo La giovane artista attraverso la continua realizzazione di autoritratti creò una realtà parallela nella quale vivere diversamente il suo corpo infermo. Il volto riprodotto nei dipinti è caratterizzato soprattutto dalle folte sopracciglia. La sua immagine divenne così molto nota contribuendo a far conoscere il lavoro dell’artista. Per Frida Kahlo la pittura era il palcoscenico attraverso il quale entrare in contatto con il mondo.
Frida Kahlo, Autoritratto con collana di spine, 1940, olio su tela, 61,25 x 47 cm. Austin, Texas, Harry Ransom Center
Ogni particolare raffigurato nell’immagine possiede un preciso significato legato alla vita dell’artista. La posizione rigidamente frontale crea un legame magnetico con l’osservatore del dipinto. Il carattere dell’artista determinato e paziente emerge con grande evidenza. Frida porta al collo una corona di spine che la feriscono. Si tratta di un evidente richiamo al sacrificio di Cristo sulla croce. Infatti come Cristo anche Frida subisce una passione fisica determinata dal suo incidente e della sua infermità.In questo dipinto l’artista sembra assumere le sembianze di una martire. Infatti l’abito bianco pare una tunica e il colibrì portato al collo sembra una croce nera e ieratica. L’attributo del colibrì morto deriva dalla cultura tradizionale messicana. Infatti questi piccoli animali erano utilizzati come amuleti per favorire la vita amorosa. Il colibrì in questo caso è nero e non brillantemente colorato. Frida lo trasforma in un simbolo del matrimonio fallito con l’artista Diego Rivera. La scimmietta nera potrebbe essere simbolo demoniaco. Inoltre proprio Diego le regalò una scimmietta come questa. Le letture critiche sono varie e ipotetiche. Questo animale portato sulla spalla potrebbe infatti rappresentare anche la maternità alla quale Frida dovette rinunciare a causa dell’incidente. Infine le farfalle che Frida porta tra i capelli e le libellule che volano forse indicano un desiderio di libertà, di leggerezza e di resurrezione. Il fogliame rigoglioso è un simbolo e si riferisce alla fertilità della terra. Anche questo dettaglio sottolinea l’impossibilità di avere dei figli che segnò molto il carattere e l’arte di Frida Kahlo. Frida Kahlo nacque nel 1907 e dipinse questo autoritratto nel 1940 all’età di 33 anni. A questa data l’artista messicana aveva appena divorziato dall’artista Diego Rivera. Inoltre nel 1939 era anche finita la sua relazione con il fotografo Nickolas Muray. Il fotografo acquistò il dipinto dopo la sua esecuzione.
Esame di stato
Filosofia: la nascita della psicanalisi e L’interpretazione dei sogni
Inglese:Eveline in Dubliners di Joyce
Matematica: le funzioni continue. Gli asintoti.
Storia:Rosa Luxemburg e le condizioni imposte alla Germania al termine della prima guerra mondiale.
Educazione civica: Sofia Kovalevskaja prima donna ad ottenere una cattedra in matematica
Frida Kahlo. Analisi di Autoritratto con collana di spine
Letteratura latina: la matrona di Efeso nel Satyricon di Petronio e fonti.
Scienze naturali:La terapia CAR-T e gli xenotrapianti
Letteratura italiana: la donna angelo e la donna fatale